6286 Conferenza dei Giovani: occasione per riflettere sui rischi di evaporazione delle collettività

20081222 00:50:00 redazione-IT

[b]L’esito della Conferenza dei Giovani, occasione per riflettere sull’ impegno profuso dalle organizzazioni della FIEI. E sui rischi di evaporazione delle collettività all’estero.[/b]

di Rodolfo Ricci

La Conferenza dei giovani italiani nel mondo è stata per la FIEI un momento di grande soddisfazione. Al di là di alcuni elementi critici e discutibili sulle sue modalità di realizzazione e sul momento diciamo così sfortunato in cui essa si è svolta e che purtroppo lascia in bocca l’amara sensazione che a livello di Governo non vi saranno significative azioni di valorizzazione di questo straordinario mondo di italiani e di oriundi che guardano ancora con interesse e speranza all’Italia, gli interventi dei tanti giovani e il contenuto dei documenti finali delle 5 Commissioni di lavoro confermano le intuizioni e l’elaborazione progettuale che la FIEI insieme alle tante organizzazioni aderenti in Italia e nel mondo hanno sviluppato in particolare in quest’ultimo decennio.

Intuizioni e progettualità che non sono mai state sviluppate a tavolino, ma sempre nel confronto concreto con le specifiche e differenti realtà e dal puntuale ascolto delle domande e dei fabbisogni che emergevano dalle nostre collettività.
Un lavoro che ci ha trovato al fianco di altre grandi organizzazioni di emigrazione, come quelle del mondo cattolico, di movimenti sociali e sindacali in Italia e in tanti paesi.

Nei documenti conclusivi della Conferenza è possibile rintracciare quella lettura fortemente innovativa della realtà migratoria italiana che aveva trovato un primo abbozzo nella Conferenza del 1988 e che era stata riconfermata nella conferenza mondiale del 2000. Lettura avanzata, ma mai convintamente perseguita a livello istituzionale se non in modo episodico e spesso dipendente dal grado di “illuminazione” di rari dirigenti di istituzioni centrali e regionali.

Quando alla fine degli anni ’80 qualcuno provò a indicare un percorso alternativo a quello fino ad allora seguito rispetto alla valorizzazione del grande potenziale multiculturale delle seconde e terze generazioni della nostra emigrazione, a trasformare la prospettiva da assistenziale a investimento sulla risorsa, sembrava parlasse di sconosciuti e pittoreschi alieni a una platea di simpatici esegeti della valigia di cartone.

Già nel 2000, la prospettiva cominciava a cambiare, come si può rileggere dai documenti di quella conferenza, ma ancora forti erano le resistenze a concepire la nostra emigrazione come una entità multiculturale di fatto e a raccogliere positivamente i richiami sul procedere, pur difficoltoso, dell’integrazione nei paesi di arrivo oppure quella a concepire la presenza italiana all’estero come un pezzo della più grande mobilità migrante a livello mondiale, dalla quale si distingueva, se mai, solo per un fattore diacronico.
Ancora difficile parlare di italiani emigrati accanto ad immigrati in Italia, come due facce della stessa medaglia.

Ma già al Congresso del 1989 a Perugia, la FILEF aveva leggermente – ma significativamente – modificato la propria sigla alla penultima lettera E: da Emigrati a “Emigranti”. E nel ’99, con un azzardo verbale, chiamammo con il nome FIEI (Federazione Italiana Emigrazione Immigrazione), la confederazione che raccoglieva centinaia di organizzazioni dell’emigrazione italiana e quelle che nel frattempo erano sorte nel nostro alveo, in Italia, e che si occupavano anche di organizzare e tutelare gli immigrati sulla base dell’esperienza raccolta in tanti anni di attività all’estero.

A parte le questioni nominalistiche, l’attività che si andava svolgendo in quegli anni fu davvero importante quanto entusiasmante: migliaia e migliaia di giovani italiani all’estero presero parte alle tante iniziative culturali, sociali, formative, che dalla fine degli anni ’80 fino ad oggi le nostre associazioni hanno realizzato prima in Europa e successivamente in America Latina e in Australia che avevano obiettivi di merito,ma anche meta-obiettivi culturali.
Voglio ricordare qualche titolo significativo nel campo della formazione: sono del 1988 i primi corsi per operatori turistici verso l’Italia; del 1989 quelli per operatori di commercio estero; dei primi anni ’90 quelli per operatori di nuove tecnologie informatiche applicate all’industria o all’automazione nella gestione aziendale o del marketing internazionale o nella pubblicità in ambiente interculturale.
Del 1995 il varo di un vasto, quanto unico, programma di missioni di sviluppo territoriale nelle regioni meridionali partecipato da giovani migranti in Europa, da cui trarrà spunto il programma Mae PPTIE. Del 1998-2001 le ricerche sulla consistenza del lavoro autonomo e della piccola impresa fondata da migranti in Germania, Canada, Francia, Belgio, Gran Bretagna e successivamente in Brasile e in Uruguay. Del 1998-2002 i corsi per operatori alla cooperazione economica, o per la creazione di impresa web-oriented nella comunicazione, nel turismo, nella cultura realizzati in Brasile, Argentina, Uruguay.
Nel 2002 realizzammo in Brasile, in 5 diverse città dello Stato di San Paolo, la più grande azione di aggiornamento di insegnanti di lingua italiana che sia mai stata fatta: 100 insegnanti seguirono corsi di riqualificazione di 6 mesi di durata (diversi dai noti corsi di 1 o due settimane) acquisendo la certificazione CELI 3-5 di Italiano come L-2.

