5533 Mercato addio torna lo Stato

20080909 09:20:00 redazione-IT

Marco Simoni*

«Le passività di queste istituzioni sono vicine al 40% del prodotto interno lordo degli Stati Uniti. Se queste passività figurassero nel bilancio pubblico, d’improvviso gli Stati Uniti apparirebbero essere come l’Italia». Con queste parole amare Martin Wolf, chief economic commentator del Financial Times e guru della globalizzazione finanziaria, ha commentato il potenziale peso della mossa operata dal ministro del Tesoro americano.
Fannie Mae e Freddie Mac non sono due banche, ma due società sui generis create rispettivamente nel 1938 e 1970 dal governo americano e poi lasciate ad un regime privatistico, che fungono da garanzia per il mercato interno dei mutui per l’acquisto di abitazioni.

Circa metà dei mutui concessi dalle banche americane, siano esse grandi conglomerati multinazionali o istituti locali, viene garantita dalle due società, che poi vendono a loro volta obbligazioni sul mercato internazionale.

Per questa ragione il salvataggio operato dal governo per evitare il fallimento di queste due società, duramente colpite dalla crisi del mercato immobiliare americano e gravate da un management dalla scarsa credibilità, ora rinnovato, ha avuto un impatto in tutto mondo. Fannie Mae e Freddie Mac sono l’anello di congiunzione tra la singola famiglia americana, che non riesce più a pagare il mutuo, e il sistema finanziario internazionale che ieri ha reagito alla quasi-nazionalizzazione con una forte crescita degli indici dei mercati in America, Europa, Asia. Per capire le implicazioni di questa manovra proviamo a fare un passo indietro.

I dati più recenti dicono che negli Stati Uniti 6,4 debitori su cento sono in arretrato con almeno una rata del mutuo, il numero più alto mai registrato, a cui si deve aggiungere un altro 2,75 per cento che, non potendo più pagare il mutuo, sta per perdere la proprietà della casa. Secondo l’associazione amercana di banche specializzate in mutui, questi numeri sono destinati a crescere. I crediti facili e a buon mercato sono stati la norma degli scorsi anni. Negli Stati Uniti si accendeva un mutuo per la casa, uno per la macchina, uno per il frigo nuovo, spesso con una semplice auto-dichiarazione sul reddito percepito. Non era necessario perdere il lavoro per non poter permettersi di pagare le rate, ma era sufficiente l’aumento dei tassi di interesse, o aver sottoscritto un mutuo a rata flessibile senza riflettere sul fatto che la rata ad un certo punto sarebbe cresciuta enormemente. Il sistema del “vivere a credito”, contando su guadagni futuri più che su proprietà e redditi presenti, ha funzionato fino a quando il rallentamento dell’economia ha combaciato col crollo dei prezzi delle case. Il meccanismo di fondo è semplice. Se Mr Smith ha preso in prestito 200.000 dollari per comprare la sua casa che ora, essendosi deprezzata, ne vale 100.000, ha un debito più alto del valore della proprietà. Quindi, quando la banca rientra in possesso dell’immobile, la differenza di valore rimane una perdita secca in carico alla banca, e, a catena, in carico a Fannie Mae o Freddie Mac. In alcuni Stati, come la California, le leggi tendono a proteggere chi contrae mutui, quindi i singoli individui non sono responsabili per la differenza tra il valore del mutuo e quello della casa. In altri Stati invece lo sono, e quindi la perdita della casa non sarebbe sufficiente a ripianare il debito. Per questa ragione si narrano casi di persone che lasciano la propria casa nel cuore della notte, cambiando città e stato, contando sul fatto che alle banche costa troppo inseguirli per riscuotere un credito. Il caso di Fannie Mae e Freddie Mac, sia per le dimensioni enormi dell’intervento del governo, che per il settore così delicato in cui operano, non è catalogabile semplicemente come l’ennesimo caso di cattiva gestione, in cui la società tutta finisce per accollarsi le perdite di aziende gestite in maniera poco oculata o in cattiva fede. La cattiva reputazione del managment ha certamente avuto un ruolo pesante quando, al crescere delle perdite, Fannie Mae e Freddie Mac hanno inziato ad aver problemi di liquidità. Tuttavia, vista la dimensione del pubblico statunitense legato – tramite il mutuo sulla propria casa – a queste aziende, e al peso sul mercato finanziario globale delle obbligazioni di questi due giganti del credito, questo episodio ha risvolti più complessi che avranno un impatto sui prossimi sviluppi della governance globale dell’economia. Vi sono due ragioni che spiegano l’intervento del governo americano, descritto come il più più grande salvataggio economico mai operato nella storia. Una riguarda il mercato interno: un fallimento di Fannie Mae e Freddie Mac avrebbe causato conseguenze nefaste per l’intero mercato immobiliare americano, già in grande sofferenza. Al contrario, si spera che un aumento della fiducia nel sistema, ora garantito direttamente dal governo, potrebbe far ripartire il mercato immobiliare, che è considerata una condizione per la ripartenza dell’intera economia. La seconda ragione, tuttavia, è più profonda e lontana da Washington e riguarda la fiducia che i mercati finanziari internazionali hanno nei confronti del sistema americano. Al momento gli Usa hanno un altissimo debito pubblico estero e dunque la necessità di continuare a essere considerati debitori credibili, ossia solventi, da parte delle banche centrali di mezzo mondo (soprattutto quella cinese). Per come è stato concepito, il salvataggio di Fannie Mae e Freddie Mac graverà economicamente soprattutto sugli azionisti delle due aziende, che dopo la ricapitalizzazione vedranno la loro proprietà fortemente diluita, ma proteggerà gli investitori internazionali, banche centrali, e fondi sovrani. La audacia di questa manovra non si spiega solo in riferimento alle conseguenze sul piano della fiducia interna, ma anche e sopratutto sulla fiducia che resto del mondo ripone sul sistema americano. È un paradosso il fatto che in questa epoca dominata dalla globalizzazione, ossia dalla liberalizzazione di tutti i mercati, per affermare la fiducia in un sistema-paese sia necessario un intervento pubblico dalle dimensioni così massicce. Questo paradosso tuttavia mostra come i processi di globalizzazione in corso non siano in grado di governarsi da soli senza un intervento politico che ne orienti la direzione. La tensione verso le privatizzazioni e la fiducia nel mercato auto-regolato che ha dominato gli anni ‘80 e ‘90 si sta forse sciogliendo, in modo alquanto spettacolare, con i fatti di questi giorni. Il pendolo sembra muoversi nuovamente nella direzione di un maggior ruolo dello Stato nell’economia. I contorni di questo ruolo tuttavia continuano ad apparire poco chiari. Pur tradendo una certa irritazione, anche Martin Wolf ora sottolinea la necessità di una regolamentazione severa e stringente che possa riaprire un corretto funzionamento del mercato privato dei mutui. Difficilmente regolamentazioni stringenti in un solo paese possono essere efficaci in un mondo nel quale la crisi di una famiglia in Arizona si ripercuote sulla borsa di Tokio. Appare chiaro ormai a tutti, anche ai falchi dell’economia globale, che dopo vent’anni dominati dall’ottimismo tecnocratico, il governo politico della globalizzazione necessiti di un nuovo capitolo, o meglio, necessiti del primo capitolo.

*London school of Economics

www.unita.it

 

 

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