5036 LUCIANO GALLINO: COSI' L'OCCIDENTE PRODUCE LA FAME NEL MONDO

20080526 14:16:00 redazione-IT

di Luciano Gallino (da La Repubblica)

Tempo fa l’allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la meta’ del mondo guarda in tv l’altra meta’ che muore di fame, la civilta’ e’ giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata e’ cosi’ diventata ancor piu’ realistica. Con una precisazione: la nostra meta’ del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.

Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione,
cinesi e indiani che mangiano piu’ carne, i milioni di ettari destinati non
all’alimentazione bensi’ agli agrocarburanti, ecc. – l’abbiano in qualche
misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non e’ affatto un ciclo
recessivo del circuito produzione alimentare – mercati – consumo. Si puo’
anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir
prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee.
L’intervento decisivo, energicamente avviato sin dagli anni ’80, e’
consistito nel distruggere nei Paesi emergenti i sistemi agricoli regionali.
Ricchi di biodiversita’, partecipi degli ecosistemi locali, facilmente
adattabili alle variazioni del clima, i sistemi agricoli regionali avrebbero
potuto nutrire meglio, sul posto, un numero molto piu’ elevato di persone.
Si sarebbe dovuto svilupparli con interventi mirati ad aumentare la
produttivita’ delle coltivazioni locali con una scelta di tecnologie
meccaniche ed organiche appropriate alle loro secolari caratteristiche.
Invece i sistemi agricoli regionali sono stati cancellati in modo
sistematico dalla faccia della terra.
Dall’India all’America Latina, dall’Africa all’Indonesia e alle Filippine,
milioni di ettari sono stati trasferiti in pochi anni dalle colture
intensive tradizionali, praticate da piccole aziende contadine, a colture
estensive gestite dalle grandi corporation delle granaglie. La produttivita’
per ettaro e’ aumentata di decine di volte, ma in larga misura i suoi
benefici sono andati alle megacorporation del settore, le varie Monsanto
(oltre un miliardo di dollari di profitti nel 2007), Cargill (idem), General
Mills, Archer Daniel Midland, Syngenta, l’unica non americana del gruppo. Da
parte loro i contadini, espulsi dai campi, vanno a gonfiare gli sterminati
slum urbani del pianeta. Oppure si uccidono perche’ non riescono piu’ a
pagare i debiti in cui sono incorsi nel disperato tentativo di competere sul
mercato con i prezzi imposti – alle sementi, ai fertilizzanti, alle
macchine – dalle corporation dell’agro-business. Nella sola India, tra il
1995 e il 2006, vi sono stati almeno duecentomila suicidi di piccoli
coltivatori.
E’ noto che il braccio operativo dello smantellamento dei sistemi agricoli
regionali sono stati la Banca Mondiale, con i suoi finanziamenti per
qualsiasi opera – diga, autostrada, oleodotto, zona economica speciale,
ecc. – servisse a tale scopo; il Fondo monetario internazionale, con
l’imposizione degli aggiustamenti strutturali dei bilanci pubblici (leggasi
privatizzazione forzata di terra, acqua, aziende di servizio) quale
condizione di onerosi prestiti; l’Organizzazione mondiale per il commercio.
Non ultima, soprattutto per quanto riguarda l’Africa, viene la Commissione
Europea, la cui Politica agricola comune ha contribuito a spezzare le reni a
milioni di contadini africani facendo in modo, a suon di sussidi e
jugulatori contratti bilaterali, che i prodotti della Baviera o del Poitou
costino meno, in molte zone dell’Africa, dei prodotti locali. Il tutto con
la fervida adesione dei governi nazionali, che preferiscono avere buoni
rapporti con le multinazionali che non provvedere al sostentamento delle
popolazioni rurali.
Braccio ideologico della stessa operazione sono stati le migliaia di
economisti che in parte operano alle dipendenze di tali organizzazioni, in
