6003 «Il cambiamento è iniziato» Le difficili sfide di Barack

20081105 19:30:00 redazione-IT

di Maddalena Loy (da l’Unità)

Gli Stati Uniti celebrano l’elezione di Barack Obama, ma i cittadini americani dovranno aspettare ben 77 giorni – fino al 20 di gennaio – prima che il neo presidente si insedi alla Casa Bianca. Il senatore dell’Illinois non vuole tuttavia ripetere l’errore di Bill Clinton, che nel 1992 nominò il suo staff soltanto a pochi giorni dall’insediamento. Così, considerata anche la particolare contingenza economica globale, una squadra governativa dovrebbe essere nominata entro la prossima settimana. Obama, secondo il Washington Post, ha intenzione di agire «senza precipitazione, ma velocemente». L’obiettivo del neo presidente sarebbe di evitare che – come ha scritto il New York Times – George W. Bush non faccia ulteriori danni nelle ultime settimane del suo mandato.

Nell’editoriale intitolato "Così poco tempo, così tanti danni", l’autorevole quotidiano newyorkese ha elencato una serie di cambiamenti a «regole e regolamenti» in settori come le libertà civili, l’ambiente e l’aborto, le cui conseguenze si potrebbero far sentire per mesi: dalle nuove linee guida dell’Fbi tese a limitare ulteriormente la privacy dei cittadini, a norme più morbide su inquinamento e protezione delle specie in pericolo. Infine, l’aborto: secondo il giornale, «subito dopo il voto, il segretario alla Sanità Michael Leavitt dovrebbe diramare nuovi regolamenti tesi a limitare ulteriormente l’accesso delle donne all’aborto, ai contraccettivi e alle informazioni sulla cure per la riproduzione».

In tutto questo, chiosa il New York Times, ci sono tuttavia delle buone notizie: «Mentre Bush lascerà l’incarico il 20 gennaio, ha solo tempo fino al 20 novembre per cambiamenti “economicamente significativi” e fino al 20 dicembre per farne di altri: tutto quello che ci sarà dopo potrà facilmente essere ritirato dal neoeletto presidente. Una volta insediato a Washington, Obama dovrà immediatamente affrontare i temi caldi di attualità. Ecco in sintesi, punto per punto, quale sarà l’agenda del presidente a breve-media scadenza.
Crisi economica Passata l’euforia dell’elezione, Barack dovrà affrontare la recessione che si sta abbattendo sull’economia americana e mondiale, a fronte di una reazione dei mercati, all’indomani del voto, piuttosto sobria. Il Dipartimento del Lavoro nel mese di ottobre ha registrato 157.000 nuovi disoccupati. George W. Bush ospiterà, il prossimo 15 novembre, il summit dei leader mondiali a Washington incentrato sulla crisi. Ma Obama ha già consultato telefonicamente Henri Paulson, Segretario del Tesoro uscente, per ribadire le proprie misure anticrisi alla vigilia del vertice: moratoria di 90 giorni sul sequestro di beni immobiliari ipotecati presso alcune banche, riduzione d’imposta di 3mila dollari per le imprese ad ogni nuovo impiego e riduzione d’imposta per facilitare gli investimenti nelle piccole imprese.

Nomine Il futuro Segretario del Tesoro, che sarà nominato – sempre secondo il New York Times – entro il Giorno del Ringraziamento che cade il 27 novembre, erediterà una delle poltrone più calde di Washington: Obama sta pensando a Lawrence H. Summers, che ha già ricoperto l’incarico e al presidente della Federal Reserve Bank di New York, e a Timothy F. Geithner. Meno probabile la nomina dell’ex presidente della Federal Reserve (sotto Carter e Reagan) Paul Volcker, classe 1927.

Quanto agli altri incarichi governativi, a capo dello staff della Casa Bianca Obama dovrebbe nominare il suo vecchio amico e alleato di Chicago Rahm Emmanuel, mentre il coordinamento del governo di transizione dovrebbe essere affidato a un ex esponente dell’amministrazione Clinton, l’ex responsabile dello Staff della Casa Bianca John D.Podesta.

Quanto alla lista dei ministri, all’Istruzione si fa il nome del Cancelliere delle Scuole di New York, Joel I. Klein, mentre alla Sicurezza Nazionale potrebbe arrivare l’ex generale dei marine in pensione Jim Jones. Jim Cooper potrebbe occuparsi del Bilancio. Alla Giustizia si parla di Heric H. Holder Ir. (ex uomo di Clinton ma anche amico personale di Obama) o della governatrice dell’Arizona, Janet Napolitano.

