8523 I fantasmi della frontiera

 
20110304 17:06:00 redazione-IT

[b]di Maurizio Matteuzzi, inviato del Manifesto a Ras Jadir[/b]

Confine fra la Libia e la Tunisia. E’ qui che l’Onu e l’Unhcr, la sua agenzia per i rifugiati, hanno lanciato l’allarme per un incombente crisi umanitaria, uno degli «effetti collaterali» dello sconquasso che sta mandando in pezzi la Libia (e che potrebbe essere una delle cause, o dei pretesti, per un prossimo intervento militare internazionale).
Mercoledì l’Unhcr aveva raccontato di cifre e situazioni spaventevoli. 80.000 in fila e in attesa, dalla parte libica della frontiera e 120 mila stipati dalla parte tunisina senza saperne che fare. Condizioni igenico-sanitarie orrende (notti in fila al gelo per non perdere il posto, un bambino morto di freddo… ) e umane agghiaccianti (maltrattamenti, furti, vessazioni di ogni tipo).
Secondo alcuni sono 200 mila i profughi stranieri che hanno passato questo valico nell’estremità occidentale della Libia da quando è scoppiata la rivolta, il 17 febbraio; l’Onu ridimensiona parzialmente la cifra a poco più di 90 mila dal 20 febbraio, ma non la sua drammaticità, più di 7.500 profughi solo mercoledì.

Ieri, quando arriva a Ras Jadir il convoglio d’auto da Tripoli, intorno alle 4 del pomeriggio, ci si aspetta di trovarsi di fronte a scene da girone dantesco simili a quelle che si vedono all’aeroporto della capitale, dove da due settimane bivaccano migliaia di persone in condizioni subumane. Invece il valico, dalla parte libica, è praticamente deserto e sono quasi più i giornalisti stranieri – un centinaio – delle persone che stanno passando. In genere sono bangladeshi, vietnamiti, africani neri di diverse nazionalità. Sono provati, alcuni fanno il segno di vittoria con le dita ma si vede che hanno paura. I più sono carichi di valigie ma certi non si portano dietro quasi nulla. Ti raccontano le cose che ti aspetti: nel calvario passato per arrivare fin qui gli hanno rubato tutto quel che c’era da rubare, soldi, cellulari…, spesso i guadagni di sei-otto mesi di lavoro svaniti in una notte. Ma non importa, l’importante ora è essere qui, a poche decine di metri dalla garitta dove sventola la bandiera tunisina e la liberazione da questo incubo. L’importante è fuggire dalla guerra che c’è stata e che forse ci sarà ancora, e sarà anche peggio.
Ma dove sono finiti quegli «80.000»? O, in ogni caso, le decine di migliaia che, fino a ieri, erano in fila per passare? I colleghi giornalisti che seguono la crisi dalla parte tunisina del confine, al telefono ci dicono che là i profughi entrati da Ras Jadir sono effettivamente ammassati a decine di migliaia, che la situazione umanitaria è drammatica, che si stanno organizzando ponti aerei e navali.
Comunque resta la domanda: dove sono finiti quei disgraziati se fino a ieri erano qui? La ragione per cui i nostri angeli custodi libici ci hanno portato fin qui è chiarissima: dimostrare che non c’è crisi umanitaria, che chi vuole può andarsene senza eccessivi problemi, che anche in questo caso la Libia – la Libia di Gheddafi – è vittima di una campagna di disinformazione sistematica.
Chissà come avranno fatto, ma a quest’ora i bangladeshi, i vietnamiti, i sub-sahariani sono passati e saranno in Tunisia.
Noi riprendiamo la strada per Tripoli, che è a 170 km. Ma presto cala l’oscurità e, fra le decine e decine di posti di blocco dei governativi, quando arriviamo di nuovo a Az Zaywah, una cinquantina di km dalla capitale, l’autista sbaglia strada e viene fermato da un check point dei ribelli, che controllano il centro. Quello che rischia di più, naturalmente, è la nostra guida libica ma la parola magica – «stampa straniera» – e il buio fanno il miracolo, e passiamo. Volevamo fare tappa anche a Mellita, dove ci sono gli impianti dell’Eni più importanti in Libia. Ma il buio e il rischio corso lo sconsigliano. Quindi via.
Az Zaywah è per così dire il simbolo di questa guerra civile a volte strisciante e a volte aperta. C’eravamo fermati anche al mattino, venendo da Tripoli.
Ci volevano mostrare la raffineria più grande del paese, capace di raffinare 120mila barili al giorno (ora lavora al 75% delle sue capacità). In rada, lì davanti, ci sono tre o quattro petroliere in attesa del carico. I ribelli avevano informato, e i media riportato, nei giorni scorsi, che la raffineria era nelle loro mani. Invece no. Gli anti-Gheddafi, che controllano effettivamente il centro della città, sono ad appena qualche centinaio di metri da qui, con un colpo di cannone potrebbero facilmente centrare la raffineria. «Ma non lo faranno», dice il direttore, perché «il petrolio è di tutti i libici». In effetti, apparente paradosso, la raffineria serve sia la principale centrale elettrica di Tripoli, nelle mani dei governativi, ma anche quella di Az Zaywah, nelle mani dei ribelli. Una situazione di stallo, forse di negoziati underground. Ma che potrebbe saltare da un momento all’altro.

http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/03/articolo/4255/

 

 
 
 

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