5844 Caro Reichlin, sul capitalismo hai ragione

20081020 15:18:00 redazione-IT

di Franco Giordano

«Non è scoppiata solo una bolla speculativa. È arrivato al capolinea un ordine economico», ha scritto sull’"Unità" Alfredo Reichlin. Di fronte al suo lucido articolo, non saprei dire se prevalga il compiacimento per un così appassionato sfogo contro lo stupidario ideologico neoliberista che da lustri imperversa nel paese e nel mondo oppure la soddisfazione nel veder confermata , pur da posizioni diverse, un’antica condivisione analitica in merito alle distorsioni dell’economia mondiale. Le voci di quello stupidario sono tante da riempire un’enciclopedia: l’elogio a priori delle privatizzazioni, sfociato in una vera orgia privatizzatrice; il culto delle magnifiche e progressive sorti del capitalismo finanziario; la derubricazione dell’intervento pubblico a fastidiosa somma di lacci e lacciuoli dai quali liberarsi il prima possibile; l’ "arricchitevi" come parola d’ordine imposta al paese quale smagliante collante culturale, glissando sul particolare che ad arricchirsi erano in pochi a danno dei moltissimi; gli stentorei incentivi al trasferimento dei Tfr in fondi privati a danno della previdenza pubblica (ed è facile immaginare cosa ne pensino quanti, negli Usa, a quel sistema han fatto ricorso); la furiosa privatizzazione dei servizi pubblici, estesasi sino a invadere l’area dei beni pubblici per eccellenza, a partire dall’acqua; lo smantellamento progressivo e inarrestabile dello Stato sociale.

Tutto questo altro non era che l’imposizione brutale e miope del modello americano. E il bello è che l’esortazione permanente a imbarcarsi in politiche vieppiù restrittive e rigoriste veniva proprio dal paese più indebitato del mondo, quello che più di ogni altro viveva al di sopra delle proprie possibilità incentivando irresponsabilmente l’indebitamento popolare.

Questo sistema assurdo è effettivamente "arrivato al capolinea", ma è a dir poco clamoroso che proprio chi questa crisi la prodotto venga oggi sorretto pubblicamente e possa mantenere inalterata l’abituale arroganza, nel silenzio assordante della sinistra. Non è un adeguamento al presente del keynesismo: è il suo rovescio.

E allora come ce la caviamo? Con una spruzzata di etica economico-finanziaria? Con qualche predicozzo sulla perversione della rendita? Sbandierando il catartico ritorno al primato della produzione contro la finanziarizzazione, fingendo di non sapere che quelle due forme di capitalismo sono in realtà ormai indissolubilmente integrate?

Non può bastare. E non basta neppure invocare l’intervento pubblico, che negli Usa, peraltro, non è mai venuto meno. Se non vuole essere condannata all’irrilevanza, la sinistra deve saper mettere in campo ben altro tema, e cioè la qualità e la finalità dell’intervento pubblico.

La qualità dell’intervento pubblico in economia torna oggi a chiamare in causa i nodi di fondo. Torna alla necessità di costruire un compromesso di tipo nuovo, perché non ci si può svenare senza che nulla cambi, solo per ripristinare la macchina diabolica che ha determinato questa irrazionalità e queste enormi disparità. Se il pubblico interviene elargendo risorse immense, migliaia di miliardi, la contropartita deve essere l’acquisizione di una quota proprietaria degli istituti salvati, deve essere il ritorno in campo di una parola che per decenni è stata considerata la peggior bestemmia: la programmazione.

Se il pubblico deve intervenire in veste di protagonista, tale deve essere davvero. In cambio dell’elargizione di risorse che sono prima di tutto dei cittadini, devono arrivare nuove tutele sociali, nuovi diritti del lavoro, tali contrastare a fondo la precarietà, un diverso potere contrattuale per le retribuzioni e le pensioni, un’alternativa economica sul terreno ambientale.

Ma tutto ciò non può essere limitato nel perimetro, pur fondamentale, dei dibattiti teorici. Impone scelte politiche cogenti e urgenti. Un esempio per tutti: per poter operare politica retributiva adeguata e difendere l’autonomia sociale del conflitto, "una pratica e un punto di vista autonomi delle forze del lavoro", bisogna opporsi subito, qui e ora, alla modifica del modello contrattuale, sostenendo politicamente con determinazione massima la Cgil.

Dal vicolo cieco la sinistra non uscirà senza mettere a punto una nuova politica socialmente connotata. Ma a tal fine non serve né un soggetto neocentrista, tutto confinato nella logica soffocante di queste compatibilità, né un soggetto minoritario e identitario. Occorre ricostruire, in un contesto radicalmente nuovo, i fondamenti e cultura critica della sinistra.

P.S. Caro Alfredo, ho forse ecceduto nel sollecitare il vecchio comunista che è in te?

http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=80090

 

 

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EmiNews 2008

 

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