5272 ITALIA, MANOVRA: DI GRAN CARRIERA VERSO L'ABISSO

20080723 15:06:00 redazione-IT

Articololi ed interventi sulla "Manovra"del Governo Berlusconi tratti da "Il Manifesto"

– Il grande sfracello, di Gabriele Polo
– La strage dei diritti, di Piergiovanni Alleva
– Colpo al cuore della stampa di Giancarlo Aresta
– IL TAGLIO DELLE LIBERTÀdi Antonio Sciotto
– BENI CULTURALI: Il patrimonio è «liquidato» di Arianna Di Genova e Marta Ragozzino
– UNIVERSITÀ: La rivolta dei rettori: «Così rischiamo di chiudure», di Eleonora Martini
– AMBIENTE: privatizzare i parchi

Il grande sfracello
Gabriele Polo

Una Finanziaria feroce: autoritaria nel metodo, crudele nella sostanza. Questa è la manovra sbrigativamente approvata ieri dalla camera, in attesa del voto definitivo del senato. Una «pratica» da sbrigare in fretta, per poi andarsene allegramente in vacanza, in attesa di un autunno che sarà socialmente durissimo (per l’occupazione e per i redditi), ma che tutti fanno finta di rimuovere, preferendo perdersi nelle cortine fumogene di effimeri scontri, come quello sulla lesa maestà di un brutto inno nazionale. Mentre la vera lesione in corso è quella contro la democrazia di un parlamento posto nell’impossibilità di discutere alcunché e contro la costituzione materiale di una repubblica feudalizzata in potentati individuali. Primo fra tutti quello del principe di Arcore.
Il ciambellano Tremonti ha messo in campo una serie di misure all’insegna del taglio di tutto ciò che si muove, dagli animali dei parchi agli studenti dell’università, passando per i salari dei dipendenti pubblici, i custodi dei musei, i malati. Brunetta e Sacconi ne accompagnano l’opera dilagando sulla precarietà del lavoro. Mentre l’opposizione insegue Mameli, le vicende giudiziarie e private del premier e s’accontenta di raccogliere firme in attesa di una manifestazione che verrà solo a ottobre. Forse. Tanto, assicura Veltroni, «il berlusconismo è finito, resta solo Berlusconi».
«Solo». Come se tutti i problemi si concetrassero in una persona (o nei suoi interessi privati) e non in una trasformazione violenta e dall’alto che traduce in leggi, decreti e circolari le peggiori pulsioni maturate nel paese (e da Berlusconi raccolte) in più di un ventennio. Miasmi profondi che considerano un male tutto ciò che è pubblico, che – anzi – riducono il «pubblico» ad affare privato; «garante» il libero mercato, quello che prepara gli sfracelli d’autunno.Tra i quali c’è anche – nel suo «piccolo» – la sorte della libertà di stampa. Che in questi anni è stata violentata e ridotta in tanti modi, dagli oligopoli alle concentrazioni delle testate fino all’uso politico del mercato pubblicitario. E che ora viene attaccata sul terreno della finanza, con i massicci tagli ai contributi pubblici per l’editoria cooperativa e politica previsti dalla manovra votata ieri.
Chi non ha un padrone non merita di esistere, questo il messaggio che arriva, in perfetta coerenza il pensiero dominante. Decidendo che la comunicazione non è un bene pubblico da garantire, ma un affare privato da cui trar profitto. Il risultato concreto è che quei tagli – che mettono il Sole 24 Ore sullo stesso piano del manifesto – potrebbero far chiudere questo giornale, che può vivere solo se concepito come un pezzo del tessuto democratico del paese. Ma la democrazia – con i suoi costi – contrasta l’omologazione del pensiero e concepisce la libertà come possibilità di pluralità. Per questo è perseguitata nel nostro tempo. Non è berlusconismo, questo?

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La strage dei diritti
LAVORO Come il centrodestra sta controriformando tutte le flebili garanzie introdotte dal centrosinistra
Piergiovanni Alleva