Iraq, Iran e Pakistan Il neo presidente dovrà prendere in tempi rapidi importanti decisioni che riguardano la sicurezza nazionale, dalla guerra in Iraq – dove gli Usa hanno impegnato 150mila militari – al programma nucleare iraniano, passando per l’instabilità in Pakistan che contagia l’intera regione. Il programma di Obama prevede il ritiro dall’Iraq in 16 mesi, ma i vertici militari – Mike Mullen e David Petraeus – hanno pubblicamente dichiarato di opporsi ad un’agenda prestabilita. Il Pentagono ha tuttavia reso noto di voler fare il possibile per assicurare alla nuova amministrazione un efficace passaggio di consegne.

Afghanistan Obama ha dichiarato di voler rafforzare il contingente americano in Afghanistan, ma i vertici militari hanno fatto sapere che ciò sarà possibile soltanto tagliando le truppe in Iraq. Fonti vicine al Pentagono prevedono l’invio di circa 4mila uomini all’inizio del 2009. Il governo afghano ha manifestato un rinnovato interesse nella riconciliazione con i Talebani: l’amministrazione Obama dovrà decidere fino a che punto supportarla in questa direzione.

Cina e agenda di Doha L’ amministrazione Obama stringerà, con ogni probabilità, la morsa sulla Cina, aprendo la porta a nuove imposizioni sui prodotti cinesi. Non è tuttavia previsto il lancio di nuovi negoziati – almeno nel primo anno di mandato – né pressioni particolari per accelerare la conclusione dei lunghi negoziati di Doha.

Embargo a Cuba Quali misure adotterà la nuova amministrazione Usa rispetto all’embargo a Cuba? Obama ha promesso di «facilitare» le sanzioni «se Cuba muoverà passi significativi verso la democrazia, a partire dalla liberazione dei prigionieri politici». Ma non ha dichiarato di voler porre fine all’embargo, che è in essere da ben dieci mandati presidenziali, sia repubblicani che democratici. E l’Havana per il momento sta alla finestra.

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Il conteggio: a Obama 349 voti, a McCain 163

Virginia punto di raccolta per gli exit poll, foto Ap
I dati ufficiali assegnano al presidente eletto degli Stati Uniti, Barack Obama, 349 voti elettorali, contro i 163 del candidato repubblicano, John McCain.

Ecco gli stati conquistati da Obama: Vermont (3), Virginia (13), Ohio (20) Connecticut (7), Delaware (3), Distretto di Columbia (3), Illinois (21), Indiana (11), Maine (4), Maryland (10), Massachusetts (12), New Hampshire (4),New Jersey (15), Pennsylvania (21), Michigan (17), Minnesota (10), New Mexico (5), New York (31), Rhode Island (4), Wisconsin (10), Iowa (7), Nevada (5), California (55), Oregon (7), Stato di Washington (11), Florida (27), Hawaii (4).

McCain ha conquistato soltanto Georgia (15) Kentucky (8), South Carolina (8), West Virginia (5), Alabama (9), Mississippi (6), Tennessee (11), Oklahoma (7), Kansas (6), Lousiana (9), Montana (3), South Dakota (3), Arkansas (6), North Dakota (3), Texas (34) Wyoming (3), Utah (5), Idaho (4), Nebraska (5), Arizona (10), Alaska (3).

Solo due stati, per un totale di 26 voti elettorali, rimangono ancora "too close to call", Missouri e Carolina del Nord. Il primo dovrebbe andare a McCain, il secondo ad Obama.

Con il 92 per cento dei voti scrutinati, Obama ha ottenuto il 52 per cento del voto popolare – vale a dire 62.302.690 – e McCain il 46 per cento, con 55.268.212. La netta vittoria del democratico è stata determinata dalla conquista dei due swing state per antonomasia, Florida ed Ohio, nei tre stati del West (Colorado, Nevada e New Mexico) tradizionalmente repubblicani che sono stati uno degli obiettivi principali della campagna di Obama. Storica anche la vittoria, la prima di un democratico dal 1964, in Virginia. Ed importante la difesa della Pennsylvania, stato che McCain ha cercato fino all’ultimo di strappare ai democratici. Anche l’Indiana, stato tradizionalmente repubblicano è andato al democratico.

