3941 ECUADOR: Della rivoluzione alvarista, il petrolio e altri demoni

20071121 17:35:00 redazione-IT

Un’analisi della situazione ecudoregna di Paola Colleoni (Phd Researcher, Università di Roskilde) – (da Selvas.org)

Con l’ultima schiacciante vittoria di Aliancia Pais alle urne per l’elezione dei candidati all’assemblea costituente, l’imminente scioglimento del congresso per il passaggio dei pieni poteri all’assemblea, Correa e il suo progetto politico possono finalmente cominciare a governare. La gran maggioranza del paese sta con il presidente e con la sua promessa di rivoluzione “alvarista bolivariana”. E cominciano a vedersi i fatti, come il progetto di revisione dei contratti petroliferi e la legge dello scorso 6 ottobre che alza dal 50 al 99% la partecipazione dello stato nelle eccedenze dei profitti petroliferi. Questi ed altri fatti fanno dire al governo “que si, la patria ya es de todos”.

Però rimangono alcuni nodi da sciogliere, in un paese il cui PNL dipende del 62% dall’economia del petrolio e per il resto da un’economia eminentemente primaria estrattivista, come l’industria mineraria, i gamberetti, la palma africana.
La questione ambientale e delle popolazioni indigene sono alcuni fra questi nodi: il controllo dello stato sull’attività estrattiva significherà anche un altro modello di sviluppo ? C’è spazio nel progetto bolivariano per il movimento indigeno e per le organizzazioni di base coinvolte nei sanguinosi conflitti nelle terre conquistate dall’industria estrattiva?

LA RIVOLUZIONE ALVARISTA BOLIVARIANA DI CORREA
Rivoluzione Costituzionale, Rivoluzione anticorruzione, Rivoluzione Economica, Rivoluzione delle Politiche Sociali, Integrazione Latinoamericana. Ecco i cinque pilastri della politica di trasformazione del governo di Correa, già annunciati in campagna elettorale, e che ora fanno i loro primi, non affatto timidi, passi avanti con misure concrete e promulgazioni di leggi.
“Dale Correa!”, dicono i manifesti elettorali rimasti sui muri delle strade, giocando sul doppio significato del cognome del presidente Correa, “cinghia”. Un’incitazione che suona più o meno “dagli di cinghiate!”, riferendosi alla vecchia oligarchia che si aggrappa al suo posto di potere. Questo lo slogan che ha accompagnato la nuova schiacciante vittoria del “Presi” nelle elezioni per l’assemblea costituente, dove Allianza Pais da sola si è guadagnata il 63% dei voti, ovvero 80 dei 130 assembleisti, senza contare quelli dei partiti di coalizione. Una vittoria che permetterà di mantenere fede alla prima promessa di Correa: la riforma dell’istituzionalità politica del paese e in particolare del congresso nazionale che è stato fino ad oggi l’alcova delle peggiori oligarchie nazionali. Ma anche e soprattutto della costituzione politica, per creare una giurisprudenza capace di porre fine al dogma neoliberale e ponga le basi per un vero stato sociale.
Secondo: sta per finire il banchetto dell’evasione fiscale per gli impresari ecuadoriani e per le imprese transnazionali. E’ il progetto del governo che sta dentro la lotta contro la corruzione e l’impunità, quella che ha portato il paese al collasso economico nel 1999 con la rapina dei risparmi di milioni di ecuadoriani, orchestrata dalle maggiori banche del paese e dall’allora presidente Jamil Mahuad, e che ha condotto alla decapitalizzazione del paese e alla dollarizzazione dell’economia.
Terzo: la rivoluzione economica. Qui Correa e il suo governo non potrebbero essere più chiari: occorre porre fine al paradigma neoliberale che si è imposto in america latina ed in Ecuador per venti anni. Quel paradigma che è servito a mantenere il paese in una posizione di subordinazione economica e all’esigenza del pagamento del debito esterno, a cui sono stati destinati l’80% delle risorse economiche statali provenienti dall’estrazione petrolifera, attraverso la creazione del così chiamato “fondo di stabilizzazione e riduzione del debito pubblico”.
Gli effetti delle politiche neoliberali in Ecuador si vedono nei 3 milioni di migranti verso il sogno nordamericano, spagnolo, italiano; nella disoccupazione, nell’aumento della povertà, nel saccheggio delle risorse e la distruzione del bosco amazzonico. In questi venti anni si sono estratti milioni di barili di petrolio nell’oriente ecuadoriano, producendo un’incalcolabile danno ambientale e sociale. Basti pensare al caso Texaco e al giudizio cui la compagnia è sottoposta attualmente nel tribunale di Nueva Loja, per i crimini ambientali delle sue operazioni in Amazzonia.