Lo spirito che anima la prima produzione normativa del governo Berlusconi in tema di lavoro e sicurezza sociale (DL n. 93/2008 e 112/2008) può ben essere definito «controriformista», teso, cioè, a disfare e annullare quelle modeste garanzie che il governo di centrosinistra aveva introdotto, per arginare almeno alcuni dei guasti della «legislazione della flessibilità».
Vediamo alcuni esempi, che rendono evidente questo intento di rivalsa, miope e protervo.
La legge 188/2007 (tra l’altro approvata all’unanimità) imponeva procedure specifiche, sotto controllo pubblico, per la validità delle dimissioni. Aveva posto fine alla vecchia pratica truffaldina e ricattatoria delle lettere di dimissioni «in bianco» strappate al lavoratore all’atto dell’assunzione: ora l’art. 39 del DL 112/2008 l’ha abrogata, dopo pochi mesi, rendendo di nuovo possibili inganni e ricatti.
Ancora – ed entriamo nel tema drammatico del precariato – la legge finanziaria 296/2006, all’art. 1 comma 1173 e 1174 aveva cercato di stabilizzare il lavoro in agricoltura introducendo gli indici di congruità della mano d’opera. Adesso non soltanto questo intelligente esperimento viene cancellato, (art. 39) ma il precariato in agricoltura viene portato all’estremo, classificando (art. 22) le attività agricole di carattere stagionale come lavoro occasionale accessorio, che potrà essere acquistato e retribuito tramite «buoni».
Sulla stessa lunghezza d’onda viene poi reintrodotto il lavoro «a chiamata», che la legge n. 247/2007 (protocollo welfare) aveva abolito, mentre con riguardo all’istituto cardine del precariato, ossia al contratto a termine, vengono formulate (art. 24) delle modifiche peggiorative esattamente mirate contro le misure di garanzia faticosamente introdotte dal protocollo welfare.
Laddove quest’ultimo ribadiva che il contratto a tempo indeterminato è il modo normale della prestazione di lavoro, l’art. 21 del DL 112/2008 ribatte invece che il contratto a termine può essere utilizzato anche per esigenze riferibili «alla ordinaria attività del datore di lavoro». Dove il protocollo welfare stabiliva un «tetto» di durata cumulativa di 36 mesi (superabile al massimo per una volta sola) e un diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato nei 12 mesi successivi, il suddetto art. 21 si affretta a consentire che discipline diverse, ovviamente anche peggiorative, possono essere dettate dai contratti collettivi anche aziendali – si noti – purché stipulati con organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
E qui si rende palese un altro «ritorno» all’esperienza del precedente governo Berlusconi del 2001-2006, perché diverse altre disposizioni si ritrovano nel DL 112/2008, che prevedono l’utilizzo della contrattazione collettiva, anche aziendale, in funzione di deroga peggiorativa di garanzie di legge. Così ad esempio, in tema di apprendistato (art. 22) ove contratti collettivi, anche aziendali, possono escludere qualsiasi controllo della regione sulla formazione fornita in concreto ai giovani in azienda, o in tema di orario di lavoro (art. 41), dove tutta la materia dei riposi giornalieri, delle pause, del lavoro notturno può essere oggetto di deroghe da parte di contratti collettivi anche territoriali o aziendali.
E’ per noi evidente che il governo di centrodestra spera in nuovi «Patti per l’Italia», in accordi separati con alcune confederazioni sindacali soltanto, che consentano, in piena autoreferenzialità, di compiere ogni genere di manomissione di diritti e garanzie, all’insegna di quella «concertazione subalterna» di cui è ancora vivissima la memoria.
Si ritorna, dunque, a quello che, da più di 20 anni costituisce il problema di fondo del diritto del lavoro italiano, che i governi di centrosinistra non hanno mai avuto la forza, – e quelli di Centro Destra la volontà -, di risolvere. Il problema, cioè, di una legge su rappresentatività e democrazia sindacali, senza la quale gli accordi sindacali con valore materiale di legge, finiscono con il costituire (per mancanza di controlli su misura della rappresentatività e consenso dei rappresentati), non già espressioni di partecipazione democratica, ma del suo contrario, ovvero di autoreferenzialità corporativa ed appropriazione privata di interessi generali.
Mentre scriviamo, in Parlamento la maggioranza sta – ça va sans dire – «migliorando» il testo governativo in maniera da renderlo un monumento «aere perennius» che certamente gli storici del diritto apprezzeranno come espressione massima, nella versione italiana, della civiltà giuridica nell’epoca della globalizzazione.

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FINANZIARIA
Colpo al cuore della stampa
1 Con un colpo di forbice, la finanziaria taglia 83 milioni per il 2009 e 100 per il 2010 al fondo per l’editoria. Mandando al patibolo le cooperative vere – tra cui il manifesto – e mantenendo i privilegi di quelle finte
Giancarlo Aresta

