8678 La CGIL in Tunisia con la delegazione del Forum Sociale Mondiale

 
20110411 21:23:00 redazione-IT

[b]Tunisia paese piccolo, cuore grande. Rapporto dalla missione realizzata in Tunisia dal 31 marzo al 5 aprile, dalla delegazione del Consiglio Internazionale del World Social Forum, composta da 32 rappresentanti di diversi paesi africani, europei ed americani[/b]

Tunisi ci appare pulita, ordinata, non sembra essere una capitale dove si sta realizzando una rivoluzione, teatro di rivolte e della cacciata del dittatore e del suo seguito. Sì, è vero, guardandosi bene attorno, i palazzi sensibili sono presidiati e circondati da filo spinato, ma non si respira tensione, i militari sono rilassati, hanno la parvenza del vigile urbano di paese, parlano e discutono con la gente.

Il Consiglio Internazionale del World Social Forum si ricompone, dopo Dakar, per incontrare i protagonisti tunisini che hanno cambiato il corso della storia del nord Africa, promuovendo una rivolta popolare e di massa che in un batter baleno ha contaminato tutta la regione, da est a ovest, dall’Atlantico al Golfo Persico, abbattendo come birilli sistemi dittatoriali che fino a ieri sembravano destinati a riprodursi nel tempo, perennemente.

La nostra visita inizia a Tunisi, nel centro della città, con una conferenza nella sede dell’Unione Generale dei lavoratori di Tunisia, la UGTT, il potente sindacato tunisino che ha svolto e continua a svolgere un ruolo centrale nella fase di protesta e di transizione, verso la nuova Tunisia, come ci ricordano i nostri interlocutori.

Sindacalisti, rappresentanti delle associazioni di donne e studenti ci raccontano la loro storia, il sogno che stanno vivendo ora; poter parlare ed incontrarsi liberamente, non avere più paura di essere arrestati, interrogati, asserviti o emarginati. Una rivoluzione che non è nata dal nulla, ma da due cause principali, come hanno segnalato i dirigenti della UGTT: dalla costante e sistematica violazione dei diritti umani e dalla mancanza di lavoro. Una miscela esplosiva che una volta sfuggita al controllo del regime, è detonata come un fiume in piena, uno tsunami che ha visto tutta la popolazione ribellarsi, abbandonare la paura per riconquistare la propria dignità di popolo.

Ecco, la frase che abbiamo ascoltato più volte, è proprio questa: “abbiamo riconquistato la nostra dignità”. Ora, il passo dalla sconfitta del dittatore alla costruzione di uno stato democratico è lungo ed irto di ostacoli, di questo ne sono consci tutti. Sopratutto i giovani, protagonisti della protesta: sono i primi a manifestare le proprie perplessità e critiche ai partiti ed ai poteri forti che hanno già occupato il potere esecutivo, mettendo le mani sulla transizione, negoziando e ripetendo i meccanismi ed i vizi del passato. Gli studenti non ci stanno, non intendono ritirarsi, discutono, si riuniscono, e non basta il Comitato di Salvaguardia della Rivoluzione, sentono il bisogno di scendere nuovamente in piazza, per difendere la loro rivoluzione, le loro aspettative, la voglia di libertà e la ritrovata dignità e per questo già lanciano la Kasbah 3, la terza fase di protesta, e riprendono gli scontri nel paese.