Se una delle parole più ricorrenti nei discorsi del presidente e del suo governo in materia economica è quella di “sovranità”, uno tra i temi più dibattuti è quello del debito. Rispetto a questo, Correa propone di non pagare il “debito illegittimo”, cioè quello acquisito in condizioni di imposizione, in un contesto di corruzione, o di pressione, e che questo tema venga dibattuto da un tribunale internazionale di arbitraggio sul debito estero, alternativo al FMI.
E anche, di convertire il debito in progetti di cooperazione governativa, o che questo sia in parte cancellato in virtù del servizio che l’Amazzonia fornisce per la sua capacità di produrre ossigeno e di assorbire carbonio. L’Ecuador dovrà concentrarsi sul risparmio e ricorrere al prestito solo in condizioni giuste di pagamento del servizio del debito, per attuare investimenti veramente produttivi per il paese.
Invece, gli investimenti sociali, dovranno basarsi su risorse proprie, che il governo evidentemente appunta ad acquisire principalmente attraverso la revisione dei contratti petroliferi.
Da qui la promulgazione della legge sulle eccedenze del profitto petrolifero, che alza al 99% l’ingresso per lo Stato. Decisione che ha provocato un’unanime reazione contrariata da parte di tutte le imprese transnazionali che operano nell’Amazzonia ecuadoriana (fra queste l’italiana Agip, la francese Perenco, la spagnola argentina Repsol-YPF, la cinese Andes Petroleum, la canadese Petrobell e il gigante Brasiliano verde-giallo Petrobras).
I contratti di partecipazione di queste compagnie tali come sono stati stipulati stabiliscono che, pur essendo il petrolio patrimonio inalienabile dello stato, questo partecipa nei profitti al 20%, e le compagnie all’80%, per un prezzo del barile fissato a 25 dollari. Fino alla promulgazione del decreto legge delle scorse settimane, era stabilito che i profitti eccedenti dovuti al rialzo del prezzo del barile, si ripartissero al 50 % fra lo stato e le imprese. Una bel guadagno per le compagnie, visto che attualmente il prezzo al barile ha superato la soglia dei 90,00$ . Ora, la Costituzione attuale prevede che il governo abbia il diritto di stabilire la sua quota di partecipazione nelle eccedenze a partire da una partecipazione minima del 50%.
Il decreto di Correa dunque, nonostante le minacce delle compagnie, che come Repsol hanno dichiarato che ricorreranno a tribunali internazionali per far rivedere questa “decisione unilaterale ed illegittima”, è perfettamente legale e legittima.
Soprattutto è la base della strategia economica del governo e del suo presidente e del quarto pilastro della sua proposta: la rivoluzione nelle politiche sociali e la creazione di uno stato sociale capace di garantire educazione, salute, infrastrutture.
La legge sui profitti eccedenti, sarebbe solo la prima di una serie di misure che appuntano alla revisione dei contratti di “partecipazione” a contratti di “prestazione di servizio”, in cui lo stato sarà padrone del 100% dei profitti, e pagherebbe in barili di petrolio le compagnie per la loro prestazione d’opera.
La rinegoziazione del debito e il cambiamento dei contratti petroliferi rappresentano dunque i capisaldi della rivoluzione economica proposta da Correa, a cui si aggiunge il quinto pilastro del suo programma di governo: l’integrazione economica latinoamericana, soprattutto con i governi amici, in primo luogo quello chavista. Con il Venezuela, Correa ha già stipulato accordi per la vendita di petrolio ad un prezzo vantaggioso e la costruzione di un gasdotto sulla rotta Ecuador-Colombia-Venzuela. Inoltre, tra i progetti futuri dei presidenti bolivariani, la costruzione di un Banco Latinoamericano e la possibilità di creare una moneta unica per il continente.