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Effetto Obama su Senato, Congresso e governatori: Democratici mai così forti
Massimo Franchi

Obama con i giornalisti a Capitol Hill, foto Ap
La più ampia maggioranza parlamentare dai tempi della morte di Kennedy. L’elezione di Barack Obama porta con sé un terremoto politico dalle proporzioni devastanti per i Repubblicani. Obama parla di governo condiviso, ma potrebbe benissimo governare da solo senza paura dell’opposizione repubblicana, impedendo loro di poter fare ostruzionismo (filibustering, come lo chiamano gli anglosassoni).

I Democratici conquistano 5 seggi in più al Senato e portano la loro maggioranza a 56 contro 41 (due senatori ex democratici sono diventati indipendenti, Joe Liberman, ex candidato vicepresidente di Al Gore ha fatto addirittura campagna per McCain). Solo Jimmy Carter e Lyndon Johnson raggiunsero la quota di 60 senatori. In più i seggi sono conquistati in Stati tradizionalmente repubblicani come il Colorado, il New Mexico, Virginia, North Carolina e New Hampshire.

Tra i senatori confermati anche il neo vicepresidente Joe Biden che ha vinto facilmente nel suo Delaware, stato da cui viene eletto fin dal lontano 1972. Anche l’ex candidato presidenziale John Kerry è stato riconfermato senatore del Massachussetts con ben il 66% dei voti.

I risultati di due duelli di spicco al Senato non sono attesi immediatamente. Il primo, in Minnesota, vede il comico Al Franken, un democratico, leggermente in testa rispetto al repubblicano Norm Coleman, noto soprattutto per essere stato uno dei critici più feroci dell’Onu. Ambedue sono intorno al 42%. Il secondo duello si svolge in Alaska e vede il senatore uscente Ted Stevens, il più longevo al Senato, leggermente in testa davanti al sindaco di Anchorage, Mark Begich, un democratico. Il risultato ottenuto da Stevens, appena condannato per corruzione, ha stupito gli osservatori. Circa un abitante dell’Alaska su due è pronto a rimandare al Senato un politico che ha subito una condanna, anche se l’entità della pena sarà nota solo nelle prossime settimane.

Alla Camera dei rappresentanti va ancora meglio: strappati 20 seggi ai Repubblicani rafforzando la maggioranza (252 contro 173) ora schiacciante.

Anche nell’elezioni dei governatori degli Stati i democratici hanno sfruttato l’effetto Obama hanno vinto 7 degli Stati che andavano al voto portando il conteggio sul 29-21. A dir la verità l’unico stato che ha cambiato "colore" è il Missouri strappato ai repubblicani da un democratico dal nome molto particolare: Jay Nixon, vincitore con il 58% dei voti.

Infine, tra gli altri temi, in California i fautori del referendum per proibire le nozze omosessuali, autorizzate nello Stato, sono in testa, 52 contro 48%, ma lo spoglio non è ancora terminato. Se, come è possibile, vinceranno i promotori del referendum, per le circa 18mila coppie dello stesso sesso che si sono sposate in questi ultimi quattro mesi e mezzo, inizierà un lungo periodo di incertezza.

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Chi è il suo vice, Joe Biden

Obama Barack Joe Biden Usa presidenziale democratici
E’ Joe Biden, 65 anni, il nuovo vicepresidente degli Stati Uniti, dopo la storica vittoria del democratico Barack Obama che ha sconfitto il rivale repubblicano John McCain.

Biden viene eletto nel 1972 al Senato. Sei settimane dopo, la moglie e la figlia muoiono in un incidente automobilistico nel quale rimangono gravemente feriti anche gli altri due figli. Biden pensa di dimettersi, ma viene convinto a non farlo dal leader della maggioranza. Presta giuramento mentre è al capezzale di uno dei suoi figli.

Biden è presidente della Commissione Esteri del Senato e fa parte della Commissione Giustizia. E’ considerato tra i senatori più liberali.

Si è opposto alle nomine alla Corte Suprema dei conservatori Clarence Thomas e Samuel Alito come giudici e John Roberts come presidente.

Durante la guerra in Bosnia, fu tra coloro che chiesero con più forza misure a protezione dei musulmani bosniaci, dalla fine dell’embargo sulle armi ai raid aerei della Nato alle azioni giudiziarie contro i crimini di guerra.

Mentre l’amministrazione Bush procedeva verso la guerra con l’Iraq, Biden disse che gli Stati Uniti probabilmente non avevano altra scelta se non rovesciare Saddam Hussein. Ma si oppose a un’azione unilaterale, chiedendo di non lasciare nulla di intentato a livello diplomatico. Si è opposto alla strategia del presidente George W. Bush di aumentare i livelli delle truppe in Iraq per ridurre le violenze.

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EmiNews 2008

 

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