11754 NOTIZIE dall’ITALIA

20150712 21:08:00 guglielmoz

1 – In che Stato, sono vent’anni che leggiamo intercettazioni di politici, e mai una volta che li abbiamo sentiti preoccupati per le sorti dell’italia, o allarmati per la disoccupazione, la corruzione, la crisi economica, il degrado dei servizi pubblici, o concentrati sui provvedimenti da adottare per migliorare la vita dei cittadini che profumatamente li stipendiano
2 – Rottama pure, ma è la solita “sminestra”
3 – Letta: siamo finiti nello squallore sul modello di «House of Cards»
4 – «Letta incapace». Un caso la telefonata di Renzi
5 – Il Consiglio dei sminestri.
6 – Dalla Provincia a Palazzo Chigi tutti i guai e i pasticci di Renzi Le indagini della Corte dei conti sui bilanci, la casa pagata da Carrai e la bancarotta del padre
7 – indagini e ricatti Presidente, adesso risponda
8 – Perché il segretario del Pd si fa dare dello “stronzo” da un generale che tuba al telefono con Gianni Letta? Povera Patria: il nostro stratega col cono in mano.
9 – Loggia P2, soldi e dossier: la Finanza che sbaglia – Non solo Michele Adinolfi che fa comunella col “Giglio Magico” da Speciale a Milanese passando per Pollari.
10 – Renzi e il generale, l’arte del potere occulto – Intercettazioni . In combutta col nemico: l’ascesa del giovin Matteo.
11 – Commenti La verità su Renzi – Sinistra. Per il premier «sinistra» è solo uno schermo utile a competere con la destra razzista

1 – IN CHE STATO – SONO VENT’ANNI CHE LEGGIAMO INTERCETTAZIONI DI POLITICI, E MAI UNA VOLTA CHE LI ABBIAMO SENTITI PREOCCUPATI PER LE SORTI DELL’ITALIA, O ALLARMATI PER LA DISOCCUPAZIONE, LA CORRUZIONE, LA CRISI ECONOMICA, IL DEGRADO DEI SERVIZI PUBBLICI, O CONCENTRATI SUI PROVVEDIMENTI DA ADOTTARE PER MIGLIORARE LA VITA DEI CITTADINI CHE PROFUMATAMENTE LI STIPENDIANO. Non parliamo poi degli alti vertici della Guardia di Finanza, che negli ultimi 40 anni, dagli scandali dei petroli in poi, hanno collezionato – fatte le debite eccezioni – vagonate di arresti, condanne, rinvii a giudizio e avvisi di garanzia per essersi occupati di tutto, fuorché del loro dovere istituzionale: combattere l’evasione fiscale. Che, guarda un po’, se la batte con quella greca per il record europeo e forse mondiale. Appena un politico o un alto papavero incappano nelle intercettazioni della magistratura – che di solito arriva a loro per caso, indagando su fior di malfattori, che presto o tardi finiscono per parlare con chi più di tutti dovrebbe scansarli – si scopre che passano il tempo fra nomine, promozioni, intrighi, intrallazzi, ricatti, maldicenze, affari e malaffari.
È anche il caso delle intercettazioni depositate dai pm di Napoli al termine delle indagini sulle coop rosse, gli appalti truccati e la camorra in Campania. Indagini che hanno coinvolto anche il generale Michele Adinolfi, allora comandante interregionale per l’Italia Centro-Settentrionale e ora comandante in seconda delle Fiamme Gialle, per una presunta fuga di notizie, poi archiviata. Intercettazioni che il Fatto, per le firme di Vincenzo Iurillo e di Marco Lillo, sta raccontando per la loro eccezionale rilevanza pubblica.
Il 10 gennaio 2014, nel suo 39° compleanno, Matteo Renzi è da un mese il nuovo segretario del Pd, avendo sbaragliato Gianni Cuperlo alle primarie di dicembre, e si prepara alla scalata finale: l’assalto al governo di Enrico Letta. Ma è ancora incerto sui tempi: meglio per intanto “mettere qualcuno dei nostri… a sminestrare un po’ di roba” nel governo Letta per “governarlo da fuori” con un “rimpastone”? Oppure “buttare all’aria tutto” che “sarebbe meglio per il Paese perché lui (Letta jr., ndr) è proprio incapace” e prendersi subito Palazzo Chigi? Renzi è per la seconda opzione e ha già sondato Berlusconi otto giorni prima dell’incontro al Nazareno per il famoso Patto, trovandolo “più sensibile a fare un ragionamento diverso”.