I NODI IN SOSPESO DEL PROGETTO CORREISTA
Se si tratta di rivoluzione, più che di socialismo del secolo XXI, l’alvarismo bolivariano di Correa assomiglia di più ad una rivoluzione neo-kenesiana e social democratica, che però si deve adattare ad una economia strutturalmente estrattivista, dove l’industria è praticamente assente. Di più, dove insieme all’economia di mercato convivono economie informali, economie contadine ed indigene di autosussistenza. Dove, il modello economico primario produce innumerevoli conflitti ambientali tra le popolazioni direttamente coinvolte nei progetti estrattivi.
Ad esempio, sovranità nazionale ed economica, non significano necessariamente il fine della distruzione dell’Amazzonia. Potrebbero significare un suo sacrificio, però in nome della sovranità nazionale.

Il movimento indigeno, Il grande assente
Una delle prime questioni che si pone è quale sarà lo spazio nella rivoluzione correista per il movimento indigeno ecuadoriano, grande assente delle ultime vicissitudini elettorali e politiche del paese. Un movimento apparentemente in crisi che, da grande protagonista dei levantamientos degli anni 90 e della costituzione multiculturale promulgata nel 1998, non si è ancora ripreso dalla caduta di popolarità e legittimità per la sua , fugace, partecipazione al governo del colonnello Gutierrez nel 2003.

Nelle ultime elezioni per i candidati alla costituente, la lista 35 di Allianza Pais ha preso il 70% nelle regioni indigene della Sierra come Imbabura, Cotopaxi, Tumgurahuae Chimborazo. Le basi di Conaie (l’organizzazione indigena nazionale) e di Ecuarunari (l’organizzazione indigena più importante della Sierra) sono con Correa dunque. Però la dirigenza ha espresso più volte la preoccupazione per un processo costituente senza una degna rappresentanza del settore indigeno. Lo scorso 23 ottobre il presidente di Conaie Luis Macas e il presidente di Ecuarunari hanno consegnato agli assembleisti il loro progetto di costituzione e hanno annunciato una marcia dall’Amazzonia e dalle Ande a Quito per chiedere che l’assemblea costituente prenda in considerazione il tema della Plurinazionalità e dell’Autonomia giurisdizionale indigena.
Il progetto nazionalista di Correa è compatibile con l’agenda indigena? L’Alvarismo bolivariano esprime di fatto una posizione post-post moderna, una riedizione della concezione di popolo e patria che sfida il rimpicciolimento dello stato e il modello di governace neoliberale promosso negli ultimi vent’anni, attraverso la decentralizzazione, l’onnipresenza delle ONG, della cooperazione internazionale e delle agenzie di sviluppo. L’agenda del movimento indigeno propone autonomie amministrative e territoriali, e la strutturazione dello stato nei termini della plurinazionalità.
Quest’ultimo però non ha potuto (ancora) produrre un progetto politico convincente, capace di esplicitare la reale definizione di un paese che si basi sulla plurnazionalità. Insomma, il movimento indigeno non è capace di uscire dalla sua politica d’ identità e riconoscimento, esplicitando il suo progetto politico in materia economica e amministrativa.
Di più, durante gli anni del neoliberismo selvaggio, il modello di governance e di decentralizzazione del controllo delle risorse naturali del paese promosso dalla Banca Mondiale e da altre agenzie internazionali, è risultato spesso in una cooptazione delle organizzazioni indigene nell’agenda neoliberale di valorizzazione economica delle risorse naturali.

Il plurinazionalismo promosso da Conaie, si è trasformato, nella costituzione del 1998, nella promulgazione di una costituzione multiculturale che di fondo, riconosce la differenza come un capitale umano, l’autonomia territoriale e il controllo delle comunità locali delle proprie risorse come strumento del progetto di governance neoliberale e di inclusione di queste nel mercato.
Non sorprende dunque la velata, ma non troppo, antipatia di Correa a discorsi identitari e anche alle migliaia di Ong che lavorano nel paese, rispetto alle quali il presidente ha già annunciato un inasprimento fiscale.