parte costruiscono per uso e legittimazione delle medesime, nelle
universita’ e nelle business school, infinite variazioni sul principio del
vantaggio comparato. In origine (1817!) tale principio sosteneva una cosa di
paterno buon senso: se gli inglesi son piu’ bravi a tessere lane che non a
fabbricare porto, e i portoghesi fan meglio il porto che non i tessuti di
lana, converra’ ad ambedue acquistare dall’altro Paese il prodotto che
quello fa meglio. Ma l’onesto agente di cambio David Ricardo sarebbe
sbalordito al vedere che esso, reincarnato in complessi modelli econometrici
digitalizzati, viene impiegato oggi nel tentativo di dimostrare che al
contadino senegalese, o indiano, o filippino, conviene coltivare un’unica
specie di vegetale per il mercato mondiale, piuttosto che coltivare le
dozzine di specie di granaglie e frutti che soddisferebbero i bisogni della
comunita’ locale.
Una volta sostituito a migliaia di sistemi agricoli regionali in varia
misura autosufficienti un megasistema agrario globale che si dava per certo
esser capace di autoregolarsi, il resto e’ seguito per vie naturali. Le
grandi societa’ dell’agrindustria accaparrano e dosano i flussi delle
principali derrate in modo da tenerne alti i prezzi. Fondi pensione e fondi
comuni investono massicciamente in titoli derivati del settore alimentare,
praticando e incentivando la speculazione al rialzo. Cosa che non avrebbero
motivo di fare se la maggior parte delle aziende agricole del mondo fossero
ancora di piccole o medie dimensioni. Da parte loro, illusi dall’idea d’un
mercato globale delle derrate autoregolantesi, i governi dei Paesi
sviluppati hanno lasciato cadere a livelli drammaticamente bassi la
quantita’ delle scorte strategiche: meno di 10-12 settimane per il grano, in
luogo di almeno 24.
Il prezzo del sistema agricolo globale lo pagano i poveri. Compresi quelli
che si preoccupano perche’ anche il prezzo delle tortine di argilla, la
terra che mangiano per placare i morsi della fame quando il mais o il riso
sono diventati inaccessibili, e’ aumentato troppo: succede ad Haiti. La
crisi alimentare in atto non e’ infatti dovuta alla scarsita’ di cibo; esso
non e’ mai stato, nel mondo, altrettanto abbondante. E’ un problema di
accesso al cibo, in altre parole di poverta’, di cui il sistema agricolo
globale ha immensamente elevato la soglia.
Se un gruppo di tecnici avesse costruito un qualsiasi manufatto meccanico o
elettronico tanto rozzo, perverso nei suoi effetti, costoso e vulnerabile
quanto il sistema agricolo globale costruito da Usa e Ue negli ultimi
vent’anni, verrebbe licenziato su due piedi. I funzionari delle
organizzazioni internazionali che l’hanno costruito, gli economisti che
hanno fornito i disegni di base, e i politici che ne hanno posto le basi con
leggi e trattati, non corrono ovviamente alcun rischio del genere.
Al singolo individuo di questa parte del mondo resta da decidere che fare.
Puo’ spegnere la tv, per non doversi sorbire ancora una volta, giusto
all’ora di pranzo, il tedioso spettacolo di bimbi scheletrici che frugano
nell’immondizia. Oppure puo’ decidere di investire una quota dei suoi
risparmi in azioni dell’agrindustria, come consigliano sul web dozzine di
societa’ di consulenza finanziaria. Un investimento promettente, assicurano,
perche’ i prezzi degli alimentari continueranno a crescere per lungo tempo.
Infine puo’ scrivere al proprio deputato in Parlamento chiedendogli di
adoperarsi per far costruire attorno alla penisola, Alpi comprese, un muro
alto dodici metri per tener fuori gli affamati. Se qualcuno conosce altre
soluzioni che la politica, al momento, sia capace di offrire, per favore lo
faccia sapere.

www.repubblica.it

 

 

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EmiNews 2008

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