Cioè a un governo Renzi sostenuto occultamente da FI con la scusa delle riforme, al posto del governo Letta, da lui scaricato a novembre nei giorni della sua decadenza da senatore. Napolitano (“il numero uno”) però “non molla” Letta. Matteo confida – sempre al comandante tosco-emiliano della Gdf – di aver proposto a Enrico il Quirinale: essendo “un incapace”, “sarebbe perfetto” come presidente della Repubblica. Ma bisogna attendere che compia 50 anni nel 2016, e Re Giorgio “non ci arriva… me l’ha già detto… nel 2015 vuole andare via”.
La telefonata si chiude con un affettuoso “che stronzo!” rivolto da Adinolfi a Renzi, a riprova di una familiarità cameratesca e piuttosto inquietante: il generale è pappa e ciccia con Gianni Letta e B., ma anche con il presunto rottamatore Renzi e con i suoi fedelissimi Luca Lotti e Dario Nardella. I quali si dannano tutti e tre l’anima per bloccare la proroga biennale (poi decisa dal morente governo Letta) del generale Saverio Capolupo a comandante generale della Finanza e piazzare al suo posto Adinolfi. Un bel conflitto d’interessi: Renzi e Nardella, sindaco e vicesindaco di Firenze, sono due potenziali controllati delle Fiamme Gialle toscane comandate da Adinolfi.
È in questo contesto che, il 5 febbraio, una settimana prima del ribaltone Letta-Renzi, Nardella cena con Adinolfi e Mario Fortunato, ex capogabinetto di Tremonti, alla Taverna Flavia di Roma. Lì il generale descrive lo strapotere del figlio di Napolitano (“Giulio oggi a Roma è tutto”). Nardella conferma (“è fortissimo”, per la sua influenza sul padre), accenna a sue “consulenze dalla Pubblica amministrazione” e rivela di aver parlato di suoi presunti altarini con la Santanchè (“prima o poi verrà fuori, se lo sa la Santanchè, vabbè ragazzi”). È lì che l’alto ufficiale dice di Giulio che “bisogna passare da lui per arrivare” al Colle e che il presidente “ce l’hanno per le palle Gianni De Gennaro e Letta, pur sapendo qualcosa di Giulio”.
Poi c’è una telefonata del presidente della Confindustria Sicilia (oggi indagato per mafia) Antonello Montante, che spiega la proroga di Capolupo col fatto che “ha in mano tutto del figlio di Napolitano, tutto: me l’ha detto Michele”, cioè Adinolfi.
E infine c’è Fortunato, che insulta l’allora capo dello Stato (“pezzo di m….”) e accenna a sue presunte pressioni per “far passare provvedimenti per l’università che stavano a cuore al figlio”, cioè a Giulio, docente a Roma Tre dov’era preside lo zio Guido Fabiani, marito della sorella di Clio Napolitano, dunque cognato del presidente.
Resta da capire come possano ora Capolupo e Adinolfi convivere sulle due poltrone più alte della Guardia di Finanza, visto che il secondo accusava il primo di aver ottenuto la carica con un’estorsione, anzi una concussione ai danni degli allora presidenti della Repubblica e del Consiglio.
Insomma, un bel quadretto di ricatti su notizie in parte note, in parte top secret e in parte incomprensibili se non a chi ne parla o vi allude, che dovrebbe inquietare tutti i personaggi citati a loro insaputa. Infatti, letto il Fatto, Letta jr. commenta il contenuto delle intercettazioni. E Giulio Napolitano si riserva di querelare i “commensali” della “conversazione da taverna”. Viceversa l’ex presidente Giorgio Napolitano, anziché ringraziare il Fatto per aver svelato quegli intrighi alle sue spalle e avergli svelato il pensiero del premier sul suo conto, ci attacca per aver fatto il nostro dovere: dare notizie. Invece di prendersela con chi si esprimeva in quei termini su di lui e su suo figlio, giunge ad attribuirci “menzogne e intimidazioni”, ad accusarci di “imbastire una grossolana, ignobile montatura” su “intercettazioni giudiziarie acquisite e pubblicate in modi di assai dubbia legittimità” e a minacciare di azioni legali non chi diceva quelle cose, ma noi che ne abbiamo informato i nostri lettori (lui compreso). Ora, siccome l’ex presidente non è in grado di distinguere il dito dalla luna, il termometro dalla febbre, la radiografia dalla malattia, proviamo a schiarirgli le idee prima che lo facciano i suoi legali.