Conflitti ambientali e frontiera petrolifera in Amazzonia
Il secondo nodo della politica di Correa, appena sussurato per non dire silenziato in questi mesi dal governo, è quello dei movimenti sociali e delle organizzazioni coinvolte nei conflitti ambientali, soprattutto nell’Amazzonia.
Se è evidente che il governo ha un piano a lungo termine per risolvere la questione della sovranità limitata del paese rispetto alle sue risorse naturali, non è ancora chiaro come il governo gestirà l’estrazione petrolifera in Amazzonia e come risponderà all’immediata ed urgente situazione di conflittività e povertà delle migliaia di persone che vivono oggi nei campi petroliferi.
L’oriente ecuadoriano, diviso in blocchi di operazioni petrolifere, è la regione che produce letteralmente tutta la ricchezza de paese, ma anche il luogo dove storicamente lo stato è stato quasi assente. Zona selvaggia e di frontiera quasi inesplorata fino alla metà del secolo scorso, l’oriente si è aperto all’integrazione nazionale solo dopo il Boom petrolifero degli anni settanta. A partire da quel momento nella planizie amazzonica le strade, le città, la colonizzazione, sono tutte dipese dalla presenza dell’attività petrolifera. La prima strada che collegava le Ande all’Amazzonia, tra Ambato e il Puyo, la costruì Shell nel 1949. Poi arrivò Texaco, che costruì la stada Quito Lago Agrio negli anni settanta. Era la strada che serviva per le sue operazioni e per la costruzione dell’oleodotto Sote. Con le strade e il petrolio nacquero le città petrolifere come quella di Coca, che prima dell’avvento di Texaco non era che un villaggio fondato dalla missione cappuccina, circondato dalla foresta e dai temibili “selvaggi” Aucas.
La civilizzazione petrolifera ha avanzato aprendo strade nella giungla nella misura in cui i blocchi di petrolio venivano licitati. La strutturazione spaziale definitiva dell’oriente si è sviluppata obbedendo alla logica delle imprese e dell’estrazione del petrolio, in nessun momento come espressione di un controllo pianificato dello stato, che piuttosto si è “servito” della presenza delle imprese straniere per includere al territorio nazionale questa terra, “promessa” ma mai definitivamente dominata nel corso dei secoli e dei cicli commerciali della cannella, dell’oro, del caucciù. Cicli estrattivisti che non avevano lasciato un’impronta indelebile in questo territorio.
Fino al boom del petrolio il controllo del territorio si limitava alla presenza missionaria, che collegava i propri insediamenti amazzonici con Quito attraverso sentieri piuttosto che strade, e che esercitava il suo limitato controllo pastorale sulle anime dei nativi, nel tentativo di pacificarli e sedurli alla sedentarizzazione.
Con il boom petrolifero insieme alle imprese e alle loro inedite risorse economiche e capacità trasformatrici dello spazio, arrivavano orde di contadini con la promessa dell’Eldorado, terra e capacitazione tecnica. Perché la foresta non era percepita come nient’altro che un insieme di alberi ,vale a dire un ostacolo passeggero alla creazione di terre da coltivare e pascoli.
La razionalità dominante e imperante nella conformazione dell’oriente attuale, quella estrattiva del petrolio, ha dominato sulla dimensione umana e ambientale, producendo oggi, una situazione sempre al punto di esplodere, sia socialmente e sia per il grave impatto sugli ecosistemi.
Questo fino agli inizi degli anni novanta, quando esplode internazionalmente il caso di Texaco denunciata per il suoi crimini ambientali, l’avanzata dell’industria del petrolio fu rapace e selvaggia. Come se la restituzione dell’Amazzonia all’Ecuador attraverso l’avanzata civilizzatoria dell’industria petrolifera, la sua reificazione oltre il mito che l’aveva attanagliata per secoli, fosse sufficiente per le oligarchie di turno a giustificare il furto di petrolio negoziato a condizioni sempre troppo vantaggiose per le imprese; il disastro ambientale per la politica del doppio standard delle compagnie ( pulite a casa propria, devastatrici nel loro cortile posteriore); la condizione di miseria dei colonos che ben presto si ritrovarono a vivere in terre ostili, senza il credito promesso e in un ambiente contaminato.

O l’altissimo prezzo pagato dai nativi come ad esempio i Tetetes che si estinsero, i Cofanes, i Sionas e i Secoia che furono decimati e il cui territorio venne ridotto a una piccola porzione di terra imbrattata dalle vasche di drenaggio tossiche di Texaco, o gli Huaoranis, che attraverso un’operazione in concerto tra missionari evangelici e funzionari di Texaco furono sottoposti a un processo di riduzione, lasciando libero un favoloso territorio per l’estrazione petrolifera.
Negli anni novanta, una serie di congiunture, nazionali ed internazionali, come la Conferenza Impresariale sullo Svilippo Sostenibile del ’92, il rinnovato movimento ambientalista, l’intensificarsi dei conflitti nell’oriente che diventava via via una regione sempre più ingovernabile, fa si che le forme di intervento delle imprese petrolifere adottino tecnologie di controllo dello spazio più sottili.

