40° Congresso delle Colonie Libere: “Una storia tutta svizzera e tutta d’emigrazione”

Nella foto: Internati italiani rientrano in patria dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Le Colonie libere italiane in Svizzera sono nate per portare assistenza ai profughi entrati in Svizzera dopo l'8 settembre. (RDB/ATP)

La Federazione delle Colonie libere italiane in Svizzera si riunisce questo fine settimana per il suo 40esimo congresso. Nate negli anni ’20 su iniziativa di esuli antifascisti, queste associazioni sono oggi confrontate con una sfida vitale: ridefinirsi per potere dare risposte alla nuova mobilità. Intervista con lo storico Toni Ricciardi.

Il 40esimo congresso della Federazione delle Colonie libere italiane (FCLI) in Svizzera, che si tiene il 6 e 7 maggio a Sciaffusa, segna probabilmente una svolta per questa organizzazione dalla storia ormai quasi centenaria. In carica da poco meno di vent’anni, il senatore del Partito democratico Claudio Micheloni lascerà la presidenza. Ma soprattutto la FCLI dovrà – per riprendere le parole dello stesso Micheloni – “riflettere sulla sua storia e sul futuro che vuole dare a questo importante movimento”.

Come si è sviluppata questa associazione? Lo abbiamo chiesto allo storico dell’Università di Ginevra Toni Ricciardi, autore del volume “Associazionismo ed emigrazione – Storia delle Colonie libere e degli italiani in Svizzera”.

tvsvizzera.it: Quando nascono le Colonie libere italiane in Svizzera?

Toni Ricciardi: Ufficialmente la federazione nasce nel novembre 1943 a Olten. Si è trattato della risposta immediata all’8 settembre, ovvero la volontà di mettere in piedi una struttura per garantire l’assistenza agli italiani che cercavano rifugio in Svizzera. Nel 1942 la Svizzera aveva chiuso le sue frontiere – il famoso slogan “La barca è piena” – ma poi già alla fine del 1943 le aveva riaperte, tanto che in quell’anno entrarono circa 45’000 italiani, tra cui 4’000 ebrei.

Toni Ricciardi lavora all'Università di Ginevra ed è uno specialista di storia della migrazione. 
Toni Ricciardi lavora all’Università di Ginevra ed è uno specialista di storia della migrazione. (Université de Genève)
Il nucleo originale delle colonie nasce però già nella metà degli anni ’20 nelle due principali città svizzere, Ginevra e Zurigo, su iniziativa di esuli antifascisti.

Sono quindi nate con un obiettivo politico?

Per ovvie questioni di contesto storico, hanno sempre dovuto dichiarare la loro natura apartitica e apolitica. Ma naturalmente erano chiaramente e marcatamente profilate a sinistra. Una sinistra in senso ampio.

Tra le personalità che hanno dato vita a queste prime associazioni possiamo citare, ad esempio, Egidio Reale, che nel Dopoguerra diventerà ambasciatore d’Italia in Svizzera, Giovanni Medri, che sarà lo storico presidente delle Colonie, o ancora Fernando Schiavetti, che nel 1947 rientrò in Italia, dove fu poi eletto senatore.

Come avveniva questa assistenza ai profughi italiani?

Era un’assistenza quotidiana, materiale, per lenire la sofferenza delle persone. Vi sono numerosi resoconti in cui viene evocata l’estrema indigenza in cui si trovavano molte famiglie.

Questa attività non cessa con la fine della guerra, anzi riprende con ancor più vigore. Già dal 1946, infatti, in Svizzera iniziano ad affluire numerosi lavoratori e lavoratrici italiane.

L’assistenza non è però l’unico obiettivo delle Colonie…

No, queste associazioni sono attive anche in altri ambiti. Ad esempio la formazione o il sostegno scolastico. Un ruolo molto importante in questo ambito lo ha svolto il successore di Medri, Leonardo Zanier.

Nei primi anni ’60 il flusso migratorio si ‘meridionalizza’. Se in precedenza gli emigrati lombardi, piemontesi o veneti avevano già una buona formazione, e divennero da subito capi cantiere o capi squadra, i meridionali in molti casi non avevano nessuna formazione professionale. Le Colonie si impegnarono a organizzare dei corsi.