1) Le eventuali “menzogne e intimidazioni” appartengono a chi quelle cose ha detto, non a chi le ha riportate, quindi si rivolga non a noi, ma all’entourage del premier da lui nominato.
2) Non c’è nulla di illecito nell’acquisizione e pubblicazione di quelle intercettazioni, depositate agli avvocati di un’inchiesta conclusa, e dunque non più segrete.
3) L’“ingiuriosa” ipotesi che lui potesse “essere oggetto di ricatti” non l’abbiamo formulata noi, ma i personaggi sopra citati, tutti a lui piuttosto noti.
4) Quella che lui definisce “grossolana e ignobile montatura” si chiama informazione ed è tutelata dall’articolo 21 della Costituzione.
5) Se poi Napolitano ama farsi insultare da rappresentanti delle istituzioni, oppure non vuol sentire né sapere, non è affar nostro. Anzi, un pochino lo è. (IlFattoQuotidiano.it di Marco Travaglio | 11 luglio 2015)

2 – ROTTAMA PURE, MA È LA SOLITA “SMINESTRA” – FORZA MATTEO, DI’ QUALCOSA DI SINISTRA. O ALMENO, QUALCOSA DI SMINESTRA.
Sul secondo punto l’incontentabile Pd è stato accontentato, stando alle intercettazioni pubblicate ieri dal Fatto. Dove, parlando con il generale della guardia di finanza Michele Adinolfi del piano per prendere il posto dell’allora premier Enrico Letta, Renzi dice testualmente “mi sa che dobbiamo fare quelli che la prendono nel culo personalmente… poi vediamo, magari mettiamo qualcuno di questi ragazzi dentro nella squadra a sminestrare un po’ di roba…”.
Parole scolpite nella pietra, su cui è doveroso riflettere. A proposito del prenderla in quel posto, è probabile che sia stato uno dei temi segreti trattati nel patto del Nazareno, considerata la notevole esperienza dell’altro interlocutore. E poi c’è quello sminestrare, variante toscaneggiante del ruggente impiattare coniato dal partito dei master chef, da riferirsi però non al contenitore, ma al contenuto. In teoria è possibile sminestrare e impiattare nello stesso tempo (dopodiché il Tommaseo si pugnala al cuore, ma questo è un altro discorso).
Certo che a parole il nostro premier ci sa fare. Dopo aver sorpreso il mondo con il suo english fluently, è passato come se niente fosse al vernacolo, dall’Hi Tony, how are you? alla ribollita con il cavolo cappuccio e alla pappa col pomodoro. Un triplo salto carpiato senza smettere di stupire. In questo caso poi, nessuno potrà accusarlo di essersi limitato a dei vuoti annunci.
Da quando è arrivato a Palazzo Chigi, per sminestrare ha sminestrato. Eccome, se ha sminestrato. Prendiamo le nomine di una Maria Elena Boschi, o di una Marianna Madia: tutto si potrà dire, ma non che siano le solite ministre riscaldate. Un po’ si sdogana e un po’ si inventa; nella politica al tempo dei talk-show è uno dei tanti modi per sminestrare tormentoni e rendersi riconoscibili al pubblico, come il doppiopetto, la bandana, la canottiera o la felpa.
Se incappi nel tormentone sbagliato rischi di essere ferito a morte, come accadde, a sua insaputa, a Claudio Scajola; ma se azzecchi la parola giusta ci puoi campare per un pezzo, vedi il buon rottamatore contro i perfidi rosiconi, ancora copyright Matteo Renzi, ma anche il celodurismo di Umberto Bossi l’inciucio di Massimo D’Alema o lo psiconano di Beppe Grillo. Nella nostra politica non sono mancati nemmeno gli inventori puri; lingue rubate alla glottologia come l’ex ministro Elsa Fornero, che sfornò una inedita categoria sociale con annesso neologismo: gli esodati. La parola indistinguibile dalla cosa, per la gioia di Michel Foucault. Alla mai abbastanza rimpianta Fornero (dall’Accademia della Crusca) le invenzioni verbali venivano spontanee anche nelle situazioni più difficili, come le trattative con i sindacati: “Se uno comincia con il dire no, perché dovremmo mettere lì una paccata di miliardi e poi dire: voi diteci di sì?”.
