5721 Lo Tsnumani di Wall Street

20081003 15:52:00 redazione-IT

Walden Bello

Molti asiatici recepiscono quanto sta accadendo a Wall Street con un misto di déjà vu, scetticismo e «te l’avevo detto». Per molti la crisi negli Usa è una replica, sia pure su scala molto più grande, della crisi finanziaria asiatica del 1997 che mise al tappeto le economie «calde» delle tigri dell’Est. La traumatica assenza di regole a Wall Street fa tornare in mente tristi ricordi.

Come l’eliminazione delle misure di controllo sui capitali da parte dei governi asiatici messi sotto pressione dal Fondo Monetario Internazionale e dal ministero del Tesoro degi Stati Uniti. L’iniziativa scatenò uno tsunami di capitali speculativi sui mercati asiatici che svanirono quando i prezzi altissimi della terra e dei titoli cominciarono a diminuire.

La gigantesca operazione di salvataggio dei malridotti titani di Wall Street ad opera del ministro del Tesoro Paulson, ricorda alla gente dell’est i miliardi che il Fondo Monetario Internazionale pretese con il pretesto di aiutare gli asiatici – denaro che fu invece utilizzato per salvare gli investitori stranieri.

Pertanto i governi e gli operatori finanziari asiatici sono scettici sulle intenzioni di Washington di regolamentare il settore finanziario e, sebbene le loro banche centrali e i loro “sovereign wealth funds” abbondino di liquidità, temono di essere risucchiati dal vortice di Wall Street. Tra i fondi ufficiali dell’Asia, solo il Temasek di Singapore e la China Investment Corporation hanno immesso liquidità sui mercati. Temasek ha investito oltre quattro miliardi di dollari nella Merryll Lynch alcuni mesi fa, ma solo dopo una dura trattativa. La China Investment Corporation ha investito cinque miliardi di dollari nella Morgan Stanley lo scorso dicembre, ma ha respinto la recente, disperata richiesta della banca di investimenti di incrementare la sua partecipazione azionaria. Vista sulle prime come potenziale salvatrice, la Korean Development Bank ha respinto le aperture della Lehman Brothers una settimana prima dello storico fallimento della banca americana.

Migliaia di miliardi di dollari di denaro pubblico e privato asiatico vengono investiti in società e proprietà americane tanto che i cinque principali investitori asiatici detengono la metà del debito estero americano. I fondi asiatici sono diventati un propellente chiave della spesa pubblica americana e dei consumi del ceto medio degli Stati Uniti che sono dventati il motore dell’economia americana. Considerato che gran parte della ricchezza asiatica poggia sulla stabilità dell’economia americana, non è il caso di prevedere una fuga precipitosa e affrettata dai titoli di Wall Street e dalle obbligazioni del Tesoro americano.
Sul fronte interno, tuttavia, crescono le preoccupazioni e le organizzazioni dei consumatori, le Ong e gli studiosi chiedono maggiore trasparenza in ordine all’esposione del sistema bancario locale nei confronti dei pericolosi titoli di Wall Street. Nelle Filippine alcune associazioni di cittadini chiedono la mesa al bando dei derivati, il ritorno alle misure di controllo dei capitali e la rinegoziazione dell’enorme debito estero ora che le banche internazionali sono in una posizione di debolezza.

C’è inoltre in tutta l’Asia rassegnazione sulla inevitabilità di una grave recessione negli Stati Uniti e sulle sue conseguenze sull’Asia: gli Stati Uniti sono il primo destinatario delle esportazioni cinesi, mentre la Cina importa materie prime e semilavorati da Giappone, Corea, sud-est asiatico e li trasforma in prodotti finiti per il mercato americano. Sebbene qualche mese fa si sia parlato della possibilità di sganciare l’economia asiatica da quella degli Stati Uniti, secondo la maggior parte degli osservatori queste economie sono tutte anelli di una stessa catena, quanto meno sul breve e medio periodo.

Una maggiore integrazione regionale è considerata da più parti un efficiente antidoto conro l’integrazione globale che è sfuggita di mano. Alcuni elementi di cooperazione economica regionale già sono operativi, in particolare la cosiddetta «Asean Plus Three» che unisce l’Associazione delle Nazioni del sud-est Asiatico a Cina, Corea e Giappone attraverso un meccanismo che facilita gli scambi bilaterali di fondi in caso di crisi finanziaria. Non è escluso che da questo possa nascere un vero e proprio fondo monetario regionale.

D’altro canto Ong e movimenti sociali, pur favorevoli all’integrazione, non si fidano di un processo monopolizzato dalle elite di governo che considerano inaffidabili. La partecipazione attiva della società civile – insistono – deve svolgere un ruolo centrale nella creazione di queste associazioni.

Walden Bello è professore di sociologia presso l’università delle Filippine
© The Nation, 2008
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

www.unita.it

 

 

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EmiNews 2008

 

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