Giulio Tremonti, commercialista cattedratico (divenuto filosofo del capitalismo globalizzato, alla vigilia delle elezioni, con la pubblicazione di un felice e molto interessante libretto, La paura e la speranza), tornato ministro, sulle ali della speranza, ha lasciato a se stessa la filosofia e si è impegnato a trovare un marchingegno per far pagare «lacrime e sangue» a un paese ormai allo stremo.
E’ il dominio della paura. E per agire sulla paura ci vogliono tempi assai stretti, ansia, affanno, capacità di condizionamento (della maggioranza, oltre e prima ancora dell’opposizione). Nasce di qui, l’idea di anticipare a luglio e in un decreto la Finanziaria 2009. Sembra un’idea geniale. E i cretini, a partire da quello che si definisce «il maggior quotidiano italiano», gli vanno dietro. Meno di sette minuti per approvare la manovra in Consiglio dei ministri. Solo 60 giorni per il voto definitivo in Parlamento: dal 25 giugno al 24 agosto. Ma i 60 si ridurranno a 40, perché nessuno mai riuscirà a far sedere nelle Camere i deputati e senatori italiani dopo il 5 o 6 agosto.
E così comincia la storia di una legge, che cambierà in profondità la costituzione materiale del paese (sanità ridotta in pezzi, welfare dei comuni cancellato in parti importanti – ma la Lega dov’è? a difendere il bidone che si svuota del federalismo? -, riduzione dell’obbligo scolastico a 14 anni, in un paese che sta regredendo in modo impressionante, attacco alla libertà di stampa).
Attacco feroce
Dovendo trovare soldi a destra e a manca, con una recessione da far paura e in un paese che ha un capitalismo da burletta, l’ingegnoso Tremonti – insieme a tanti altri – ha puntato il suo occhio acuto sul fondo dell’editoria della presidenza del Consiglio dei ministri (sono 414 milioni per il 2008, ma 387 per il 2009 e 387 per il 2010). Con un colpo di forbice, risulta facile tagliare 83 milioni per il 2009 e 100 per l’anno successivo. Forse, al Tesoro sfugge che il fabbisogno di questo settore, tutelato da riserva di legge, è di 580 milioni circa per il 2008, e altrettanti, più o meno, per gli anni successivi? No, credo che non «sfugga», tanto che nel Decreto 112/2008, all’art. 44, si scrive – in un testo di semplificazione legislativa, che impropriamente coinvolge anche materie coperte da norma primaria, come i «criteri di erogazione» dei contributi all’editoria – che i decreti relativi alla «semplificazione normativa sono emanati senza oneri aggiuntivi per la finanza pubblica e tenuto conto delle somme stanziate nel bilancio dello stato per il settore dell’editoria, che costituiscono limite massimo di spesa».
La nuova norma sostiene, pertanto, limitatamente ai contributi diretti, poiché a quelli si rivolge il testo legislativo, che «lo stanziamento» è «limite di spesa», pur parlando di un fondo già – per opera del precedente governo – sottostimato di 170 milioni, che oggi viene quasi raso al suolo.
Ma vediamo come stanno le cose.
Nel 2008, i contributi postali, che si danno a tutte le imprese editoriali e si concentrano pericolosamente nelle mani dei grandi gruppi, rappresentano un costo di 305 milioni; i contributi diretti – che dovrebbero andare alle società non profit, cooperative e fondazioni, e ai giornali di partito, ma finiscono anche nelle mani del gruppo sanitario Angelucci (con due testate diversamente orientate, Libero e Il Riformista), delle tante cooperative un po’ fasulle (che non sono cooperative di lavoro), ad esempio quelle inquisite di Ciarrapico o di proprietà di società quotate in borsa, come Class Editori – impegnano circa 190 milioni. Dopo, con lo stesso fondo, bisogna finanziare le radio e pagare le Poste italiane per un vecchio debito consolidato.
L’addio al diritto
Ora, se limitatamente ai contributi diretti, si riduce quello che nella legislazione attuale era il diritto soggettivo ai contributi, cioè a ottenere dallo stato risorse certe, commisurate alla tiratura e alla diffusione dei giornali non profit e di partito, siamo alla catastrofe.
E al rischio di chiusura di testate come il manifesto, Il Corriere mercantile, Il Corriere di Romagna, Bari Sera, La Voce di Mantova, La Cronaca di Cremona, L’Unità, Liberazione, La Padania, Il Secolo, L’Avvenire. Una cosa assurda, in un paese, tra i pochi al mondo, in cui esiste una intollerabile anomalia televisiva, dove le Tv concentrano la maggioranza delle risorse pubblicitarie, e il presidente del Consiglio è un monopolista televisivo.
Non scherziamo.
L’antefatto
Per la verità, negli ultimi anni, la carta di ridurre i contributi all’editoria tagliando pro-quota i contributi diretti, l’hanno tentata un po’ tutti. Prima il governo di centro-destra nell’autunno 2005, con la Finanziaria 2006, poi quello di centro-sinistra, con il primo decreto legge Bersani sulle liberalizzazioni.