Una paccata: impara, Varoufakis. L’ex viceministro Michel Martone ai suoi tempi non fu da meno ed è passato alla storia del linguaggio per un motivo quasi autobiografico, quando a proposito dei tanti giovani sottopagati, magari nonostante la laurea, dichiarò che chi guadagnava 500 euro al mese era uno “sfigato”, e volle spiegare anche le diverse ragioni di questa sfiga sociale. Giovani sfigati, e pure choosy rincarò la dose la Fornero, tra gli urrà della Crusca. E sempre su questo tema si era già espresso nel 2007 l’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa, bollando i ragazzi riottosi a uscire dalla casa dei genitori come bamboccioni. Piuttosto deludente, invece, Silvio Berlusconi. In vent’anni sulla breccia molte gaffe, ma nessuna vera invenzione linguistica a parte un’unica eccezione con l’aiuto decisivo di Angela Merkel: lo sdoganamento del termine culona. La lingua batte dove il dente duole. (IlFattoQuotidiano.it di Redazione | 11 luglio 2015)

3 – LETTA: SIAMO FINITI NELLO SQUALLORE SUL MODELLO DI «HOUSE OF CARDS» – LA PRIMA REAZIONE È STATA SU TWITTER: FRASI E COMPORTAMENTI SI COMMENTANO DA SOLI
DI MONICA GUERZONI
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LA CERIMONIA DEL CAMPANELLO: IL PASSAGGIO DELLE CONSEGNE A PALAZZO CHIGI TRA LETTA E RENZI IL 22 FEBBRAIO 2014
ROMA – Fedele al suo personale credo nel «valore sacro della parola», un Enrico Letta letteralmente «sconcertato» sceglie ancora una volta di evitare la reazione a caldo. Tornato a Roma proprio venerdì mattina dall’Australia, dopo un ciclo di conferenze sulla crisi dell’euro all’università di Sidney, l’ex presidente del Consiglio non si aspettava di essere accolto come «un incapace» da «governare da fuori», o da spedire al Quirinale per liberare la poltrona di Palazzo Chigi. Quando accende il cellulare dopo venti ore di traversata lo trova intasato di sms e chiamate, eppure rifiuta interviste e medita di non rispondere affatto. Poi però, col passar delle ore, Letta decide di consegnare a Twitter una briciola del suo stato d’animo: «Cosa penso delle frasi e dei comportamenti di #Renzi rivelati dal @fattoquotidiano oggi? Si commentano da soli».
Un no comment che non è un no comment, ma una critica pesante delle parole e del pensiero del suo successore. Lo conferma la parola «comportamenti», aggiunta per marcare la differenza etica e antropologica da Matteo Renzi. Una presa di distanza a tutto campo, scolpita via web per stigmatizzare non solo il giudizio di «incapace» a lui diretto e i retroscena della staffetta a Palazzo Chigi, ma anche il trattamento riservato a Giorgio Napolitano. «Sono rimasto sconcertato da tanto squallore» confida Letta ai suoi, mentre la notizia si impone tra le più commentate di Twitter. Per uno che è riuscito a tacere un anno intero dopo essere stato defenestrato da Palazzo Chigi, sconcerto e squallore sono due concetti a dir poco forti. «Ho pensato che siamo davvero finiti nello squallore alla House of Cards» è il giudizio di Letta sulla conversazione tra Renzi e il generale Michele Adinolfi, l’11 gennaio 2014.
È passato quasi un anno e mezzo, ma la sola idea che il leader del Pd gli abbia offerto il Quirinale nel 2017 in cambio di Palazzo Chigi, al compimento dei cinquant’anni di età, ancora lo indigna. La sua risposta è stampata nella celebre foto di Letta che consegna la campanella a Renzi in dieci secondi dieci, lo sguardo rivolto altrove che rivela fastidio, rabbia, quasi repulsione. Nel libro «Andare insieme, andare lontano» Letta si sofferma sul «coraggio di dire no alle scorciatoie e a una visione trita e ritrita della politica vissuta come “sangue e merda” (o scimmiottando House of Cards)», la celebre serie tv americana che racconta gli intrighi del potere. Ecco perché venerdì si è convinto ancor più di aver fatto la cosa giusta, in tre mosse. Dimettersi dal Parlamento, «ma non dalla politica». Accettare la guida dell’università di Parigi Sciences Po. E fondare tra Roma e Bruxelles una Scuola di politiche. «Una scuola piccola e artigianale» per ventenni di belle speranze, dove formare una classe dirigente nuova e virtuosa, immune dai mali di un «conformismo» che per lui fa rima con renzismo. La personalizzazione, l’uomo solo al comando, l’opportunismo, la corsa a salire sul carro del vincitore, il cinismo di chi «applaude quando tutto gira per il verso giusto, ma è pronto a voltarti brutalmente le spalle quando le cose precipitano»…
Il bando è scaduto il 30 giugno e l’ex premier si aspettava di ricevere un centinaio di domande. Sono invece arrivate 672 candidature da tutta Italia con tanto di video di presentazione, un’onda «impressionante e beneaugurante» che lo ha convinto ad aumentare il numero delle classi per ottobre. Su quei banchi sogna di crescere una nuova leva di politici, che non somiglino né a Renzi, né a Berlusconi. Al primo, Letta imputa, tra l’altro, l’aver resuscitato il secondo: «L’ha fatto coprotagonista di un asse politico – scrive nel libro – che, al di là di tanti tira e molla artificiosi, ha dimostrato di tenere in molti passaggi dirimenti». Quanto a Vincenzo Fortunato – l’ex capo di gabinetto del ministro Giulio Tremonti, che era tra i quattro commensali intercettati dai carabinieri del Noe alla Taverna Flavia il 5 febbraio del 2014 – i collaboratori di Letta ricordano che la sua sostituzione al Tesoro fu uno dei primi atti del suo governo.

