9096 EGITTO: fine del sit-in di piazza Tahrir

 
20110802 22:49:00 redazione-IT

[b]di Elisa Ferrero[/b]

1 Agosto 2011 – Giovedì 21 luglio, il nuovo governo guidato dal primo ministro Sharaf ha finalmente prestato il suo giuramento, nonostante le numerose polemiche al riguardo e nonostante l’insoddisfazione dei manifestanti di Tahrir, i quali chiedevano (e chiedono ancora) ben altri provvedimenti: l’abolizione dei processi militari ai civili, giustizia nei confronti dei martiri della rivoluzione, il processo pubblico degli uomini del vecchio regime da parte di un tribunale apposito, le dimissioni del ministro degli interni (sempre saldo al suo posto), l’epurazione della polizia dagli elementi corrotti e alcune chiare misure di giustizia sociale.

I manifestanti, data la debole risposta del governo e del Consiglio Militare alle loro richieste, hanno proseguito i loro sit-in in varie città egiziane. Venerdì 22 luglio, tuttavia, la polizia militare ha attaccato quelli di Suez ed Alessandria. Al tempo stesso, il Consiglio Militare ha emanato un comunicato velenoso, nel quale ha accusato esplicitamente il Movimento 6 Aprile di essere finanziato e manovrato da paesi stranieri. E’ la prima volta che le forze armate se la prendono con un preciso gruppo politico della rivoluzione. I manifestanti hanno sentito questo comunicato come un tentativo di spingere contro di loro, e in particolare contro gli attivisti del Movimento 6 Aprile, l’intera popolazione, agitando lo spauracchio dell’interferenza straniera.

Le parole del Consiglio Militare, che hanno generato un clima da caccia alle streghe, hanno suscitato profonda indignazione in piazza Tahrir, tanto che alcuni manifestanti, in solidarietà con il Movimento 6 Aprile, hanno organizzato una marcia pacifica verso il ministero della difesa, nel quartiere di Abbasiya. Non tutti i manifestanti, a dire il vero, erano d’accordo, sia perché tale marcia avrebbe potuto costituire una pericolosa provocazione nei confronti delle forze armate, sia perché molti temevano di lasciare sguarnita piazza Tahrir. La marcia, tuttavia, si è svolta lo stesso, con la partecipazione di un buon numero di persone. Per un po’ tutto si è svolto pacificamente, finché il corteo non è giunto nei pressi della moschea al-Nur, dove si trovava un presidio dell’esercito. A quel punto, sono scoppiate le violenze, la cui dinamica non è stata ancora ben chiarita. Quel che è certo è che il corteo è stato assalito dall’alto, dai tetti delle case del circondario, con lanci di pietre da parte di persone non identificate. La situazione è degenerata in scontri violenti, con bombe molotov e gas lacrimogeni. I testimoni dicono che l’esercito sia rimasto a guardare, limitandosi a sparare in aria. Le fonti ufficiali affermano che gli assalitori dei tetti erano residenti del quartiere di Abbasiya, ostili ai manifestanti. Molti, invece, sostengono che si sia trattato della solita tattica del regime, che manda avanti i suoi teppisti senza sporcarsi le mani direttamente. Secondo alcuni manifestanti presenti ai fatti si è trattato di un po’ di tutte e due le cose, la reazione di residenti arrabbiati alla quale gli onnipresenti baltagheya hanno dato un "tocco professionale".

Il risultato degli incidenti di Abbasiya è stato un numero di feriti superiore a trecento, alcuni di questi gravi. E il dibattito nella piazza si è acceso di nuovo. Molti danno la colpa di quanto successo ai manifestanti di sinistra, i più radicali, che forzano continuamente lo scontro con il Consiglio Militare. I più moderati sostengono che questo sia un modo di agire del tutto perdente e controproducente, perché potrebbe condurre l’esercito a intervenire drasticamente, ponendo fine ad ogni processo di riforma. Tuttavia, quando i manifestanti più radicali, insistendo nella loro strategia suicida, vengono attaccati brutalmente, quelli più moderati non possono fare a meno di accorrere in loro soccorso, perché le violenze su manifestanti pacifici non sono in ogni caso tollerabili. E’ anche per questo, dopotutto, che si è fatta la rivoluzione. Dunque, alla fine, tutti i rivoluzionari sono coinvolti da una minoranza in situazioni ad alto rischio, con l’antipatia della popolazione nei loro confronti che cresce ogni volta. Certo, la minoranza radicale ha tutte le ragioni, in linea di principio, ma il rischio è che finiscano per guadagnarci gli islamisti e i reazionari. Qualche moderato si spinge persino a dire che i radicali commettono un errore gravissimo, perché tendono a scontrarsi con i militari riproducendo il modello delle dittature latinoamericane, senza tuttavia tener conto del diverso contesto egiziano.

