6166 R. RICCI (Filef) al convegno CNE: La natura interculturale dell’associazionismo italiano all’estero

20081128 21:59:00 redazione-IT

[b]Convegno CNE:“Associazioni protagoniste all’estero”
La relazione di Rodolfo Ricci (FILEF – Ufficio di Presidenza della CNE): "La natura e l’azione interculturale dell’associazionismo italiano all’estero"

"La riflessione sulla situazione e sul futuro dell’ associazionismo di emigrazione equivale, in un certo senso, ad occuparsi del futuro delle nostre collettività intese come comunità che condividono, almeno in parte, sistemi di valori identitari, culturali e di interessi.

E’ un dato acquisito che senza la funzione aggregativa e organizzativa, di orientamento e confronto tra le persone che compongono le nostre collettività, i singoli soggetti si troverebbero in una situazione di anomia indifferenziata. Non esisterebbe cioè “società” o, come spesso si autodefinisce “collettività” o “comunità ” tra gli italiani all’estero.[/b]

[b]La funzione di promozione e mediazione sociale che storicamente ha svolto e svolge l’associazionismo costituisce la funzione fondamentale e strategica per la riproduzione del senso di appartenenza e del legame con l’Italia.
Laddove ha saputo operare con lungimiranza l’associazionismo dell’emigrazione è stato uno strumento di efficace mediazione e di tutela per favorire un corretto inserimento ed integrazione nelle società di accoglienza.

La tutela, il rafforzamento e l’adeguamento dell’esperienza associativa costituiscono quindi una funzione strategica che dà ragione, da una parte, dell’esistenza stessa dei diversi livelli di rappresentanza che si sono andati costituendo negli ultimi venti anni (Comites, CGIE, rappresentanza parlamentare) e, dall’altra, ne costituisce la possibilità di azione e attuazione garantendo, allo stesso tempo, lo spazio di agibilità democratica indispensabile per la loro espressione e per il loro riconoscimento. Pensiamo solo a cosa ne sarebbe del voto all’estero senza la funzione di mediazione e di mobilitazione del tessuto associativo.

La questione della cosiddetta “crisi dell’associazionismo di emigrazione” di cui si discute da molti anni va quindi posta in questo contesto di riferimento: la domanda se il tessuto associativo corrisponda alle esigenze attuali delle collettività, a come esso può essere adeguato alla sua evoluzione sociale e culturale, alle nuove esigenze e fabbisogni che emergono dall’emigrazione italiana nel mondo, a quali siano le modalità e gli strumenti più utili in tale direzione, non può prescindere dal contesto indicato. Impegnarsi per un rinnovamento del tessuto di rappresentanza sociale costituito dall’associazionismo, vuol dire, in effetti, impegnarsi innanzitutto per una innovazione positiva nell’approccio complessivo verso le nostre collettività emigrate.

Questa considerazione merita ed implica un necessario chiarimento rispetto al modo in cui si legge questa presenza italiana all’estero e al luogo (anche fisico) da cui la si legge; e cioè:

1)- Se la si legge dall’interno delle collettività presenti all’estero, l’evoluzione delle forme organizzative che le stesse collettività si danno, percorre già da tempo un proprio autonomo iter caratterizzato da livelli crescenti di integrazione nei paesi di insediamento, sia sul piano culturale che sul piano sociale e politico. Molte forme associative (certo non tutte), si sono riconvertite e molte di nuove ne sono nate in corrispondenza di questa nuova prospettiva di impegno e di vissuto personale e collettivo. In questo mondo di nuova rappresentanza sociale molto orientata verso i paesi di residenza, non vi è crisi, anzi vi è crescita di importanza di un mondo interculturale fatto di indigeni e di immigrati (spesso anche di altre etnie o di una sorta di meticciato “italo-mondiale”) che insieme contribuisce alla vita civile e sociale di quei paesi.

2)- Se invece la si legge dalla prospettiva italiana, certamente vi sono elementi critici, una evidenziata “crisi” che è tuttavia in gran parte riferita alle aspettative o agli auspici che provengono da parte delle istituzioni e dei centri di rappresentanza politica e sociale italiani. Ciò accade, nello specifico, in riferimento ad orientamenti che si sono consolidati nell’ultimo decennio e che leggono prevalentemente la presenza delle collettività emigrate come risorsa economica o come potenziale fattore di rafforzamento della presenza italiana nel mondo, oppure di penetrazione verso l’estero di singole organizzazioni. Si riscontra cioè -dal punto di vista istituzionale italiano, ma non solo, sia a livello centrale che regionale-, un certo disagio nel non poter disporre di interlocutori associativi strumentalmente utili allo svolgimento di una funzione di potenziamento delle relazioni del Sistema Paese o dei sistemi regionali, nel mondo, che le collettività emigrate, attraverso un associazionismo per ciò predisposto, potrebbero costituire.