La UGTT, la Unione Generale dei Lavoratori Tunisini, è la vera ed unica forza organizzata e presente su tutto il territorio nazionale sulla quale si è appoggiato il movimento spontaneo e delle diverse realtà associative della società civile che costituiscono i protagonisti delle proteste e della rivolta. I partiti politici stanno alzando la testa e si stanno organizzando ora, soprattutto nelle aree urbane, proliferando come non mai, dopo decenni di partito unico e di clandestinità. Non hanno quindi avuto un ruolo organizzativo e di riferimento rilevante nella fase di sollevazione, mentre oggi stanno recuperando spazio e ruolo nel Comitato di Salvaguardia della Rivoluzione e nei tre governi transitori fino ad ora succedutisi. Se da un lato la presenza dei partiti è scontata e necessaria, dall’altro lato, questa presenza toglie spazio e ruolo alla società civile, soprattutto i giovani e le donne, che da protagonisti passano a comprimari, esclusi o marginalizzati nelle Commissioni, e sempre più lontani dai luoghi e dai momenti dove si tratta con le istituzioni e si decidono i vari passaggi della transizione. Ne è una prova il conflitto e la delegittimazione dell’attuale governo da parte dei giovani e della UGTT, tanto da convocare una terza fase di lotta, la Kasbah 3, proprio contro il Governo attuale.

Dalle testimonianze raccolte, la UGTT è entrata a pieno nelle proteste quando la sua base, nelle città dell’interno, era già in piazza; i vertici sindacali hanno prima esitato, poi hanno aperto le sedi e messo a disposizione la propria esperienza e capacità di mobilitazione. La UGTT è dapprima entrata nel primo Esecutivo, post Ben Ali, per poi uscirne subito. Tutti segnali di un grande dibattito interno sul ruolo da tenere in questa fase e sul ruolo da giocare nel futuro prossimo. L’ipotesi di entrare in campo come forza politica alle prossime elezioni è promossa da varie correnti interne, mentre il gruppo dirigente attuale per ora smentisce. Si parla di dar vita ad un nuovo soggetto politico sul modello PT del Brasile, un partito laburista, in un quadro politico dove i partiti sono giàuna cinquantina e dove la sinistra ha bisogno di una forte aggregazione se non vuole rischiare di
essere minoritaria e lasciare spazio alle forze religiose e conservatrici presenti nel paese.

I tempi per le decisioni incalzano: in successione entro giugno si dovranno accreditare i partiti ed il 24 luglio ci saranno le elezioni per l’Assemblea Costituente che dovrà scrivere la nuova Costituzione. Ad ottobre è previsto il Congresso della UGTT, che dovrà rinnovare i due terzi del vecchio gruppo dirigente. Nel frattempo, il sindacato continua a svolgere un ruolo di collante sociale fondamentale, soprattutto nelle regioni dell’interno del paese dove la povertà ed il debito sociale sono i più alti e dove il rischio di esclusione dalle decisioni prese a Tunisi è altissimo.

Trecento chilometri a sud ovest da Tunisi, a Kasserine, troviamo un ambiente molto diverso dalla capitale. E’ a Kasserine che nel gennaio scorso sono iniziate le proteste: 68 giovani sono stati uccisi in città, molti altri sono stati arrestati, torturati, feriti da armi da fuoco. Giovani scesi in strada a protestare per la grave situazione di disoccupazione e di corruzione, oramai impossibile da sopportare. Kasserine è una delle due regioni più povere della Tunisia, prevalentemente a vocazione agricola, con un buon potenziale turistico dovuto alla presenza di numerosi resti romanici, e con una tradizione di artigianato berbero per la produzione di tappeti, ma fuori dai programmi di sviluppoeconomico del precedente regime. In città visitiamo la tenda, allestita dai giovani diplomati e laureati che da 4 giorni hanno iniziato lo sciopero della fame, per protestare contro l’attuale governo che non ha ancora fatto nulla per affrontare il problema della disoccupazione. I giovani diplomati e laureati, con master e dottorati, senza lavoro sono oltre 3.500. Le fotocopie dei diplomi di laurea e le specializzazioni sono appese ai fili, tutt’attorno al presidio. Si sentono traditi, abbandonati, come pure i familiari delle vittime della repressione, incontrati nella sede della UGTT, dove siamo stati ricevuti dal comitato cittadino della rivoluzione. Ma i dirigenti delle diverse associazioni e dei sindacati hanno dovuto lasciare il palcoscenico alle madri ed ai familiari delle vittime, venuti tutti con i certificati di morte e con le foto dei loro cari, per ricordare il dolore che si portano appresso ed il sacrificio di questi giovani per la libertà, per riconquistare la dignità perduta. Tutti gridano, innalzando con le mani foto agghiaccianti di visi deformati dai lividi, corpi tappezzati da fori di proiettili, madri che accompagnano i loro figli che camminano con le stampelle, chi ha perso una gamba, chi mostra le ferite ed i tagli, chi piange e si dispera, ma tutti con dignità chiedono giustizia per i loro cari. I dirigenti ci dicono che le autorità, il Governatore e gli agenti di polizia, sono rimasti quelli di prima; i responsabili delle violenze e delle repressioni prima che Ben Ali fuggisse sono ancora tutti in libertà, non vi sono processi in corso, le autorità cercano di comprare il silenzio dei familiari, dei feriti, di chi ha subito menomazioni permanenti, offrendo denaro, miserie e riproducendo forme di corruzione e di clientelismo. Ma il vento è cambiato, la gente non ha più paura e la protesta è dilagante, la richiesta di giustizia è troppo forte, incontenibile.