La sicurezza affidata a privati e le convenzioni illegali con i militari, altri protagonisti della storia dell’oriente, non sono più sufficienti per controllare la situazione. Le imprese sono costrette ad assumere nel conteggio dei rischi dei propri investimenti non solo il fattore tecnico, ma anche quello sociale. Nasce l’approccio degli stakeholders, e l’idea della Corporate Social Responsibility. “Se si vuole continuare ad operare in Amazzonia”, scrive un’articolista del Oil and Journal Gas nel 1992, “le imprese devono assumere la sfida delle relazioni comunitarie. Bisogna dare qualcosa alla gente, perché la situazione non esploda”.
Da questo momento le imprese cominciano ad aggiungere alle loro funzioni territorializzatrici para-statali nella civilizzazione dell’amazzonia, quella di providers di servizi di varia natura. Appoggio alla salute, all’educazione, alle opere infrastrutturali e a progetti di sviluppo delle comunità coinvolte nella zona di operazioni petrolifere, che diventano l’arena di contesa e di negoziazione costante tra le comunità di base e l’impresa.
La firma di convenzioni annuali con i dirigenti, l’indennizzazione delle famiglie per opere infrastrutturali nuove o per il risarcimento per i danni causati dagli sversamenti di petrolio o sostanze tossiche nell’ambiente, diventano il terreno di scontro perenne e lo strumento di controllo e cooptazione della resistenza locale.
Si produce così in questi anni una situazione parossistica in cui, le organizzazioni indigene e di colonos che vivono tra le torri di perforazione e gli oleodotti delle imprese petrolifere sono obbligati a negoziare con le imprese in cambio di attenzione medica ed educazione per i loro figli.

L’impresa paga il pranzo scolare, l’impresa assiste nel campo base con i suoi centri di salute. L’impresa costruisce il campo da calcio. Quando deve, l’impresa paga un leader e si risolve un grattacapo. Conflitto e negoziazione con l’impresa sono diventati l’unico strumento, quasi una forma di sopravvivenza, per alcune migliaia di persone tra le più povere dell’Ecuador.
Per l’impresa fare responsabilità sociale significa garantirsi la possibilità di operare in questi territori. Però ha assunto un ruolo che non le compete, un ruolo a cui di fatto non è interessata se non nella misura in cui gli permetta di portare a termine il proprio lavoro.
In altre parole, ciò che muove l’impresa è un mero calcolo economico: un giorno di paralizzazione dell’attività estrattiva dovuto alla conflittività sociale, costa più che una convenzioneannuale stipulato con le comunità.
La responsabilità sociale dell’impresa si è convertita così in un arma potentissima a suo favore, per una duplice ragione: prima di tutto il marketing che queste attività “benefiche” le permettono di fare verso l’opinione pubblica; secondo per il controllo biopolitico che gli permette di esercitare sulle comunità.
Ci si potrebbe chiedere perché lo stato non compia con le sue funzioni in questi territori, se non conoscessimo che il modello estrattivoin Ecuador è frutto di relazioni economiche internazionali asimmetriche, lo stesso che ha svuotato lo Stato delle sue funzioni, che ha impedito l’istituirsi di uno stato capace di controllare il proprio territorio e la sua popolazione, e lo ha privato delle risorse economiche per giocare questo ruolo.
Soprattutto in Amazzonia, dove migliaia di ettari sono stati di fatto assegnati alle imprese petrolifere, per estrarre petrolio a condizioni svantaggiose per lo stato, rendendo questo incapace di intervenire nella regione e delegando quindi alle stesse imprese che impoveriscono il paese l’opera civilizzatoria della regione.

Le mobilitazioni degli ultimi mesi e la risposta del governo
Ora, il problema è come il governo di Correa intenda affrontare questa eredità.
Il dato è che da quando Aliancia Pais si è istallata al potere si sono già verificate diversi conflitti e tensioni nella zona petrolifera dell’Amazzonia, in particolare nella provincia di Orellana.
Lo scorso luglio, c’è stato un “paro” (blocco) delle organizzazioni sociali del Pindo, dove opera la compagnia Cinese Andes Petroleum, nel Bloque 14. Il paro era dovuto principalmente al non rispetto delle convenzioni da parte della compagnia riguardo all’assunzione di lavoratori locali nelle sue operazioni. Per disperdere il “paro” intervengono i militari e la sicurezza privata della compagnia. Risultato, diversi feriti ed uno grave, con una ferita d’arma da fuoco quasi mortale alla gola.
Però silenzio stampa. Da quando l’ex ministro dell’ambiente, attuale assembleista Alberto Acosta ha deciso di legalizzare le convenzioni tra militari ed industrie petrolifere il giugno scorso, ci dovrebbe essere più trasparenza. Se ci sono morti o feriti lo stato dovrebbe rispondere. Dovrebbe.