Nel frattempo queste ed altre esperienze venivano replicate in Italia a favore degli immigrati in Lombardia, in Friuli, in Emilia-Romagna, nel Lazio, in Campania, in Basilicata, in Sicilia dalle federazioni regionali aderenti alla FIEI e successivamente vennero riprese da altre organizzazioni come la CNA e la CONFAPI, in ambito imprenditoriale o di diverse altre organizzazioni sindacali e del terzo settore.
Quando ne parliamo con qualche collega italiano impegnato sui temi dell’immigrazione, rileviamo un certo stupore e ammirazione nello scoprire che l’emigrazione italiana ha partorito misure innovative utili anche per gli immigrati.
Non so quantificare correttamente il numero di persone che hanno fruito delle attività prodotte dalle organizzazioni aderenti alla FIEI. Quelli delle strutture di operative nazionali (FILEF e F.Santi) sono state circa 10.000. Se vi aggiungiamo le attività realizzate dalle organizzazioni regionali e quelle all’estero penso si superino abbondantemente le centinai di migliaia nel corso degli ultimi 20 anni.

Nel gennaio del 2001, otto mesi prima del crollo delle torri gemelle e dell’inaugurazione della guerra infinita che Obama dovrà chiudere, eravamo – solitari – a Porto Alegre, a documentare con una nostra troupe la nascita del grande movimento new-global, insieme ai nostri compagni latino-americani. Ne scaturì l’unico film documentario al mondo su quel primo forum sociale mondiale, partecipato da migliaia di giovani oriundi italiani provenienti da tutta l’America Latina.
La storia dell’emigrazione italiana in quel continente è parte fondamentale e integrante del nuovo corso dei paesi usciti dall’epoca dalle dittature. E in quegli anni bui i nostri dirigenti di si trovarono in prima linea a tentare la liberazione di tanti candidati desaparecidos in Brasile, in Venezuela, in Uruguay, in Cile, in Argentina, che erano stati in prima fila nel tentativo di edificazione di sistemi politici democratici e socialmente equilibrati.

Altrettanto si può dire, fatte salve le ovvie differenze, per il rilievo sociale e politico assunto da tanti emigrati italiani nei paesi europei così come in Canada o in Australia.

Nel 2002 eravamo invece in Argentina a vivere in diretta e a documentare il “default”, prologo ignorato di quello globale e della caduta del neoliberismo che coinvolse, insieme ai possessori dei junk-bonds in Italia, l’intera comunità di origine italiana in quel paese.
E’ ormai chiaro, soprattutto alle giovani generazioni che ne sono gli epigoni, che la particolarità di questa nostra emigrazione “da lavoro” è la grande valenza sociale, economica e politica che essa ha assunto nei propri paesi.
Si tratta di un forte elemento di autocoscienza. La coscienza di essere italiani di origine, ma nel mondo, a tutti gli effetti.

Manca solo, purtroppo, il riconoscimento italiano. Mentre dovunque, l’italianità come complesso di valori e di impegno nel mondo del lavoro, del sociale, della politica, riceve apprezzamento, in Italia, questo oggetto sconosciuto stenta a farsi apprezzare.

E’ un problema, anzi il problema, delle organizzazioni dell’emigrazione. C’è un grande bisogno di innovazione, quindi, come la CNE nel suo recente convegno autoriflessivo di novembre ha documentato e come la Conferenza dei Giovani ha confermato.
Di particolare rilievo il documento della commissione “Partecipazione e rappresentanza” della Conferenza dei Giovani nel quale si sottolinea ciò che da oggi in poi non dovrebbe essere dimenticato: le collettività italiane all’estero sono inter-culturali, sono comunità ponte, mediatori di civiltà. Non sono più italiane in senso stretto, non sono straniere. Sono per noi, la dimensione potenziale del futuro. E per loro, del presente auspicato.

Certamente, l’attardarsi istituzionale (quasi ovvio trattandosi delle istituzioni della provincia Italia) e quello (molto meno ovvio) di alcuni transatlantici della politica o del sociale sulla riproposizione di forme organizzative a base di tesseramento o di insiemi con la testa girata verso il passato (che dovrebbero garantire qualche funzionalità o agibilità strumentale emanata dall’Italia verso l’estero), o peggio, soddisfare alcune grottesche, singolari ambizioni, lasciano trasparire la possibilità che debba trascorrere ancora qualche decennio per capire di cosa stiamo parlando.

Nel frattempo però, i giovani di oggi saranno meno giovani. Con il loro invecchiare svanirà ogni velleità di seria interlocuzione con quella che fu la madrepatria. Troveranno le loro risposte nel glocal. Non sarà un processo lento. Può trattarsi invece di un processo molto rapido. La nostalgia giovanile non è quella della prima generazione. Più pragmaticamente, si tornerà in Italia una o due volte nella vita. Punto. Il mondo è grande.

E la crisi globale accentua i tempi. Superata la crisi (se e quando terminerà), le comunità come le conosciamo oggi, saranno scomparse. E con esse anche le loro organizzazioni, piccole e grandi. Resterà solo una mappa sgualcita (ad onore degli storici) di ciò che era stata l’emigrazione italiana nel mondo “all’epoca della sua più ampia diffusione”?

 

 

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EmiNews 2008

 

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