4 – HOUSE AD «LETTA INCAPACE». UN CASO LA TELEFONATA DI RENZI
«LUI NON È CAPACE, NON È CATTIVO, NON È PROPRIO CAPACE. E QUINDI… PERÒ L’ALTERNATIVA È GOVERNARLO DA FUORI… LUI SAREBBE PERFETTO COME PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, GLIEL’HO ANCHE DETTO IERI. L’UNICO PROBLEMA È CHE BISOGNA ASPETTARE AGOSTO 2016. QUELL’ALTRO NON CI ARRIVA CAPITO? ME L’HA GIÀ DETTO. QUELL’ALTRO, IL NUMERO UNO, NEL 2015 VUOLE ANDARE VIA…».
È l’11 gennaio 2014. A parlare al telefono con il generale Michele Adinolfi, allora comandante interregionale dell’Italia centro-settentrionale a Firenze ed oggi numero due della Guardia di Finanza, è Matteo Renzi. Da circa un mese (le primarie sono dell’8 dicembre precedente) segretario del Partito democratico e non ancora presidente del Consiglio. Il “lui” di cui si parla nella telefonata è Enrico Letta, che resterà a Palazzo Chigi per neanche un mese. La conversazione è stata pubblicata ieri dal Fatto quotidiano, giornale non certo amico dell’attuale premier. Renzi risulta intercettato parlando da un’utenza nella sua disponibilità intestata alla fondazione «big Bang» nell’ambito dell’inchiesta della Procura napoletana su Cpl Concordia. Adinolfi è allora indagato per una presunta fuga di notizie, e il caso sarà poi archiviato su richiesta dello stesso pm Henry John Woodcock. Negli atti dell’inchiesta napoletana a disposizione del quotidiano diretto da Marco Travaglio ci sono anche intercettazioni che chiamano in causa Giulio Napolitano, figlio del presidente Giorgio.
Sono i giorni in cui Letta e Renzi si incontrano per definire la fase due del governo presieduto da Letta, e più si incontrano più il gelo aumenta. Renzi di lì a poco sceglierà, con l’appoggio di quasi tutto il Pd compresa la minoranza che si raccoglie attorno a Gianni Cuperlo, di andare direttamente a Palazzo Chigi al posto di Letta. Ma l’11 gennaio la scelta non è ancora compiuta in modo definitivo, gli stessi renziani doc si dividono (con Guerini e Delrio più favorevoli all’ipotesi “staffetta” e con Nardella più scettico), e sul tavolo c’è anche l’alternativa di un «rimpastone», ossia dell’ingresso di renziani di peso nel governo Letta con un programma di riforme più incisivo. Proprio di «rimpastone» parla Renzi nella telefonata con Adinolfi. «Rimpastone, no rimpastino… Poi vediamo, magari mettiamo qualcuno di questi ragazzi dentro nella squadra, a sminestrare un po’ di roba. Purtroppo si fa così», dice Renzi. E in un altro passaggio: «Buttare all’aria tutto secondo me alla lunga sarebbe meglio per il Paese perché lui è proprio incapace».