E’ ovvio che si faccia così. E’ la via più facile. Togliere un tanto a testa alle testate che ricevono i contributi diretti, mettendo sullo stesso piano le cooperative di giornalisti e i giornali editi da cooperative fatte da «signori», che non scrivono un rigo. I giornali che vanno ogni giorno in edicola e quelli distribuiti per vie misteriose. Quelli sostenuti nell’acquisto dai loro lettori e i quotidiani, la cui diffusione (e i contributi che ne discendono) vengono gonfiati da «vendite in blocco», a prezzi irrisori, ad acquirenti di comodo. I giornali di quarantaquattro pagine, come L’Avvenire, e quelli di quattro (Il Foglio e Il Riformista, ad esempio), che tutti ricevono gli stessi contributi sulla base delle copie tirate e diffuse.
Si potrebbe ridurre questo costo con una riforma seria, che intervenga su queste patologie del sistema. Ma sarebbe doloroso, e costringerebbe a dire dei no anche alla propria parte politica, ad aprire «liti in famiglia». La via più facile, che è anche la più ingiusta, è quella di fare parti uguali tra diseguali, abolendo il diritto soggettivo.
Ora, contro misure analoghe, il Parlamento si è opposto anche nel 2005 e nel 2006, con l’impegno di tutte le forze politiche e facendo sentire alta la sua voce. Per la verità, la Camera dei deputati ha sbarrato la strada a questo obbrobrio anche nella discussione del Decreto legge 112, presentando 69 emendamenti convergenti di tutti i gruppi politici, firmati da 73 deputati. Ma questa volta ha sinora prevalso la dittatura dei tempi.
E sappiamo che al Senato si chiederà alla maggioranza una disciplina ferrea, mentre si mette un morso all’opposizione, nel nome del completamento del nuovo miracolo italiano: fare la Finanziaria vera in tempi record, riducendo la sessione autunnale di bilancio a un nuovo Carosello, in cui il Parlamento si occuperà di veder pascolare le pecore.
Gli effetti possibili
Se questo testo legislativo dovesse restare in piedi alla fine dell’iter, ingiustizia sarebbe fatta. Decurtando un fondo già pesantemente inadeguato e colpendo il diritto soggettivo, le testate vedrebbero messi in discussione i propri bilanci e, ancor prima, i propri rapporti bancari. E parliamo di giornali, come quelli cooperativi, che subiscono una profonda discriminazione sul mercato della pubblicità.
E vedremmo scomparire dallo scenario dell’informazione italiana decine di testate non profit, nazionali e locali, e diversi giornali di partito. Il paese, la sua democrazia, possono permettersi una tale, drastica riduzione del pluralismo, mentre lo scenario televisivo è dominato da un oligopolio e anche nella carta stampata si afferma una tendenza alla concentrazione dell’informazione in pochi grandi gruppi, dopo una lunga stagione di vero ed articolato pluralismo? Può permetterselo questo governo, capeggiato da Berlusconi, proprietario di aziende, che fatturano da sole di pubblicità circa il doppio di tutti i quotidiani italiani messi insieme? Sinceramente, crediamo di no.
La speranza
La cancellazione dei contributi diretti colpisce tanti giornali cooperativi e di partito. Ma resterebbero intatti i contributi indiretti.
Pochi sanno che il maggiore percettore di aiuti statali tra gli editori è il gruppo Mondadori, con oltre 20 milioni di euro l’anno (dati 2005), come contributi postali. E seguono a ruota Il Sole-24 Ore con oltre 17 e il gruppo RCS con 13. I grandi gruppi, tutti insieme, la fanno da padrona.
E’ sostenibile una situazione così indecorosa, che farebbe morire qualche decina di testate, mentre si danno fior di soldi a gruppi quotati in borsa, che vanno ad arricchire i dividendi versati agli azionisti?
Sarebbe un mostruoso paradosso, di cui potrebbe gioire solo il giullare genovese, autore dei referendum sui contributi alla stampa.
Non crediamo che questa scelta, che stralcia in un decreto il contenuto sostanziale di qualsiasi riforma dell’editoria – rendendola inutile e persino beffarda -, possa essere accettata e condivisa dall’onorevole Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega all’editoria, che pochi giorni fa ha rassicurato la Commissione cultura della Camera sui contributi diretti. Né che possa vedere passivo il Senato, che con tutti i suoi gruppi, per due volte negli ultimi tre anni ha impedito che dai governi venisse un colpo mortale al pluralismo dell’informazione a stampa.
Lo stesso governo deve acquistare consapevolezza della ferita democratica di cui sarebbe responsabile diretto, se si verificasse la crisi di tante testate, anche storiche, che danno sostanza alla democrazia dell’informazione.
I tempi, in un percorso di guerra come quello del decreto finanziario, sono un capestro. Ma occorre che la saggezza prevalga, se non si vuole chiudere una pagina importante della storia culturale del paese.