Il Ministero di Governo manda qualcuno a negoziare. Nella pratica sono più preoccupati di ottenere una promessa dalle organizzazioni di base di non bloccare le operazioni petrolifere. Sarebbe troppo costoso per il governo. I movimenti di base tornano alle loro baracche scontenti.
4 Ottobre 2007. Altro paro nella provincia di Orellana. Questa volta è la gente del Campo Tiguino. Protestano contro uno sversamento di petrolio e chiedono un’ indennizzazione alla compagnia Petrobell. Però la risposta la danno ancora una volta la sicurezza privata e i militari. Questa volta il bilancio è peggiore. Tre feriti e un morto. Ha 28 anni, è un contadino. I militari lo trasportano all’obitorio della città di Coca. L’hanno ucciso i suoi propri compagni dichiarano i militari. Per il resto silenzio stampa. Si ha l’impressione che questo morto potrebbe offuscare la rivoluzione di Correa.
Tiguino e Pindo non sono gli unici nodi della geografia del conflitto nel paese. C’è la questione delle imprese minerarie e il fronte popolare che vi si oppone nella regione dell’Azuay e delle mobilitazioni represse con violenza in giugno. Ci sono poi i movimenti di base sulle Ande contro i megaprogetti idroelettrici.
Non è una questione da poco, perché sulle teste dei loro leader pendono denunce di terrorismo che provengono dalle imprese.
Mentre il governo propone di costituire una commissione di vigilanza su questi conflitti, il prossimo 6 novembre tutti i movimenti di base si daranno appuntamento nella città amazzonica di Macas. Chiedono che decadano le denunce ai loro compagni. Ma soprattutto che il governo parli chiaro rispetto alle concessioni minerarie e si posizioni nel conflitto tra le comunità e le compagnie.
Il fatto è, che fino ad ora la posizione del governo, seppur non dichiarata, appare chiara in questo tema. L’industria mineraria/estrattiva rappresenta una fonte d’ingresso irrinunciabile per il paese. E per quanto riguarda i conflitti nei campi petroliferi, lo stato ha il suo piano a lungo termine per controllare le sue riserve modificando i contratti petroliferi. Non ha intenzione di farsi rovinare il gioco dai movimenti di base.

E intanto ci si chiede, se per questa gente condannata a cedere alle compagnie petrolifere terra in cambio di educazione, salute e strade, il governo attuerà una politica migliore delle imprese, o se continuerà la stessa logica però nazionalizzata.

E qui arriviamo alla questione più ampia, di quale modello di sviluppo la rivoluzione correista intenda applicare in Ecuador e nella sua Amazzonia.
Questa incertezza e ambiguità hanno per esempio caratterizzato tutta la campagna del governo per il progetto della ITT, ovvero la proposta di lasciare sotto terre le riserve petrolifere del campo Ishpingo Tambococha Tiputini, che si trova in pieno parco nazionale Yasunì e che corrisponde al territorio degli ultimi clan di indios non contattati dell’amazzonia ecuatoriana.

Lasciare il petrolio sotto terra, contribuire al contenimento del cambiamento climatico globale rinunciando a disperdere nell’atmosfera tonnellate di carbonio, in cambio e solo nella condizione in cui la comunità internazionale sarà disposta a ripagare lo sforzo economico dell’Ecuador con la cifra di quasi 4 mila milioni di dollari.
Se questa proposta sembra tuttavia avere gambe, lo si deve soprattutto alla campagna di pressione delle organizzazioni della società civile “Amazonia Por la Vida” (www.amazoniaporlavida.org) Mentre il vicepresidente Lenin Moreno dichiara l’importanza del progetto ITT alla conferenza sul cambiamento climatico “Clima Latino” che si è chiusa lo scorso 18 ottobre a Quito, Correa negozia la concessione della licenza ambientale ai brasiliani di Petrobras per lo sfruttamento delle riserve di petrolio nel Parco nazionale Yasuni nel blocco 31, limitrofo con l’ITT. Non solo un’altra ferita in uno dei parchi più biodiversi del pianeta, ma un’iniziativa che svuoterebbe di significato la proposta dell’ITT che è una proposta di intangibilità del parco di Yasunì.