Nei giorni successivi Renzi proverà a proporre al suo rivale l’onore della armi per una “staffetta” condivisa. Oltre all’ipotesi della presidenza della Repubblica – ipotesi subito sfumata per l’ancora giovane età di Letta e per l’indisponibilità dell’allora Capo dello Stato Napolitano di restare fino all’estate del 2016 – Renzi secondo le ricostruzioni dell’epoca propone a Letta anche la strada europea: la presidenza della Commissione Ue nel caso in cui avessero vinto i socialisti alle elezioni del maggio 2014 (cosa poi non avvenuta) o in alternativa il posto di Mr Pesc ora occupato da Federica Mogherini. Ma i rapporti tra i due sono destinati a degenerare.
«Cosa penso delle frasi e dei comportamenti di Renzi rivelati oggi dal Fatto quotidiano? Si commentano da soli». si limita a dire Letta, in procinto di lasciare il Parlamento (il 16 luglio l’Aula della Camera voterà sulle sue dimissioni) per dedicarsi all’attività accademica. Mentre il Movimento 5 Stelle chiede che il governo riferisca in Parlamento: «È una repubblica fondata sul ricatto, una situazione inaccettabile non degna di un Paese civile». Da Palazzo Chigi nessun commento ufficiale sulla vicenda. Ma c’è chi legge come ulteriore stoccata al suo predecessore quanto scritto da Renzi su Facebook a commento dei dati economici positivi resi pubblici ieri dall’Istat (si veda pagina 15): «La strada è tracciata da un pacchetto di riforme così significativo da non avere precedenti. Rimane l’amarezza: s (HouseAdcid:image005.png@01D0BC55.400473A0 – ROMA 11 luglio 2015 e queste riforme le avessero fatte quelli prima di noi, la nostra economia oggi sarebbe più forte».)

5 – IL CONSIGLIO DEI SMINESTRI. OGNI TANTO QUALCHE LETTORE CI DOMANDA PERCHÉ GUARDIAMO CON TANTA CURIOSITÀ QUELLO CHE SCRIVONO, MA SOPRATTUTTO NON SCRIVONO GLI ALTRI GIORNALI. LA RISPOSTA È IN QUELLO CHE STA ACCADENDO, MA SOPRATTUTTO NON STA ACCADENDO, SULL’AFFAIRE RENZI-ADINOLFI-NAPOLITANO’S.
In un altro paese tutta la stampa stazionerebbe sotto Palazzo Chigi e non leverebbe l’assedio finché non avesse ottenuto le dovute spiegazioni dal premier sui suoi rapporti con B. e con i vertici della Guardia di Finanza, nonché sulle parole dei suoi fedelissimi sull’asserita ricattabilità dell’ex presidente Napolitano per i presunti altarini del figlio Giulio. Così Renzi, oltre a “sminestrare”, sarebbe costretto a chiarire le questioni cruciali ben riassunte qui accanto da Padellaro e Lillo. Invece siamo in Italia e anche questo affare di Stato, dopo qualche lancio di agenzia, articolo di giornale e servizio, verrà archiviato come l’ennesima fisima del solito Fatto Quotidiano. E morta lì. Il copione è lo stesso seguito per vent’anni dagli house organ berlusconiani a ogni scandalo del Caimano: il problema non è ciò che dicono gli intercettati, ma che siano stati intercettati; che i nastri siano finiti su un giornale; e che si parli di fatti privi di rilevanza penale.
Solo che nell’Era B. a fare da controcanto c’erano i giornali e il tg di sinistra, che rivendicavano il diritto-dovere della stampa di pubblicare atti depositati anche di fascicoli archiviati e ricordavano che non tutto ciò che penalmente irrilevante è politicamente e moralmente lecito, con ampie citazioni illustri da Berlinguer a Borsellino. Ora invece a sinistra tutto tace, anzi acconsente. E il controcanto lo fa la stampa di destra, che è quella che è. Basti pensare che, per il Giornale, lo scandalo delle intercettazioni è che sono state pubblicate e che Napolitano ce l’aveva a morte con B., mentre sul Foglio il povero Bordin si scandalizza perché noi criticammo il capitano Ultimo per non aver perquisito il covo di Riina e ora riferiamo conversazioni captate da cimici piazzate da lui: il bambino indica la luna e, come sempre, il fesso guarda il dito. A sinistra, in compenso, c’è la presunta Unità, che al tema politico del giorno non dedica neppur una didascalia, avendo ben altre notizie, in esclusiva mondiale: “Via i camion-bar dai Fori imperiali”, a imperitura gloria del sindaco Marino, e soprattutto “Cresce l’industria, la ripresa c’è”, “185 mila nuovi contratti. Renzi: dato positivo”. Sono i 271 posti fissi di lavoro creati a maggio, roba forte.