In seguito, subito dopo gli scontri di Abbaseya, le forze laiche hanno dovuto fronteggiare un’altra sfida, forse ancora più pericolosa. Le forze islamiste, infatti, hanno indetto per venerdì 29 luglio una manifestazione del milione, nella stessa piazza Tahrir dove ancora campeggiavano i manifestanti "liberali". A capo di questa iniziativa non c’erano tanto i moderati Fratelli Musulmani, ma gli islamisti più estremisti, come i salafiti e la Gama’a Islamiya (il gruppo responsabile dell’uccisione di Sadat, per intenderci). Inizialmente, i toni degli islamisti erano minacciosi e inquietanti. L’intenzione dichiarata era "ripulire piazza Tahrir dai liberali", gentilmente invitati da un imam salafita a lasciare il paese. Fino a pochi giorni prima della manifestazione c’era davvero il terrore che avrebbe potuto esserci un bagno di sangue. Poi, per fortuna, in seguito a un dilaogo serrato, le forze laiche e quelle islamiste sono convenute ad un accordo su cinque richieste comuni per unificare la protesta, evitando così divisioni e violenze. La giornata è stata battezzata come "il venerdì della volontà popolare e dell’unità" e le domande comuni avanzate dai manifestanti avrebbero dovuto essere: la fine dei processi militari ai civili, la giustizia per i martiri, processi rapidi per Mubarak e i suoi uomini, un salario minimo per i lavoratori e il processo per alto tradimento ai corrotti dell’ex regime.

Venerdì 29 luglio, piazza Tahrir è stata sommersa da centinaia di migliaia di islamisti, soprattutto salafiti con barbe lunghe e niqab, provenienti da tutti gli angoli del paese. La manifestazione, dunque, era evidentemente preparata da tempo. Per fortuna, la giornata si è svolta pacificamente, senza scontri di sorta con i liberali, rimasti passivamente a presidiare la piazza, osservatori attoniti di quegli ospiti per loro alieni. Lo shock dei liberali è aumentato ancora di più, quando è stato chiaro che i salafiti non avevano nessuna intenzione di rispettare l’accordo con le forze laiche, che prevedeva la rinuncia all’invocazione di uno stato islamico. In piazza Tahrir, per la prima volta dall’inizio della rivoluzione, si sono viste innalzare la bandiera saudita, la foto di Osama Bin Laden e inni alla sharia e al califfato (qualcuno ha persino candidato il feldmaresciallo Tantawi al ruolo di Califfo, esprimendo così ancora una volta l’appoggio incondizionato degli islamisti al Consiglio Militare). Il famoso slogan della rivoluzione "alza la testa, sei egiziano" è stato distorto in "alza la testa, sei musulmano". Nessuna bandiera egiziana, nessun riferimento all’Egitto, ma solo all’islam. Qualche Fratello Musulmano ha timidamente proposto un "musulmani, cristiani, una mano sola", ma è stato subito sopraffatto dagli slogan islamici. Alle cinque domande concordate con i laici è stato riservato solo un fugace accenno.

E per rendere il quadro ancora più torbido, proprio nella stessa giornata, alcuni uomini armati sconosciuti hanno preso d’assalto una stazione di polizia ad Arish, nel Sinai, attacco nel quale sono morti un ufficiale di polizia, un militare e altre persone. Non si sa chi siano gli autori dell’attacco, anche se si crede siano gruppi islamisti.

Inutile dire che la milioniya islamista di venerdì 29 luglio ha sconvolto i liberali, che ancora stanno cercando di assorbire lo shock. Hanno reagito come se si fossero improvvisamente ritrovati in un paese completamente diverso da quel che immaginavano e forse questa è la loro colpa. Naturalmente, per onestà, bisogna dire che anche gli islamisti hanno vissuto un simile shock, in occasione della milioniya liberale del 27 maggio scorso. Alla fin fine, saranno soltanto le elezioni – se non ci saranno brogli – a rivelare la reale entità di ciascuna forza politica. Un tale shock, comunque, può essere un utile campanello d’allarme per i laici. E i copti, che sono circa dieci milioni, dove sono? Gli ortodossi, in particolare, si sono astenuti dal referendum (e con il loro voto, forse, gli emendamenti non sarebbero passati, assieme al progetto di elezioni veloci che favorisce gli islamisti). Se i copti accettassero di farsi coinvolgere di più nella politica, non come cristiani ma come cittadini egiziani, aiuterebbero molto le forze laiche e liberali.

Intanto, mentre si attende la risposta dei liberali, la milioniya salafita sembra essere un bel regalino sia per i Fratelli Musulmani, che così possono giocare meglio il ruolo di islamisti moderati e affidabili, specie considerando il dialogo che si è aperto con gli Stati Uniti, sia per l’esercito, autorizzato ad essere ancora meno incline a vere aperture democratiche.