FINANZIARIA

IL «FONDO»
Per l’anno in corso è previsto un esborso di circa 580 milioni di euro. Di questi 305 vanno ai contributi postali, di cui 101 all’associazionismo e al volontariato, e 204 agli editori, largamente concentrati nei gruppi maggiori. 190 circa vanno, come contributi diretti, all’editoria non profit, cooperativa e di partito (circa 229 testate). Tra queste testate ci sono vere imprese autogestite in forma cooperativa, ma anche testate edite da cooperative spurie (gli ex giornali di movimento politico, tra cui Libero, il Foglio e il Riformista: e si tratta di 10 testate) o da queste controllate (sono 19 quotidiani, tra cui quelli di Ciarrapico). Il contributo pubblico interviene in rapporto a parametri definiti sulla base dei costi di testata, della diffusione e della tiratura.
I BENEFICIARI
A percepire maggiori finanziamenti pubblici sono i grandi gruppi, spesso quotati in borsa. Ad esempio (Indagine conoscitiva dell’Autorità garante della concorrenza e il mercato del luglio 2007, riferiti al 2005) il primo è il gruppo Mondadori con oltre 20 milioni; segue Il Sole-24 Ore con 17,822 milioni; poi Rcs con 13,793. Mentre il gruppo l’Espresso ne riceve 4,689. A questi vanno sommati i contributi agli investimenti. Per capirsi, il gruppo Mondadori riceve contributi pubblici per 20 milioni, mentre tutti i 27 quotidiani editi da cooperative di giornalisti costano allo Stato 44 milioni (fonte: Presidenza del Consiglio).

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IL TAGLIO DELLE LIBERTÀ
Il piccolo manovratore
Primo sì della camera alla finanziaria tutta tagli del ministro Tremonti. Confermate le impronte digitali sulla carta di identità e la «social card» per i poveri. Estesi i ticket agli esenti. Via persino i fondi per l’edilizia pubblica
Antonio Sciotto
ROMA

Il decreto legge che contiene il cuore della manovra finanziaria ha ricevuto ieri il sì della Camera, con votazione di fiducia: 323 i voti a favore, 253 quelli contrari. Il voto finale si dovrebbe avere giovedì mattina, poi il testo attende il via libera del Senato, che potrebbe arrivare già entro la prima settimana di agosto. La manovra ha il valore di 35 miliardi di euro in tre anni, prodotti in gran parte con tagli ai servizi di prima utilità, come la pubblica amministrazione e la sanità. Di seguito tentiamo un breve riassunto delle principali misure, ma mettiamo subito in evidenza alcune chicche, in gran parte conferme delle notizie circolate nei giorni scorsi: 1) la carta di identità avrà durata decennale e dal primo gennaio 2010 conterrà anche le impronte digitali; 2) i ticket sulla diagnostica e specialistica vengono confermati anche per i cittadini esenti, ma con una sorta di «scaricabarile»: non vengono imposti direttamente dallo Stato, ma offerti come «opzione» alle Regioni che sforano; ma dato che i trasferimenti per coprire i ticket avrebbe dovuto garantirli lo Stato, è chiaro che si tratta solo di un escamotage; 3) si allenta il contrasto all’evasione fiscale, con varie misure, tra cui l’innalzamento da 5 mila a 12.500 euro della soglia massima per l’utilizzo del contante (il governo Prodi, al contrario, per cifre sopra i 5 mila euro aveva obbligato all’uso degli assegni).
Robin amico dei ricchi
