8514 Tripoli prima della tempesta

 
20110302 19:20:00 redazione-IT

[b]di Maurizio Matteuzzi, (inviato del Manifesto a Tripoli)[/b]

Ieri mattina gli angeli custodi libici che vegliano costantemente su di noi, hanno portato tutti i giornalisti stranieri piovuti a Tripoli (ormai arrivano a frotte e sono già più di 130) a Gasr Ben Ghisher, una ventina di chilometri dalla capitale. Lì erano parcheggiati 4 o 5 carri armati, dall’aria un po’ sfatta ma che facevano il loro effetto (gli unici peraltro visti in città), e una trentina di grossi camion carichi di mercanzia. Sia i tank sia i camion con i poster di Gheddafi e la bandiera verde che, finora, è quella della Libia. Appena arrivati telecamere e giornalisti i camion hanno messo in moto e sono partiti nel frastuono assordante dei clacson e delle grida di una "improvvisata" manifestazione di supporter del Colonnello. Partire per dove? Per Bengasi, ovvio, con cibi, medicinali e altri generi di prima necessità «per il popolo» della della Cirenaica. Come? Ma se è in mano agli insorti… Non importa, «la Libia è una sola» e «loro sono nostri fratelli».

Lo show fa parte della strategia a doppio binario annunciata da Gheddafi anche nella sua intervista concessa (o richiesta?) lunedì a Jeremy Bowen della Bbc e alla superstar Christiane Amanpour della Cbs: da un lato disponibilità a negoziare con i ribelli, dall’altro minaccia di «ricorrere alla forza» in caso di un nulla di fatto (dato che alla forza ha già fatto ricorso a piene mani, bisogna intenderla come il ricorso all’esercito e all’aviazione). Carri armati e aiuti umanitari, il bastone e la carota.

Gli angeli custodi libici si sono provati a far credere che su un camion del convoglio ci fosse anche Abu Zayd Dordah, indicato lunedì da Gheddafi come l’uomo incaricato di saggiare una trattativa con i rivoltosi del Consiglio Nazionale appena insediatosi a Bengasi. Magari poteva trovare un tipo un po’ meno connotato per offrire la carota ai ribelli: Dordah è il capo dell’ External Security Service.

Dalla Cirenaica, il portavoce del Consiglio Nazionale, Hafiz Ghoga, ha già risposto all’avance: non c’è spazio per negoziati con Gheddafi e Tripoli sarà «liberata con il nostro esercito nazionale», prossimamente. Posizione ribadita da una delle figure di spicco del Consiglio Nazionale di Bengasi (in attesa che ne emergano altre dalla nebulosa della rivolta), l’ex ministro degli interni Abdel Fattah Younes, dimessosi una decina di giorni fa dopo una vita passata al fianco di Gheddafi e ora passato «dalla parte del popolo». Nessun negoziato, quando saremo pronti «una forza armata marcerà verso Tripoli». E se non bastasse da sola per costringere Gheddafi a mettere fine «ai massacri», allora dovranno essere lanciati «raid aerei» da parte di bombardieri stranieri pronti a dare una mano. Usa? Nato? Forse, visto che il Pentagono ha appena annunciato «il riposizionamento» nel Mediterraneo davanti alle coste libiche di navi e aerei americani. Ma a una condizione che assomiglia a una foglia di fico: «Che non atterrino sul suolo libico, possono farlo da una base italiana o da una portaerei». Sembra l’alba di una prossima «guerra umanitaria».

Stessa musica dall’altra parte della barricata. Gheddafi userà armi pesanti e aviazione per riprendere le città «occupate» o «liberate» (ieri un attacco per riconquistare il centro di Az Zawiyah, città 50 km a ovest di Tripoli, è stato «respinto» dai ribelli)? «Aspetteremo finché tutti gli altri tentativi si siano esauriti», ha detto il vice-ministro degli esteri Khaled Kaim.

E come per dare l’impressione di fare sul serio ieri, nell’hotel tripolino in cui sono concentrati tutti i giornalisti stranieri, si è tenuta una riunione – la prima – di un centinaio di intellettuali e professori dell’università Fatah della capitale. Fra loro, ci è stato assicurato, persone «pro-Gheddafi e anti-Gheddafi», di «diverso orientamento politico, ideologico e religioso». Peccato che discutessero (animatamente) in arabo e non ci fosse traduzione.

A Tripoli, negli ultimi giorni, aleggia una strana calma (eccetto che di notte e in certi quartieri) ma, mentre dall’esterno della Libia si stringe il cappio intorno al collo di Gheddafi, qui si è sospesi come in una situazione di stallo precario. Che può rompersi da un momento all’altro. Venerdì, per esempio, il giorno della preghiera. E della rivolta.

Ieri circolava in rete un messaggio firmato da un non meglio identificato gruppo di «Giovani dell’Intifada del 17 febbraio» (il giorno dell’inizio della sollevazione contro Gheddafi). «Invitiamo tutti a manifestare pacificamente venerdì prossimo davanti a tutte le moschee libiche affinché sia un venerdì di lotta», no alle «proposte di dialogo con il tiranno Gheddafi».

http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/03/articolo/4244/

 

 
 
 

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