Concedere la licenza ambientale del blocco 31, dello Yasunì , dove già opera Repsol-YPF , Andes Petroleum e Petro Ecuador, riduce a solo 300.000 mila gli ettari di parco. Non solo. Il “bloque” 31 si trova in territorio indigeno Huaorani e questa volta la organizzazione indigena che li rappresenta, la NAWE, non è disposta ad accettare la presenza di una nuova compagnia nel territorio tradizionale. Per questo motivo lo scorso 17 ottobre una delegazione di Huaorani è arrivata a Quito per manifestare contro la licenza di Petrobras.
Il fatto che questa zona di estrazione nel parco Yasuni sia stata licitata al gigante brasiliano, al quale le stesse leggi del proprio paese impediscano in casa propria di operare in aree protette, apre un altro legittimo interrogativo sulla cosiddetta Integrazione Latinoamericana.
Tanto che qualcuno già parla del nuovo imperialismo verde giallo in america latina. Un’ egemonia che riflette la costituzione e il rafforzarsi dell’asse economico Cina-Brasile all’interno dell’ordine imperiale globale e l’indebolimento dell’egemonia nordamericana.

Che significato assume l’idea di Rivoluzione Bolivariana in questo scenario?
E’ certo che la sovranità nazionale economica e la creazione di uno stato sociale effettivo siano obiettivi sacrosanti e che Correa, come Chavez o Morales rappresentino un fase nuova e di trasformazione radicale. Invece, il costo ambientale della rivoluzione Bolivariana in america latina e la proposta di sviluppo ad esso inerente, è ancora tutto da stimare.

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Agip ha fatto il pieno in Amazzonia

Il gruppo ‘Inviati Speciali in Ecuador’ ha incontrato il 16 novembre, nell’ambito della missione in Ecuador, la leader Sarayacu Patricia Gualinga che ha anticipato in esclusiva i risultati di una ricerca che confermano che i livelli di inquinamento riconducibili all’estrazione petrolifera nel blocco 10 – quello dell’Agip – sono superiori alle quantita´ consentite.
L’Agip in Ecuador continua a dichiarare che nelle sue estrazioni petrolifere che realizza nella provincia del Pastaza utilizza "una tecnologia di punta". Ma la leader Sarayacu Patricia Gualinga ha dichiarato con chiarezza e fermezza al gruppo di giornalisti ed esperti italiani in missione in Ecuador che non esiste tecnologia tale da evitare danni alla natura e alle popolazioni nel caso delle estrazioni petrolifere. Lo conferma con le testimonianze che raccoglie, con la vita quotidiana delle comunitá del blocco 10, in cui lavora l’impresa italiana, e con i ripetuti tentativi dell’Agip di creare spaccatura tra le comunita´ e all’interno degli stessi indigeni danneggiati dalle attivitá estrattive.
Dario, abitante di una delle comunitá colpite e presente all’incontro a denunciato l’emarginazione che lo ha colpito quando ha cominciato a raccontare ció che osservava e viveva giornalmente.
Patricia Gualinga ha anticipato i risultati di una ricerca della impresa di consulenza nordamericana Entrix, contrattata dalla stessa Agip per confutare uno studi realizzato dagli stessi Sarayacu insieme all’associazione Accion Ecologica, ma che hanno confermato i dati che parlano di acque, falde,. terreni, flora e fauna che subiscono gli effetti negativi del lavoro della multinazionale al di sopra dei limiti consentiti e che l’Agip dice di rispettare utilizzando una tecnologia all’avanguardia e con un lavoro sostenibile con l’ambiente in cui interviene.
Gualinga ha parlato anche dell’emarginazione che subisce il popolo Sarayacu e degli attacchi mediatici, probabilmente organizzati, che li definiscono sovversivi, terroristi o guerriglieri. Ha sottolineato l’importanza della partecipazione delle donne alla resistenza e della tradizionale accoglienza del popolo Sarayacu verso gli ospiti che li rispettano.

Di Gianni Tarquini (InviatoSpeciale 2007) – per Selvas.org

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