Stessi volti, stesse testimonianze raccogliamo nelle altre città della zona orientale del paese, a Sidi Bouziz, dove è avvenuto il tragico fatto del giovane ambulante che si è dato fuoco, come nel piccolo villaggio di Regueb, dove cinque giovani, tra cui due ragazze, sono state uccisi dai cecchini del regime mentre protestavano pacificamente nelle strade.

Le voci dei familiari delle vittime, dei sindacalisti, degli avvocati e delle donne, chiedono in ogni dove giustizia, verità e riconciliazione. Non vogliono il denaro offerto per placare il dolore ma ilriconoscimento del sacrificio dei loro cari per la libertà e per la democrazia. Chiedono che i colpevoli vengano portati a giudizio, che si realizzino i processi, in modo giusto ed equo, che le persone che si sono macchiate di questi crimini, non rimangano impunite e nei loro posti di potere.

Vogliono giustizia e lavoro, programmi di assistenza e di recupero per i feriti ed i disabili, affinché il sacrificio di chi ha perso la propria vita o di chi è stato torturato, ferito o reso disabile, non sia un sacrificio vano.
Per il sindacato le priorità sono chiare: occorre reintegrare i lavoratori nei luoghi di lavoro, combattere la disoccupazione con nuovi investimenti, seguire passo a passo la fase costituente per evitare che si torni indietro. Il problema della disoccupazione giovanile, soprattutto di chi ha studiato e si trova senza prospettive, è un problema sociale acuto, tanto da rendere questi giovani protagonisti della rivolta, rompendo il luogo comune ed il pregiudizio che ci viene trasmesso in Italia ed in Europa che questi giovani vogliono lasciare il loro paese. Al contrario, questi giovani sono morti per avere lavoro, libertà e dignità nel loro paese. La migrazione è l’ultima delle ipotesi, la più disperata, prima degli atti estremi. Quanta responsabilità ricade sull’Europa e sui nostri governi che non hanno investito in programmi di cooperazione economica, commerciale, di investimenti infrastrutturali, in programmi di integrazione e di scambio regionale, di mobilità delle persone, legati al rispetto delle libertà, della crescita democratica e della giustizia sociale, anziché lasciar crescere la concentrazione della ricchezza nelle mani delle due famiglie al potere. Si sono così accettati i sistemi di corruzione e di illegalità, il saccheggio delle ricchezze e delle risorse comuni a beneficio di pochi. Si è aumentato lo squilibrio economico e l’ingiustizia sociale in una regione tanto interdipendente come è quella del bacino del Mediterraneo. Due esempi esplicativi: il costo della mano d’opera, con un rapporto di 10 a 1 tra le due sponde, con salari di 130 € al mese e 6 € per i giornalieri, senza alcun contratto, senza alcun diritto, neanche i diritti fondamentali del lavoro, con il sistema delle aziende off shore, dove di fatto è proibito il diritto di associazione e non si possono negoziare le condizioni di lavoro, ed il proliferare del lavoro nero tra giovani e donne in tutto il paese.