Fiore all’occhiello della manovra, ennesima trovata del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, è la cosiddetta «Robin tax», quella che dovrebbe togliere ai ricchi (i petrolieri), per dare ai poveri (gli anziani elemosinati dalla «social card»): aumenta l’addizionale Ires del 5,5%. In realtà, che la Robin sia nè più nè meno che l’ennesima «fregatura», lo ha fatto intuire persino il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, il quale ha avanzato – con il massimo dell’autorevolezza economico-finanziaria – il ragionevole dubbio che le società tassate possano scaricare l’imposta sui prezzi praticati ai consumatori. Una polemica che però non ha fatto desistere Tremonti, convinto a voler recitare la parte dell’arciere buono che porta i gruzzoletti davanti alle porte delle famiglie più disagiate. E infatti l’altra pensata, che fa il paio con la Robin, è la «Social card», una carta che assicurerebbe sconti-spesa ai pensionati poveri o al minimo.
Sanità pubblica a zero
Anche qui, un abile giro di parole, fa apparire Robin Hood quello che in realtà è lo sceriffo di Nottingham: il governo afferma di aver eliminato i ticket, ma subito dopo precisa che coprirà solo la metà degli 834 milioni di euro necessari, e che il resto graverà sulle Regioni; un emendamento consente a queste ultime di mantenere «in misura integrale o ridotta» il ticket sulla diagnosticao di applicare «altre forme di partecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria», per i cittadini non esenti. Tutto questo politichese, vuol dire in soldoni che le Regioni potranno imporre i ticket anche agli esenti, cioè i più poveri.
Ministeri falcidiati
Il maxiemendamento aggiunto nelle ultime settimane ha aumentato i tagli previsti inizialmente: i ministeri avranno 8,435 miliardi di euro in meno nel 2009, 8,929 nel 2010 e ben 15,611 nel 2011. Ma la pubblica amministrazione paga caro anche sul fronte degli enti locali: le Autonomie dovranno rinunciare, in base al «Patto di stabilità interno», a 3 miliardi di euro nel 2009, 5 nel 2010 e 9 nel 2011. Tagliati anche i compensi di sindaci e consiglieri comunali: -20% per i comuni «virtuosi» (che stanno dentro i paletti stabiliti dal Patto) e -30% per quelli non virtuosi (circa 1 su 10). Le comunità montane riceveranno 30 milioni in meno ogni anno.
Pubblici, contratto o sciopero
La manovra non ha ancora risolto il nodo del pubblico impiego, che resta quello più caldo e soprattutto più a rischio mobilitazioni. A parte la stretta brunettiana su malattie e salari di produttività, mancano ancora almeno 400 milioni di euro da stanziare per i rinnovi. I sindacati confederali hanno già annunciato che se non ci saranno le risorse, il pubblico impiego e la scuola si mobiliteranno in settembre. Le organizzazioni di base (Rdb-Cub, Confederazione Cobas e Sdl) hanno già indetto uno sciopero generale per il prossimo 17 ottobre.
Casa, i soldi sono spariti
Il governo ha deciso di istituire un «fondo speciale di garanzia per l’acquisto della prima casa da parte di single con figli piccoli», ma dall’altro lato i soldi li ha fatti sparire: sono saltati infatti i 550 milioni per l’edilizia pubblica che erano stati previsti da un decreto legge del 2007.
Sanatoria per i redditi on line
Chi in primavera aveva pubblicato on line i redditi degli italiani (e anche chi li aveva scaricati per poi diffonderli a sua volta) non rischia più di venire sanzionato. La manovra ha infatti disposto una sanatoria «per gli elenchi, anche già pubblicati, concernenti i periodi di imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2004». Bene per la sanatoria, ma sarebbe meglio pubblicarli ogni anno.

