8705 Calo delle borse e debiti pubblici

 
20110420 14:54:00 redazione-IT

[b]di Tonino D’Orazio[/b]

Avevamo già avuto modo di scrivere che il problema del default delle banche sarebbe precipitato di nuovo.
Lasciamo perdere gli Stati Uniti. Anche se Standard & Poor’s ha deciso di portare l’outlook da "stabile" a "negativo" sul rating "AAA" del debito pubblico americano, per il timore che il Congresso non riesca a varare le misure necessarie a riequilibrare gli squilibri di medio-lungo periodo nei conti pubblici, e sia perché è iniziata la guerra elettorale dei repubblicani su chi deve pagarli. Poi alla fine, tra una guerra e l’altra, mai dimenticare quanto “tiri” l’economia di guerra, ne faranno pagare almeno una parte all’Europa, decidendo sul rialzo, o meno, del dollaro nei confronti dell’euro, o del prezzo del petrolio del quale sono i principali giocolieri.
Tanto è vero che il portavoce della Casa Bianca definisce un "giudizio politico" quello di S&P’s, mentre il Tesoro Usa invita a non "sottostimare" la capacità dei leader politici americani di "risolvere i difficili problemi di bilancio".

In confronto al loro debito pubblico, già comunque spalmato sui bilanci di vari paesi al mondo, viene da sorridere su queste grandi capacità. Per trovare un’intesa minima, con i repubblicani in maggioranza al Congresso e al Senato, sul budget federale (intesa che introduce 39 miliardi di dollari di minori costi e tagli ai sussidi pubblici, in realtà tutto il programma sociale del presidente) ed evitare la chiusura per mancanza di fondi degli uffici federali non essenziali, tra i quali le “ambasciate” e il simbolo dell’america, la statua della libertà, Obama ha dovuto promettere (o meglio minacciare) un taglio pari a 4 triliardi di dollari nei prossimi 12 anni, impegnandosi in realtà oltre il suo eventuale secondo mandato.

Ma poiché le ricette "lacrime e sangue" non piacciono a nessuno, in Grecia come negli Stati Uniti (dove i nuovi tagli sono approvati da meno di metà della popolazione), la reazione delle borse, a cominciare da Wall Street e trasmessa al mondo occidentale, è ampiamente negativa. Tanto da indurre la Bce (che ha già fatto capire di voler alzare ancora di mezzo punto il costo del denaro entro l’anno) quanto la Fed (che ha ribadito che gli acquisti di T-bond si concluderanno a fine giugno) a stringere i cordoni della borsa per “evitare nuove fiammate inflazionistiche”, ma destinati a produrre nuovi scossoni sui mercati mondiali prossimamente.

Ma già in Europa la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo sono alle strette. E non saranno in grado di “ristrutturare il debito pubblico”, da tradurre in ulteriore tagli al sociale, già minimo, per le popolazioni e i lavoratori di quei paesi. Nessuno vuole i loro bond a medio e lungo termine. I tassi di interesse sono saliti, a due anni, oltre il 20%, quelli a dieci hanno raggiunto il 14,65%. Si tratta di costi insostenibili per Atene che, infatti, non raccogliendo più denaro con l’emissione di bond a lungo termine, e’ dovuta ricorrere al prestito di 110 miliardi di euro da parte della Ue e del Fmi.

Non sono stati sufficienti i ripetuti interventi di sostegno della Bce che ha comprato prima i bond greci e poi, quelli irlandesi e portoghesi, visto che non hanno più accesso al mercato dei capitali. Non saranno in grado di restituire. I tassi sui titoli della Grecia sono saliti dal 7% al 14,65%, quelli dell’Irlanda dall’ 8 al 9,50%, quelli del Portogallo dal 7% al 9,09%. Nemmeno da speculazione visto che non potranno reggere queste promesse. In totale la Bce ha già speso 76 miliardi, e in un sicuro allungamento del taglio del prezzo di rimborso o delle scadenze dei bond del debito greco, la Bce si troverebbe a contabilizzare pesanti perdite, tanto che, almeno da un mese, non sta intervenendo più nell’acquisto di questi bond.

Infatti la Bce avrebbe dovuto rilanciare la proposta dei bond europei finalizzati alla ripresa economica.
Ma anche la situazione irlandese e quella portoghese incalzano. Hanno regalato tutti troppi soldi alle banche e ora non si sa più cosa fare. Anche il “lacrime e sangue” per le popolazioni sta diventando un boomerang politico. Quasi aleggia in Europa un vento di cambiamento.
Salgono le tensioni sull’aumento dei tassi di interesse anche in Italia. Per la prima volta i titoli di stato italiani decennali sono andati oltre il 5 % di interesse. E se la Bce intende di nuovo aumentare il tasso di interesse, anche di 0.25, che per i cittadini si traduce sempre in un reale aumento del 2.0%, non si potrà evitare un aumento inflazionistico. Inflazione che in realtà oggi dipende quasi solo dai costi energetici e di cui i paesi europei non hanno colpa. Però nessun paese interviene per calmierarli.

E sappiamo tutti che l’inflazione ha innanzitutto conseguenze sulle condizioni di vita della parte più debole dei cittadini e sul debito pubblico dei paesi, il cui costo aumenterà per effetto dell’aumento del costo del denaro. Rischia altresì di inghiottire quel poco di ripresa in atto. E questo non solo per Grecia, Irlanda e Portogallo, ma anche per noi e per gli altri paesi come Belgio e Francia, a un passo del default dopo di noi.

Per ridurre il debito pubblico trovano spazio anche le teorie più folli e incredibili di vari finanzieri liberal per i quali "L’unico modo di abbassare il debito pubblico è quello di alzare l’inflazione al 10%. Il debito pubblico italiano ha un costo mediamente del 3,6% e se per 7 anni fossimo di fronte ad un’inflazione del 10% il debito pubblico italiano si ridurrebbe ogni anno del 6,4%, in pochi anni quindi, il debito potrebbe essere riportato al 75-80% del Pil, percentuale questa sicuramente accettabile dai mercati". Immaginando che l’Italia potrebbe inflazionare il sistema come la Federal Reserve fa negli Stati Uniti. Insomma la morte del cavallo dopo la cura.

 

 
 
 

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