Oggi, inoltre, inizia il Ramadan (con un grande augurio a tutti i musulmani). Circa una trentina di gruppi politici hanno sospeso il sit-in di piazza Tahrir per tutto il periodo del digiuno, nonostante molti obiettivi non siano ancora stati raggiunti. In piazza restano i famigliari dei martiri e pochi altri, ma chi se ne è andato ha annunciato che continuerà la protesta in altre forme, in quello che si preannuncia già come un Ramadan interessante. Le notizie dalla Siria, in particolare, opprimono i cuori degli egiziani, distraendoli momentaneamente dai propri guai. Tra due giorni, inoltre, comincerà il processo di Mubarak, dei suoi figli e dell’ex ministro degli interni Habib el Adly. Il processo – udite, udite – si terrà all’Accademia di Polizia di Nasr City, al Cairo, in diretta tv. Finalmente, dunque, l’ex rais si schioderà da Sharm el Sheykh? Non è detto, vedremo.

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[b]Fine del sit-in di piazza Tahrir[b]
di Elisa Ferrero

2 Agosto 2011 – Per la terza volta, ieri, il sit-in di piazza Tahrir (o quel che ne restava) è stato sgomberato con la forza, proprio durante il primo giorno di Ramadan, che avrebbe dovuto essere un giorno di festa. Verso le due e mezza del pomeriggio, polizia militare, forze di sicurezza centrale e molti poliziotti in borghese hanno fatto irruzione nella piazza, facendo piazza pulita di tende, stand, lanterne del Ramadan e manifestanti. E’ stata usata la consueta violenza, già vista in altre occasioni. Manifestanti inseguiti e malmenati, caccia a chiunque avesse una macchina fotografica, insulti pesanti a uomini e donne, arresti indiscriminati. Per alcune ore il centro città è piombato nel caos. Picchiate selvaggiamente anche le donne, come hanno testimoniato loro stesse quasi in diretta su Twitter. I carri armati hanno portato via decine di dimostranti, i quali ora saranno certamente condotti davanti ai tribunali militari. L’esercito ha già dichiarato di aver arrestato centinaia di baltagheya (ricordo che l’esercito continua a sostenere di tenere in carcere solo teppisti). La battaglia è durata per ore, con gruppi di irriducibili manifestanti che si ostinavano a resistere. Tra loro molti familiari di martiri, i quali temevano, oltre a non ottenere alcuna giustizia, che tornando a casa sarebbero stati esposti alle minacce dei poliziotti assassini dei loro parenti.

Al di là dell’intollerabile violenza da parte dell’esercito e della polizia, del tutto condannabile, occorre tuttavia far notare alcune cose. L’intervento dell’esercito è stato invocato a gran voce dai commercianti e dai residenti della zona, esausti per le continue proteste che influenzavano negativamente i loro affari e le loro vite. A nulla è valso il tentativo dei manifestanti di ripristinare il traffico per calmare gli animi, una parte considerevole della popolazione era ormai contro il sit-in, anche grazie alla forte campagna di diffamazione lanciata dal Consiglio Militare nei confronti di alcuni gruppi rivoluzionari, come il Movimento 6 Aprile.

Di questa insofferenza crescente della popolazione si sono resi conto in molti, eccetto una minoranza resistente. Quasi tutti i gruppi politici che hanno partecipato al sit-in nelle ultime settimane, dato anche l’imminente periodo di digiuno, si sono ritirati per ripensare la propria strategia. Essendo diminuito drasticamente il numero dei manifestanti, lo sgombero della piazza era più che atteso. La storia insegna. Per tutti questi motivi, molti degli stessi giovani della rivoluzione, alias i giovani di Facebook, hanno preferito, infine, ritirarsi dal sit-in. Ieri, molti di loro cercavano disperatamente di convincere gli ultimi rimasti a tornare a casa, perché era evidente che la battaglia era persa, la rivoluzione non è più una rivoluzione se la popolazione non ti segue. Continuare a lottare avrebbe solamente portato a più arresti, quindi a un ulteriore indebolimento della rivolta. Pare chiaro che, al momento, si debbano cercare strade alternative. "Una battaglia persa non significa perdere la guerra", ha commentato un ragazzo e "intestardirsi è da stupidi". Un’altra ragazza, invece, ha riferito amaramente che "al di fuori di Twitter non ha trovato nessuno favorevole a continuare il sit-in". E le elezioni incalzano, per qualcuno ci sarebbe da concentrarsi su questo.

Tuttavia, è sicuro che alcuni gruppi continueranno le proteste di piazza. La consistente Unione dei Giovani della Rivoluzione ci sta già pensando, ma senza i numeri non si andrà lontano. Intanto, però, domani inizia il processo di Mubarak, che potrebbe alterare nuovamente gli equilibri. Il processo sarà trasmesso solo dalla tv di stato. Inoltre, è giunta notizia, oggi, che non saranno ammessi in aula né i familiari delle vittime, né i giornalisti, né gli avvocati. Non è un bel segno. C’è chi dice sarcasticamente che per togliere dall’imbarazzo il Consiglio Militare – che in realtà non vuole affatto processare l’ex rais – Mubarak morirà nel mese di Ramadan. Si aprono le scommesse.

 

 
 
 

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