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BENI CULTURALI Quasi azzerato il Mibac
Il patrimonio è «liquidato»
Arianna Di Genova e Marta Ragozzino

Promettendo il taglio dell’Ici sulla prima casa Berlusconi ha agganciato l’umano desiderio degli italiani di fare un piccolo risparmio sulla proprietà privata. Ogni promessa è debito, ma accade che il decreto sull’esenzione dell’Ici, prontamente emanato (93/2008), deve recuperare altrove i mancati introiti derivanti dalla tassa sulla propria casa. Tremonti, a corto di fantasia, ha ribadito la sua ossessione, sedendo ancora sulla poltrona governativa: far cassa con i beni culturali e paesaggistici. Però questa volta si è spinto oltre, giungendo alla (quasi) liquidazione del ministero per i beni culturali. Perché nel triennio prossimo, si prevede un taglio del 70% delle sue risorse. Un po’ per anno, disintegrando fondi per la tutela, per le missioni dei suoi funzionari, picconando le attività culturali in modo selvaggio tanto da mettere a rischio la norma costituzionale che obbliga lo stato alla salvaguardia del suo patrimonio artistico.
L’obiettivo primario è oggi difendere il privato penalizzando il patrimonio pubblico per eccellenza, il paesaggio, cancellando ad esempio i 45 milioni di euro stanziati per il «ripristino dei paesaggi degradati» dalla scorsa Finanziaria (2008). Il precedente governo, alla fine, si era interessato alla conservazione del nostro territorio e, sul filo di lana, era riuscito anche a varare una buona riforma alla legge di tutela sui beni paesaggistici.
Ma a Tremonti non basta saccheggiare quanto destinato a recuperare gli scempi edilizi (dagli ecomostri alle villettopoli passando per un degrado diffuso, spesso frutto di una pessima amministrazione locale). A copertura dei mancati introiti Ici servono anche gli accantonamenti di bilancio dei beni culturali (15 milioni tra 2008 e 2010) e, in prospettiva, altri 90 milioni, che confluiranno nel «fondo per interventi strutturali di politica economica».
Salvatore Settis, presidente del Consiglio nazionale dei beni culturali, ne scriveva preoccupato all’inizio di luglio. Alle sue parole è seguita una ridda di polemiche che, pur non contestando gli allarmanti dati dei tagli, hanno gettato solo fumo sulle legittime preoccupazioni.
La stretta sui beni culturali non si limita, infatti, alle già sostanziose «cancellazioni» necessarie per rimpolpare le casse rimaste senza Ici. A queste prime decurtazioni si aggiungono quelle contenute nel decreto legge 112/2008, con le sue «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria» che sta per essere trasformato in legge.
Sono questi, in sintesi, i numeri che portano alla liquidazione stessa del ministero di Bondi: 228 nel 2009, 240 nel 2010 e 423 nel 2011. E gran parte del «sacrificio» converge proprio sulla tutela (per esempio, 198 milioni su 228 nel 2009 e così via, a crescere, negli anni seguenti).
112 deve comunque essere un numero che porta fortuna a Tremonti: anche il decreto sulla Patrimonio Spa portava lo stesso numero. Era l’estate del 2002, e allora si trattava di far cassa sdemanializzando e alienando i beni pubblici: la riforma del codice dei beni culturali, varata lo scorso marzo dal governo Prodi, ha permesso di arginare i rischi di dismissione del patrimonio, rendendo molto più difficile alienare i beni pubblici.
Il decreto di questa nuova estate «calda» taglierebbe circa un miliardo nel prossimo triennio. Più di 700 milioni verrebbero sottratti alla tutela del patrimonio culturale. E l’eco dell’insana manovra di Tremonti già si fa sentire, prima ancora dell’entrata in vigore. I tagli (virtuali?) già ricadono, infatti, sulla vita quotidiana delle soprintendenze, l’ultimo anello, il più importante, della catena dell’amministrazione statale dei beni culturali. Un anello non trascurabile perché esercita la tutela diretta sul territorio e quindi, dovrebbe curare la conservazione e i restauri di tutti i beni, vigilare sul paesaggio e tenere aperti i musei nazionali e i siti archeologici.
Molti soprintendenti si vedono costretti a bloccare le missioni, mentre i direttori regionali hanno ricevuto la richiesta di interrompere tutti gli appalti, in attesa di una fantomatica ricognizione dei lavori. Gli uffici sono alla paralisi, l’attività quotidiana rischia di azzerarsi. È il panico, stato d’animo che può generare soltanto il deterioramento progressivo del patrimonio, per ovvia e ineludibile carenza di tutela.
Il rischio è che la salvaguardia del patrimonio si affidi alle regioni (molte delle quali non hanno mai difeso il paesaggio dall’aggressione dell’abusivismo, diventando complici dei «palazzinari). Ci sono regioni che già si stanno facendo avanti, cantando vittoria… La Lombardia è tra le prime, mossa lungimirante.

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UNIVERSITÀ
La rivolta dei rettori: «Così rischiamo di chiudure»
Eleonora Martini
ROMA