Tra queste due ottiche o dimensioni relazionali delle nostre collettività, vi è dunque la necessità di una opzione ovvero di una sintesi positiva.
Infatti, continuare a parlare di crisi senza una riflessione seria ed approfondita, immaginare soluzioni esclusivamente “anagrafiche” o “funzionali-strumentali”, non aiuta a comprendere o a risolvere se non in minima parte il problema (se di problema si tratta) del futuro dell’associazionismo italiano all’estero.

Il quale ha oggi dimensioni oggettivamente più ampie e globali e sempre meno nazionali: comunità italiane in partenza, sempre più interculturali e integrate (quindi diverse, autonome e dotate di originali caratteri identitari) oggi. Siamo di fronte, a mio modo di vedere, ad un classico problema interpretativo o ermeneutico; ad un problema cioè che riguarda più che altro la lettura che si è in grado di dare (o che si intende dare) rispetto ad un nuova fase storica nella quale si incontrano, o si scontrano, diverse prospettive; oppure – ma in fondo è la stessa cosa -, siamo di fronte a un normale trend di sviluppo interno alle diverse collettività e all’associazionismo che ne è espressione, e che, dall’Italia, siamo in grado di comprendere solo in parte o che solo in parte corrisponde agli auspici formulati dal “lato” italiano.

Rispetto a questa diversità ed autonoma originalità interculturale delle nostre collettività, rispetto al fatto cioè che diverse generazioni di discendenti si sono oramai succedute paese per paese, rispetto ad un tessuto variegato di forme associative, sia nella loro genesi, sia nella loro funzione e missione statutaria, bisogna avvicinarsi, a mio parere, con una accentuata disposizione all’ascolto e alla comprensione dei nuovi caratteri che manifesta, evitando in partenza l’equivoco che l’associazionismo serva per forza a qualcuno, magari per perpetuare o inaugurare interessi parziali o settoriali, ed evitando al contempo, di cadere in quella sorta di trappola identitaria che ne legge solo il presunto carattere originario, quello della partenza o del primo arrivo nei paesi di ricevimento: quell’ ”italianità” immutabile e permanente che ne dovrebbe contraddistinguere la specifica natura come se si trattasse di un carattere genetico.

Dal mio punto di vista, invece, l’associazionismo serve in primis ed essenzialmente a sé stesso, ovvero alla gente che lo crea e che lo sostiene partecipando democraticamente alla sua vita interna e agli obiettivi che esso, autonomamente, di volta in volta si dà nelle diverse situazioni continentali, di paese e delle diverse città e territori ove i nostri emigrati sono approdati nel corso di oltre un secolo.

Tutti noi, e l’Italia con le sue istituzioni dobbiamo quindi capire se, e perché, siamo interessati a mantenere con questo vasto mondo fatto di circa 6.000 associazioni all’estero (ma sono molte di più se si va oltre gli albi consolari) un legame forte e solido, oggi e in futuro, partendo innanzitutto, proprio dal riconoscimento della sua autonomia, varietà, specificità, al di fuori di visioni parziali e limitate in quanto strumentali o in quanto onnicomprensive ed omologanti ciò che omologabile non è, e considerando che, al contrario, proprio la tutela di questa pluralità ed autonomia può garantire il superamento di eventuali situazioni di crisi, può contribuire ad una moderna evoluzione dell’associazionismo e della partecipazione delle nostre collettività emigrate, partecipazione che è – e non può che essere – bilaterale e multilaterale insieme, cioè orientata verso i due (o più) lati del contesto in cui le stesse collettività si trovano a vivere.

Solo UNO di questi lati è l’Italia. L’altro è quello del paese di residenza, a cui si sommano anche altri contesti dei paesi e delle aree limitrofe, oppure, in alcuni casi, contesti addirittura continentali.

Per esempio, in Europa, non sfugge a nessuno che le nostre collettività sono interessate ed impegnate alla partecipazione sociale, culturale e politica sia nel paese di arrivo, che in quello di partenza, sia sul versante dell’unificazione politica del continente: un antico, ma assolutamente attuale slogan degli anni ’80, diceva che gli italiani in Europa erano, assieme alle altre etnie emigrate, i primi cittadini europei.
Altrettanto si può dire per il continente sud-americano, con sollecitazioni che giungono dai singoli paesi, da quelli appartenenti alle diverse aree di integrazione (Mercosur, Comunità Andina, Alba, ecc.).