Abbiamo noi il diritto di respingere alla frontiera, in mare, questi giovani che cercano di costruirsi un futuro, rischiando la vita, dopo aver tentato tutte le strade a casa loro ? Oltre all’aspetto umanitario, fondamentale ed alla base del convivere civile, che ci obbliga ad accogliere e ad assistere, è possibile non vedere le nostre responsabilità e i nostri profitti nell’aver tenuto intere popolazioni in condizioni di oppressione ?

Questi giovani sono gli stessi giovani protagonisti della rivolta e della cacciata di Ben Ali. Sono i ragazzi della periferia povera di Tunisi, delle città dell’interno e delle campagne che dopo aver vissuto tutta la loro esistenza sotto l’oppressione e senza prospettive di un futuro dignitoso, vedono ora la possibilità di fuggire, di provare a giocarsi una nuova opportunità di vita in Europa, vista come il miraggio dell’oasi nel deserto. Vogliono tutto e subito, passano all’incasso di quanto subito, non hanno il tempo di aspettare la democrazia, sentono che questo è il momento di osare e di esigere tutto da tutti, il loro progetto è individuale, scappare da una condizione troppo sofferta, troppo odiata, per andare alla ricerca del proprio futuro.

Ed a nulla valgono le esortazioni a restare di chi con loro ha riempito le piazze e le strade della protesta, ed ha un progetto personale e politico di ricostruzione, sociale ed economica del propriopaese, facendo leva sulla responsabilità collettiva del viaggio intrapreso verso la democrazia, del bisogno di stare uniti e di continuare la rivoluzione, dell’opportunità di costruire qui, in Tunisia, il proprio futuro, con dignità e senza vagare per altri paesi e subire altre umiliazioni. Questi giovani vogliono risposte concrete, non vogliono parole e promesse, e non vogliono perdere questa finestra verso l’Europa, mitizzata, che potrebbe chiudersi domani. Chi continua la rivoluzione non ha le risposte che cercano questi giovani oggi, subito. Non possono offrire lavoro e garantire giustizia. Anzi l’economia e gli investimenti hanno frenato, i responsabili delle violenze e della repressione sono ancora liberi ed ai loro posti di comando, il cammino da fare è ancora lungo e gli esiti non sono certi.

Anche noi, quindi, siamo tirati dentro questo processo di cambiamento strutturale o rivoluzionario, a seconda di come lo si vuol chiamare, per le nostre relazioni commerciali, per la nostra vicinanza e per questi giovani che arrivano da noi portandoci dentro il loro processo. E noi siamo chiamati a rispondere, ad accogliere o respingere, a cooperare o ad imporre, a sostenere il processo in corso o a demolirlo. Non capire o non voler vedere che questo nuovo flusso migratorio sta dentro questo processo e che quindi va affrontato in termini di politica di integrazione, di stabilità democratica, di sviluppo reciproco e sostenibile della regione mediterranea è un attentato al nostro futuro, è pura cecità politica, oltre che andare contro ai principi ed ai trattati che tutelano i diritti umani ed il diritto umanitario internazionale.

E’ la fine di un sistema di relazioni ingiuste, non più sostenibili per entrambe le popolazioni. Per noi, popolazioni del Nord, perchè non siamo più in grado di mantenere lo standard di vita acquisito negli ultimi cinquant’anni. Non più sostenibile per loro, popolazioni giovani del Sud, perchè stanche di vivere oppresse e sfruttate. Siamo, quindi , giunti ad un nuovo bivio, o prendiamo la direzione dello sviluppo sostenibile per tutti o continuiamo per la nostra strada, inventandoci nuove relazioni di dominio e di sfruttamento. La lezione che ci arriva dalla Tunisia è che questi giovani hanno detto basta al regime di Ben Ali, ma in realtà hanno detto basta ad un sistema di relazioni ingiuste che travalicano i confini del loro paese, coinvolgendo il sistema di relazioni economiche e di cooperazione imposte dal Nord, che per anni ha legittimato e rafforzato il regime autoritario e repressivo locale. La “nuova Tunisia”come dicono i giovani ed i sindacati, ha bisogno, per portare a termine il processo di cambiamento alla democrazia, di un nuovo patto tra tutti i tunisini e di nuove relazioni internazionali.