Apag. 7 Matteo in persona risponde ai lettori. Qualcuno gli avrà chiesto di Adinolfi e Napolitano? Purtroppo no. Ti piace lo gnocco fritto? “Magari, non sono nemmeno ingrassato”. Sei pentito dell’appoggio a Marchionne? “Io no. Tu?” (la lettrice Rita che ha fatto la domanda si sta chiedendo quando mai le sia capitato di appoggiare Marchionne). Repubblica invece all’affaire dedica due pagine. Nessun cenno nei titoli ai Napolitanos: non esageriamo. La notizia è l’unica cosa nota pure ai bambini: Renzi giudicava Letta un incapace. E vabbè. Ma il meglio arriva nel “retroscena”, lo spazio un tempo riservato a notizie e voci rubate ai politici. Ora invece, quando Renzi non vuol parlare ufficialmente, chiama il retroscenista: un ventriloquo che impapocchia le sue frasi con formule tipo “confida Renzi ai suoi collaboratori…”. Dunque leggiamo: “A Palazzo Chigi dicono che ‘si sa che può andare così’”. Cosa? Boh. “Certe sorprese dalle inchieste ‘vanno messe nel conto’”. Quali sorprese, visto che a parlare erano Renzi e i suoi? Mistero. “Sono intercettazioni senza profilo penale di un’indagine in parte archiviata”: B. non avrebbe saputo dire meglio, prima o poi chiede le royalty.
“Renzi non pensa a manovre a orologeria”. Ah ecco. “Business as usual, ripete”. Ma anche cave canem, cherchez la femme, Parigi è sempre Parigi. “Il fastidio però filtra. E c’è il timore che possano moltiplicarsi episodi di questo tipo”: dipende da cos’ha fatto e detto. “Renzi ha usato il suo schema classico: rilanciare, non arretrare di un passo”. Pancia in dentro, petto in fuori. Marciare non marcire. È l’aratro che traccia il solco, ma è Twitter che lo difende. “Basta leggere tra le righe del post su Facebook”. Ecco, tra le righe. “Rimane l’amarezza”. Mo’ me lo segno. “Se non corriamo, è colpa loro”: di B., Monti e Letta. Sua, mai. “Legge e rilegge le intercettazioni” e “non ci trova niente di scandaloso”: niente, lui. “Alcuni vicini a lui sussurrano che ‘certe conversazioni non dovrebbero mai uscire’”. Si sa come sono i vicini: sussurrano. “Renzi però non si descrive indignato e non vuole fasciarsi la testa”. No che non se la fascia. “Non c’è niente da chiarire, è la sua linea”. E chi è mai il cronista per contestare la linea?
Anche sul patto di governo con B. otto giorni prima del Nazareno, “nulla da nascondere”: “FI aveva già accettato il tavolo sulle riforme. Dov’è lo stupore, si chiedono nello staff”. Veramente si sapeva che B. aderiva alle riforme, non al governo Renzi. Ma fa niente: “Questa è la versione ufficiosa dei renziani. Non servono note o comunicati stampa, questa è la decisione”. E chi siamo noi per fargli violenza? Ci sarebbe poi quel “tu” da pappa e ciccia col generale Adinolfi, che gli manda cravatte e gli dà dello stronzo. Ma “i sindaci ogni giorno devono chiedere ai finanzieri di intervenire sulla città per mille motivi”. E certo, c’è un marciapiede rotto o un dehors abusivo e il sindaco chi chiama? Il comandante interregionale della Finanza. Tutto regolare. “Si ostenta grande tranquillità”. Dai, Matteo, non è niente. È tutto finito. Vai a letto tranquillo. Vuoi che ti canti la ninnananna? (IlFattoQuotidiano.it / Archivio Cartaceo – Marco Travaglio | 12 luglio 2015)

6 – Dalla Provincia a Palazzo Chigi tutti i guai e i pasticci di Renzi Le indagini della Corte dei conti sui bilanci, la casa pagata da Carrai e la bancarotta del padre
MARA CARFAGNA, MARIASTELLA GELMINI, STEFANIA PRESTIGIACOMO E GIORGIA MELONI IL 12 MAGGIO 2008, DOPO AVER GIURATO DA MINISTRE DEL GOVERNO BERLUSCONI, RICEVETTERO UN MAZZO DI FIORI DA UN MITTENTE ALL’EPOCA TOTALMENTE SCONOSCIUTO: MATTEO RENZI. IL GIOVANE PRESIDENTE DELLA PROVINCIA, PER COMPLIMENTARSI CON LA PATTUGLIA ROSA, FECE RECAPITARE ALLE NEOMINISTRE UN OMAGGIO FLOREALE
A spese della Provincia, ovviamente. Nei cinque anni di gestione del boy scout l’ente spese circa 20 milioni di euro tra rappresentanza, missioni all’estero, manifestazioni, pranzi, cene e comunicazione per diffondere il verbo renziano. Un precursore delle spese pazze, in pratica.