Qual è stato il ruolo ‘politico’ delle Colonie?

Fino agli anni immediatamente successivi alle iniziative Schwarzenbach (vedi altri sviluppi), le principali rivendicazioni erano rivolte all’Italia. Ad esempio, la gratuità del passaporto o l’organizzazione di treni speciali per permettere agli italiani di andare a votare in patria.

Poi negli anni seguenti, la lotta si è incentrata soprattutto sull’abolizione dello statuto degli stagionali. Una battaglia persa, poiché la Svizzera ha abbandonato formalmente lo statuto di stagionale solo nel 2002, con l’entrata in vigore dell’accordo di libera circolazione con l’UE.

Quando hanno raggiunto l’apice?

Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, quando si sono superati i 20’000 iscritti. Vi erano 117 sedi sparse in tutta la Svizzera, trenta squadre di calcio o ancora dei cineclub.

È proprio anche in questi anni, però, che vi è stato un grave errore di sottovalutazione. L’istituzione delle regioni in Italia ha cambiato completamente la morfologia dell’associazionismo migratorio. Le competenze in materia di migrazione – e quindi i finanziamenti – si sono spostati dallo Stato centrale alle regioni. In altre parole la rete associativa si è svuotata da un punto di vista ideologico e si è riconvertita in una rete associativa su base territoriale.

Vi sono equivalenti in altri paesi?

La cosa straordinaria di tutta questa storia è che le Colonie libere italiane in Svizzera sono un unicum nella storia dell’emigrazione italiana. Mentre le Acli, il patronato Inca, la Cisl o la Uil erano più o meno emanazioni dirette dell’Italia, le Colonie libere sono una storia tutta svizzera e tutta d’emigrazione.

Dopo l’apice all’inizio degli anni ’70, si assiste a una regressione dell’interesse per queste associazioni?

Il livello di integrazione aumenta, quello che doveva essere un soggiorno temporaneo spesso diventa definitivo, poi arrivano la seconda e la terza generazione. Tutto ciò fa sì che le rivendicazioni della prima generazione vengono meno e l’interesse degli italiani per le Colonie libere diminuisce.

Il contesto sociale e geopolitico inoltre cambia. Vi è la crisi del fordismo e dopo il 1975 molti italiani rientrano in patria. Il sistema industriale svizzero viene ristrutturato, mentre in Italia inizia la stagione delle ‘Milano da bere’. Gli anni ’80 sono il decennio della consacrazione dell’Italian Style nel mondo.

Una data emblema è la vittoria ai Mondiali di calcio del 1982. Quest’anno rappresenta forse uno spartiacque nella percezione dell’italiano, che non è più colui che vent’anni prima moriva a Mattmark, bensì una persona che vive con la propria famiglia, che è integrata e i cui figli non sono più semplici muratori o operai ma rivestono anche cariche dirigenziali in questo paese.

Le Colonie libere vivono come tante forme aggregative otto o novecentesche, ovvero tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’

E ai giorni nostri qual è lo stato di ‘salute’ delle Colonie libere?

Oggi vi sono una quarantina di sedi e dalle cifre in mio possesso contano più o meno 4’000 iscritti. Rappresentano una bella e lunga storia, ma vivono come tante forme aggregative otto o novecentesche, ovvero tra il ‘non più’ e il ‘non ancora’. Non sono più quello che erano e non servono più per quello che erano nate, ma non riescono ancora a proiettarsi definitivamente nel XXI secolo.

Tuttavia penso che ci sia ancora bisogno delle Colonie. I dati dell’ultimo quinquennio registrano non solo l’arrivo di molti ‘cervelli’, ma anche di tantissime migliaia di braccia. Oggi si stanno riproponendo un po’ le stesse domande ed esigenze, in vesti diverse naturalmente, che avevano gli emigranti negli anni ’60. Le Colonie devono però essere in grado di svecchiarsi, di utilizzare un linguaggio nuovo e di intercettare la nuova mobilità. Se saranno in grado di farlo, riusciranno a proiettarsi nel prossimo decennio, altrimenti dovranno vivere di ricordi di decenni epici.

 

 

FONTE: http://www.tvsvizzera.it/tvs/colonie-libere-italiane

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