Oltre due miliardi di euro in meno a disposizione del sistema universitario italiano nei prossimi cinque anni. E per La Sapienza di Roma, il più grande ateneo d’Europa, tagli per 160 milioni di euro. Drastica riduzione del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo), pesante limitazione del turn over (ridotto al 20% in termini di unità e di spesa rispetto alle cessazioni dell’anno precedente), tagli agli stipendi del personale non contrattualizzato. È il più potente attacco sferzato all’università pubblica italiana, che per salvarsi avrà un’unica via d’uscita: trasformarsi in Fondazioni private, come prevede in forma non obbligatoria il Decreto legge 112 approvato ieri con il voto di fiducia alla camera. E se il Dl non troverà resistenze nemmeno in senato, «entro il 2013 sarà compiuta l’opera di smantellamento del sistema pubblico della ricerca e della formazione» portando l’Italia sempre più distante dall’obiettivo fissato a Lisbona che prevedeva di destinare alla ricerca e all’università il 2% del Pil (oggi siamo allo 0,9%).
È l’allarme che ieri è stato lanciato, alla Sapienza di Roma, da una gremita Aula magna dove il Rettore Renato Guarini aveva convocato docenti, studenti e personale tecnico amministrativo. Una prima volta, a memoria dei tanti partecipanti. Perché «non era mai successo che un Magnifico convocasse un’assemblea generale per avviare una fase di lotta contro la privatizzazione dell’università». Ma la battaglia che parte dalla Sapienza trova già echi in tutto il paese, come hanno testimoniato in un collegamento in diretta, i Senati accademici e i Cda degli atenei dell’Emilia Romagna riuniti in seduta congiunta.
A conclusione del dibattito che a tratti ha assunto anche toni molto critici contro il «sistema privatistico» e «baronale» dell’università italiana, è stata votata una mozione nella quale si afferma chiaro e tondo che «nessuna Fondazione è ipotizzabile come trasformazione dell’università, che deve essere e rimanere pubblica». E si chiede «la sospensione degli articoli del Decreto 112/08 relativi alle misure per l’università», o in subordine che i fondi bloccati dalla Finanziaria siano riassegnati al Ffo «per alcune finalità vitali al sistema universitario». Nella mozione finale non si è ritenuto di adottare una delle tante forme di lotta proposte durante l’assemblea. C’era chi chiedeva di chiudere tutti gli atenei italiani per un giorno, o addirittura di fermare l’anno accademico 2008-2009. C’era chi invece ha proposto di bloccare piuttosto tutti i rapporti accademici internazionali, affinché non si penalizzino ulteriormente gli studenti che quasi inevitabilmente vedranno lievitare le tasse universitarie. La proposta che ha trovato maggiore consenso è stata quella di negare l’approvazione del bilancio preventivo per l’anno 2009, con conseguente commissariamento dell’ateneo. «Vengano Brunetta e Tremonti, docenti assenteisti per eccellenza nei loro atenei, a far quadrare il bilancio della Sapienza, se ne sono capaci», ha puntato il dito Marco Merafina, coordinatore nazionale dei ricercatori, suscitando il primo grande applauso della mattinata.
Secondo quanto illustrato dal rettore Guarini, infatti, le conseguenze economiche sul sistema universitario degli articoli 16 (che prevede la trasformazione in Fondazioni), 66, 68 e 69 del Decreto 112, si possono calcolare in una riduzione dell’Ffo di 1441,5 milioni di euro, dal 2009 al 2013, a cui vanno aggiunti altri 480 milioni di euro di tagli sugli stipendi del personale (scatti di anzianità ogni tre anni anziché ogni due) e altre forme di «razionalizzazione» delle spese. L’impatto sulla Sapienza si traduce invece in una decurtazione dell’Ffo di 116 milioni di euro nei prossimi cinque anni (ogni anno ne riceve circa 500 milioni), più altri 44 milioni derivanti da altre manovre di contenimento delle spese.
«Si invoca il potere taumaturgico della privatizzazione quando in Italia le università private, come la sanità privata, si reggono sui soldi dei cittadini. Non sono certo le imprese private a finanziarle», ha fatto notare accolto da applausi Stefano Lazzarini, rappresentante delle sigle sindacali del personale tecnico-amministrativo. «Si vuole introdurre il modello privato delle Fondazioni – ha aggiunto Guarini – in controtendenza agli obiettivi europei, e lo si fa silenziosamente, sotto mentite spoglie, senza mai nominare come tale la privatizzazione dell’università e senza coinvolgere il parlamento. Circostanza questa che solleva dubbi di costituzionalità».

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AMBIENTE È polemica sulla proposta di privatizzare i parchi della ministra Prestigiacomo
Aree naturalistiche a prova di sponsor

Nella foga del «fare cassa» a tutti i costi, sono finiti anche i parchi italiani, i gioielli naturalistici offerti dal nostro territorio. A metterceli senza esitazione alcuna è stata la ministra per l’ambiente Stefania Prestigiacomo, sfoderando l’idea di affidare a fondazioni non solo i 24 parchi nazionali, ma anche le riserve e le oasi naturalistiche. Lo ha fatto con nochalance, intervenenendo a margine di un convegno. «Non si tratta di privatizzare tutto – sostiene convinta – ma la gestione sì». Quel settore si è trasformato in un inutile «poltronificio», ha infierito poi. E il vespaio di polemiche non ha tardato a sollevarsi. Perché i parchi hanno diversi enti territoriali che li «accudiscono» e un giorno, quando gli sponsor investiranno nel verde delle Dolomiti o del bell’Abruzzo, dimenticheranno senz’altro i programmi sulla biodiversità, per adesso compito svolto, con alterne fortune, dal servizio pubblico. Fatti due conti, non sarà questa la loro priorità. Un ministro dell’ambiente «nemico» di ciò che dovrebbe tutelare? Le aree protette volgarmente cartolarizzate da un governo disperato? Secondo molti dell’opposizione e in linea con i tagli preannunciati in finanziaria, l’iniziativa sarebbe tesa a nascondere i «buchi» di denaro futuri, una corsa ai ripari che mette pericolosamente la salvaguardia al secondo posto. 250 sono i milioni tagliati di netto all’ambiente. Per il Wwf, Prestigiacomo dovrebbe studiare la legge-quadro che regola, con risultati ritenuti più che soddisfacenti, la gestione delle aree naturalistiche. Acque, foreste, coste, flora e fauna, sono beni inalienabili, beni che producono anche ricchezza, grazie al turismo e al giro di affari che sfiora un punto percentuale del Pil nazionale. E per Legambiente, «i privati nei parchi rischiano di essere una vera saracinesca».

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