Voglio dire che se la globalizzazione riguarda gli italiani in Italia, essa riguarda in modo ancora più netto gli italiani all’estero, a cavallo tra situazioni (o contraddizioni) ancor più complesse, sia dal punto di vista delle comunità, sia da quello dei singoli soggetti.

Ridurre questo vissuto -complesso e in continuo divenire-, ad un unico e monotono ambito di italianità, peraltro vago e di difficile definizione (a parte gli ormai logori schemi riconducibili al cosiddetto made in Italy, del quale oggi, dentro la crisi epocale nessuno sa bene cosa accadrà), sarebbe come ridurre l’incredibile varietà della cucina italiana a quella industriale del fast-food.

Più che di riduzione, si tratterebbe anzi di cancellazione vera e propria di ciò che invece costituisce la sua insita ricchezza, quindi di un opzione quasi chirurgica per asportare da questo universo solo ciò che ci interessa nell’immediato, nel breve termine, sia essa la funzione di penetrazione economica o culturale, oppure quella (in cui forse inevitabilmente sono costretti a cadere i nostri partiti dopo il voto all’estero), della omologazione politica delle collettività secondo gli schemi politici italiani i quali, tra l’altro, non sembrano essere i migliori.

[u]La domanda quindi è la seguente: l’Italia è interessata a questa varietà meticcia ed interculturale da tutti i punti di vista in cui, tra i diversi caratteri permane, certo, anche la varietà italica, oppure intende mantenere un rapporto ed una relazione solo con ciò che continua e continuerà imperterrito a definirsi solo italiano, monoculturale e con la testa e lo spirito stabilmente orientato verso Roma?[/u]

Nella prima delle ipotesi non c’è alcuna crisi da contrastare, poiché l’interculturalità delle nostre collettività è destinata a crescere come l’associazionismo che ne deriverà; nella seconda delle ipotesi la crisi è certa; anzi non c’è futuro. Quindi è del tutto inutile recriminare.

Ovviamente, in caso di risposta affermativa all’ipotesi che noi qui auspichiamo, cioè quella di riconoscere i caratteri plurali già presenti nella grande maggioranza delle associazioni, spetta a tutti gli interlocutori il compito di individuare, insieme all’associazionismo, gli strumenti migliori per valorizzare tali caratteri.

E qui si apre il capitolo delle modalità di tutela e di sostegno dell’associazionismo, che va affrontato certamente a partire dalle proprie interne specificità (associazionismo di partecipazione, culturale, ricreativo, di servizi di varia natura, economico, regionale, ecc.), ma, ancor prima, dal riconoscimento della sua costitutiva apertura, dinamicità ed interculturalità che non può e non deve essere, come accennato, ricondotta a schemi e flussi di relazione univoci e statici tra Italia ed italianità all’estero.

L’italianità presente nel mondo, all’interno delle nostre collettività è già infatti per sua natura una italianità aperta e arricchita dagli altri contributi culturali e dalle altre prospettive identitarie che nel corso di 130 anni gli italiani emigrati hanno incontrato, con cui si sono confrontati e da cui sono stati influenzati.

Gli interlocutori che il Paese Italia ha di fronte, sono quindi, in questo senso, già costitutivamente qualcosa di altro e di più vasto e variegato che non la statica riproposizione di una dimensione associativa di difesa identitaria, tipica delle prime generazioni. Si può anzi affermare, a questo punto, che la crisi è crisi di questo modello interpretativo. Cioè, la crisi è in Italia, non all’estero.

Se ciò è vero, a livello istituzionale c’è dunque bisogno di grande apertura a recepire le indicazioni e le proposte che provengono da questo mondo associativo interculturale che tuttavia mantiene o intende mantenere o inaugurare nuovi rapporti con l’Italia.

Tra l’attore istituzionale che ha la necessità di strutturare griglie di riconoscimento dei soggetti associativi, albi, criteri di valutazione sulla loro entità, programmi e progetti rispetto ai suoi obiettivi da una parte
e l’associazionismo interculturale che rappresenta ed elabora dinamicamente visioni di prospettiva, proposte, azioni integrate con i paesi di residenza, ecc., dall’altra parte, c’è quindi bisogno almeno di pari dignità e aperta interlocuzione, di disponibilità all’ascolto non solo su singoli progetti e singole misure, ma soprattutto nella definizione di nuovi programmi a medio termine che non possono emanare esclusivamente dall’Italia, ma debbono essere costruiti inter-culturalmente.

