4892 Meno male che c’è il Primo Maggio

20080501 12:10:00 redazione-IT

di Lidia Ravera

Mai Primo Maggio è caduto in un momento meno adatto a far festa, a celebrare e celebrarsi, a far sventolare le bandiere rosse, squillare le trombe e scorrere la retorica sulle magnifiche sorti dei lavoratori. Con il ritmo assunto, negli ultimi anni, dagli incidenti sul lavoro, si potrebbe gemellare con il 2 novembre, il Primo Maggio. Tre al giorno, è la media. Tre operai morti ogni 24 ore. Infatti è dedicato a loro, a quelli che rischiano la pelle per 1000 euro al mese, il tradizionale concerto di Piazza San Giovanni. Che cosa diranno, dal palco, fra un cantante e una band, che cosa dirà il segretario della Cgil, che cosa potrà promettere?

La destra è al governo del Paese e, da pochi giorni, anche della Capitale. La destra, non un centrodestra, non una sinistra moderata, non una rinata democrazia cristiana, no, una coalizione di partiti di destra.

Si farà carico del problema delle morti bianche? Molte delle vittime sono immigrati, spesso precari, indeboliti dal non conoscere le regole, dall’essere gli ultimi arrivati.

A trionfare, quindici giorni fa, alle elezioni politiche nazionali, è stato un partito, la Lega, che sull’immigrazione ha elaborato soltanto un progetto: buttarli fuori, il più presto possibile, il più possibile radicalmente. Non farne entrare altri. Lo festeggeranno, il Primo Maggio, quelli, fra gli operai, che hanno votato Lega? Oppure opteranno per un sobrio raduno padano, a bere ampolle di acqua benedetta da Federico Barbarossa?

Mai il Primo Maggio è stata una festa così poco scontata, così lontana dalla riposante ritualità.

Viene da chiedersi, come per le occasioni mondane, chi ci sarà: quelli che ci sono sempre andati per abitudine e continuano per scaramanzia?

Quelli che siccome era diventata un abitudine non ci andavano più? O, magari, quelli che non ci sono mai andati e che, quest’anno, decideranno di andarci, per l’insopprimibile desiderio di rispondere, da una piazza gremita, allo sconcerto di questo lungo “day after”.

Piazza San Giovanni faticherà a contenerci tutti.

Lì per lì, la botta ci ha tramortiti, riuscivamo a scambiarci soltanto messaggi di incredulità. Di perdere il primo incontro, quello nazionale, i più accorti se lo aspettavano. Di perdere anche quello simbolico, romano, dopo 15 anni di buon lavoro amministrativo, se lo aspettavano soltanto militanti e simpatizzanti della corrente Cassandra, i compagni del bicchiere mezzo vuoto, gente che se tutti fanno il coro non canta, se si aprono le danze e si promettono poltrone, resta seduta sul suo strapuntino, a sorseggiare meditabonda l’amaro calice dell’autocritica. Io ho inoltrato regolare domanda per essere ammessa, in questa énclave di realisti, voglio imparare a prevedere le sconfitte, eventualmente ad evitarle, e, nel caso siano inevitabili, a farle fruttare in termini di consapevolezza degli errori, coscienza dei ritardi e percezione dell’ipotetico protrarsi di illusioni datate. Non so se passerò l’esame, ma intanto mi applico con zelo. Per esempio ho incominciato ad ascoltare con molta umiltà quelli che hanno vent’anni e trent’anni. Non “i giovani” comparsi, per decisione unanime delle segreterie, nelle liste dei Partiti politici, che sbandierano la loro età come se fosse un diploma di eccellenza, no, non loro. Io ho incominciato ad ascoltare i giovani che vivono vite reali, precarie ma appassionate, che danno vita a giornali on line (come il bellissimo «Crak»), che si riuniscono e discutono e leggono Latouche e si interrogano sulla necessità della decrescita e sull’equilibrio ecologico e sulla povertà d’acqua nel pianeta, che lavorano a un progetto di televisione libera, che si sbattono per aprire nuovi canali di circolazione delle idee e dell’informazione… sono questi i giovani che hanno qualcosa da dire. Sono, e ancora si sentono, “di sinistra”, ma non sanno neppure che cos’è l’ideologia. Non si riconoscono nei partiti ma non si riconoscono nemmeno nel vaffa-day. Infatti sono andati a votare. Hanno votato Veltroni e hanno votato Rutelli, controvoglia ma disciplinatamente. «Qui non si tratta di tapparsi il naso, noi stavamo proprio in apnea», mi ha detto uno di loro. Ma è lo stesso che mi ha telefonato in preda alla disperazione per la vittoria di Alemanno. Beh, ho detto, tanto a voi Rutelli non piaceva. Li per lì non ha risposto, poi ci ha ripensato: «Adesso sarà tutto più difficile, ma bisogna farlo lo stesso, bisogna che ci diamo una mossa». Non ho indagato oltre, ma, per la prima volta in quindici giorni, ho percepito un alito di vento tiepido, un po’ di ottimismo. Forse il tanto implorato ricambio generazionale doveva passare proprio per l’amara radicalità di questa sconfitta. Dovevamo percepire, con dolore, la fine dell’epoca in cui siamo cresciuti, veder scomparire le varie rifondazioni comuniste, veder barcollare le nuove formazioni, ancora incerte nelle loro identità moderne. Dovevamo sentir dire a un leader politico “è una sconfitta” e a un giovanotto sconosciuto “è il momento di fare qualcosa” per farci tornare la voglia di festeggiare il “Primo Maggio”, di andarci, tutti insieme, non per partecipare al gran gala del sindacato, ma per guardarci in faccia, per contarci, per mettere in comune, sia la tristezza che la determinazione, sia la pazienza che l’ironia. Come ogni “buon rivoluzionario” deve saper fare, soprattutto in assenza di rivoluzioni.

www.lidiaravera.it

 

 

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EmiNews 2008

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