Un’altra lezione che ci arriva da questa “nuova Tunisia” è la gestione dei migranti e dei profughi in fuga dalla vicina Libia. Siamo andati al confine con la Libia, a Ras Jadir, dove sono stati allestiti i centri di accoglienza sul confine ed i tre campi di accoglienza temporanea, dislocati a 6 – 8 chilometri dalla linea di confine. Là, abbiamo incontrato i militari tunisini, i volontari della Protezione Civile tunisina, gli operatori dell’OIM e dell’UNHCR, che insieme stanno gestendo un flusso di persone in fuga dalla Libia che ha toccato punte di 15.000 persone al giorno (e minime di 1.000persone). A tutt’oggi, circa 150.000 persone sono uscite dalla Libia ed entrate in Tunisia, quindi assistite con spirito di solidarietà e di fratellanza, offrendo biscotti, acqua ed assistenza sanitaria in frontiera, quindi, smistandoli nei campi di accoglienza e provvedendo con immediatezza al rimpatrio, in accordo con i governi dei paesi di origine. Oltre 100.000 persone sono già state rimpatriate, in modo volontario e consenziente: circa 20.000 sono i tunisini che lavoravano in Libia, rientrati a casa loro; il resto sono in maggioranza lavoratori o migranti africani in attesa di rimpatrio o richiedenti asilo, in attesa del riconoscimento. Una umanità appartenente a 72 diverse nazioni, e tra queste vi sono alcune migliaia di persone che non possono rientrare nel proprio paese di origine, come i somali, i ciadiani, gli eritrei, i sudanesi, a causa delle guerre o per la minaccia di subire violenze e torture. Ma, l’emergenza di questa fase è la mancanza di risorse finanziarie per consentire il rimpatrio dei migranti in fuga che non contano sul sostegno economico dei propri paesi. Il coordinatore dello OIM, responsabile del campo di Shusha, ci segnala che ha a disposizione i fondi per un solo charter al giorno e che da Ginevra, sede dell’Agenzia, arrivano segnali preoccupanti; mancano fondi nel sistema ONU ed i contributi volontari sono insufficienti, per cui queste persone sono costrette a rimanere nei campi di transito, in condizioni assolutamente precarie, aumentando l’affollamento e tutte le ovvie complicazioni che si determinano in queste situazioni; tensioni, depressioni, difficoltà nella fornitura di acqua, cibo, assistenza sanitaria.

Al momento la capacità di accoglienza nei tre campi installati è in grado di assorbire il flusso attuale delle persone che abbandonano la Libia, ma si teme una nuova ondata e, se non scatta una pronta risposta da parte della comunità internazionale, l’attuale sistema di accoglienza scoppierebbe.

Altro aspetto che ci viene segnalato come una questione a tutt’oggi aperta è il dopo evacuazione, per le persone che non vogliono e non possono rientrare nei paesi di origine. A queste persone debbono essere offerte soluzioni di protezione e di inserimento socio-lavorativo. La Tunisia non è in grado di assorbire forza lavoro, visto che è un paese di emigrazione, per cui il responsabile dell’UNHCR indica come una delle possibili soluzioni il “resettlement”, ossia la protezione dei rifugiati in un altro paese, attraverso accordi e programmi di inserimento, per evitare di trasformare il campo di accoglienza transitoria, in un campo profughi di lunga durata, ipotesi questa tra le peggiori. In questo momento i candidati a questo percorso sono alcune migliaia di africani, in maggioranza somali, eritrei, sudanesi, ciadiani, forse le stesse persone che percorrevano la strada della tratta umana e dell’immigrazione illegale, funzionale a Gheddafi per alzare il prezzo della sua collaborazione con l’Italia e l’Europa.

 

 
 
 

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