Ne può scaturire solo qualcosa di fortemente positivo, se è vero che già tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, ciò è in parte accaduto: la prospettiva della cosiddetta “emigrazione come risorsa” sulla base della quale sono state riviste e rimodulate intere leggi regionali e interi capitoli di misure ed azioni positive del Ministero Affari Esteri o del Ministero del Lavoro, era infatti la proposta di lettura che in quella fase storica l’associazionismo dell’emigrazione ha proposto e che fu in buona parte recepita a livello istituzionale.

Anche se il completo recepimento di quella prospettiva è ben lontano dall’essere concluso, il capitolo che si apre oggi è quello di una rivisitazione o se sei vuole di un’adeguamento ed ulteriore aggettivazione di quel concetto verso quella che potremmo chiamare “l’emigrazione (o gli italiani e gli oriundi all’estero) come risorsa interculturale e multipolare”.

[u]Il mondo post-crisi che – nel migliore dei casi – si profila all’orizzonte, (per forza di cose multicentrico e multipolare), ritroverà nelle comunità migranti ed emigrate gli attori indispensabili per consentire la sua tenuta, le funi del suo equilibrio dinamico. Non solo quindi, lavoratori o venditori competitivi di sistemi-paese, ma protagonisti e attori del cambiamento, proprio perché c’è da collegare e tenere insieme le diverse culture, i diversi sistemi interpretativi, le diverse ermeneutiche e prospettive con cui e da cui si guarda il pianeta.[/u]

Vorrei concludere questa relazione con una ultima considerazione e con una proposta di carattere, diciamo così, tecnico e operativo: [u]un auspicato approccio interculturale alle questioni che riguardano gli italiani all’estero non può essere affrontato con l’attuale quadro di riferimento istituzionale[/u] che permane da decenni, anzi da un secolo.

[u]Come la questione dell’immigrazione non può trovare come unico interlocutore il Ministero degli Interni poiché ciò significherebbe solo ridurre l’immigrazione e le sue grandi potenzialità alla questione della cosiddetta “sicurezza”, così appare del tutto fuori luogo che sia solo o quasi esclusivamente il Ministero degli Affari Esteri a dover guidare le relazioni con le nostre collettività, poiché anche in questo caso, si tratterebbe di ridurre le potenzialità del mondo degli italiani e degli oriundi a una mera questione di anagrafe e di erogazione di alcuni servizi.[/u]

Invece, se la risposta è quella del riconoscimento della risorsa interculturale, [u]non può che affermarsi un’azione interdisciplinare, interministeriale, inter-regionale.[/u]
E’ dunque necessario ripensare profondamente il contesto di riferimento istituzionale ed allargarlo al suo complesso. E’ una questione non nuova, ma mai aggredita in modo convinto.

Ora, anche alla luce degli esiti assurdi che le politiche di ridimensionamento della spesa hanno su questo nostro settore, è più che mai necessario costruire un nuovo quadro normativo. [u]Non può accadere che le riduzioni di spesa di un solo Ministero ricadano così drasticamente su un intero mondo, su tanti italiani all’estero e soprattutto sulle opportunità che essi rappresentano.[/u]

E’ anche questo un indice chiaro che siamo ad uno spartiacque storico. Non so se si debba optare per una soluzione del tipo dell’”Agenzia Nazionale per gli Italiani all’Estero” o su una struttura di coordinamento istituzionale che tenga insieme le funzioni ministeriali presso la Presidenza del Consiglio.
E questo è un tema che riguarda anche le singole regioni che debbono allargare ai vari assessorati la costruzione di una organica ed efficace politica verso le loro comunità emigrate.

E’ comunque una delle questioni da trattare più urgentemente come CNE e come vasto mondo dell’associazionismo, assieme ai parlamentari eletti all’estero, al CGIE, alle rete dei Comites, (che vedrei volentieri tutti prioritariamente impegnati su questa questione, piuttosto che sulle infinite ipotesi di autoriforma degli organismi di rappresentanza), se non si vuole che questa grande opportunità di relazioni mondiali sfumi probabilmente in modo definitivo.[/b]

Rodolfo Ricci

Roma, 28 Novembre 2008

 

 

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EmiNews 2008

 

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