La Procura di Firenze, già guidata da Giuseppe Quattrocchi, non ritenne necessario intervenire. La Corte dei Conti, invece, aprì un fascicolo ma solamente nel 2012 su indicazione del ministero dell’Economia che rivelò “gravi anomalie” nella gestione renziana della Provincia. Questa è la prima indagine che ha toccato il giovane di Rignano. Da allora, nella rapidissima e spregiudicata ascesa politica, che in appena sei anni lo ha accomodato con una manovra di Palazzo alla guida del governo, i fascicoli che hanno coinvolto lui e il suo ormai romanizzato Giglio magico sono numerosi. Le indagini sono sempre in corso.
Uno tra i più noti è quello aperto nel marzo 2014 sulla vicenda dell’attico in via degli Alfani 8 a Firenze, in cui Renzi era residente, ma a pagare il canone per quasi tre anni era il fedele Marco Carrai che non solo aveva ricevuto incarichi diretti in Provincia e poi in Comune ma era stato nominato a capo di Firenze Parcheggi, controllata di Palazzo Vecchio, ed è tuttora presidente di Aeroporto di Firenze nonché nel cda di Open, la fondazione che finanzia l’attività politica di Renzi.
La domanda nasceva spontanea, anche tra gli inquirenti: è legittimo che un anonimo imprenditore paghi l’affitto a un sindaco e nei tre anni successivi riceva incarichi in società controllate dal Comune, appalti dall’amministrazione e gestisca le casse di associazioni e fondazioni create ad hoc per finanziare le campagne elettorali che nel tempo portano quel primo cittadino a diventare premier? La risposta ancora non è stata individuata.
Altro fascicolo aperto senza indagati né ipotesi di reato riguarda i soldi raccolti dalle fondazioni. Tanti soldi. Un tesoretto che sfiora cinque milioni di euro, accumulato dal 2007 a oggi attraverso due associazioni totalmente segrete fino al febbraio scorso (Noi Link e Festina Lente) e due fondazioni (Big Bang e Open). Sono le casseforti personali di Renzi, quelle che gli hanno permesso di sostenere una campagna elettorale permanente per cinque anni e che hanno coinvolto e coinvolgono tutti i fedelissimi del Capo, compresi Luca Lotti e Maria Elena Boschi.
Nel febbraio 2014 a seguito di alcuni articoli del Fatto e di un esposto di alcuni cittadini la Procura di Firenze avviò le indagini, per sapere da dove sono arrivati gli ingenti fondi che hanno permesso a un anonimo presidente di Provincia di diventare premier. Chi lo ha finanziato? Tra loro c’è qualcuno che è poi stato ripagato con una nomina o con appalti pubblici? Domande legittime. Per ora senza risposta. Ma la Procura fiorentina ha cose ben più urgenti di cui occuparsi. Una su tutte l’inchiesta sull’Alta velocità e grandi opere che lo scorso marzo ha portato in carcere Ettore Incalza e costretto alle dimissioni da ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi.
È toccato ai magistrati di Genova, per esempio, scoprire che Tiziano Renzi, il padre del premier, aveva ceduto la parte sana della società di famiglia, Chil Post, alla moglie, prima di venderla a due presunti prestanome e farla fallire. Questa l’ipotesi d’accusa. Tiziano Renzi è indagato per bancarotta fraudolenta. L’oggi presidente del Consiglio era stato assunto come dirigente (unico dipendente, fra l’altro) alla Chil poche settimane prima di essere nominato alla guida della Provincia di Firenze così da far versare i contributi previdenziali all’ente. Poi al Comune e infine a Palazzo Chigi. È stato costretto a dimettersi nel 2014 perché smascherato dal Fatto.
Al momento sulla vicenda la magistratura non è intervenuta. Va ricordato che per una vicenda simile, un’assunzione ritenuta fittizia da parte dell’azienda del marito, l’ex ministro Josefa Idem è stata indagata per truffa aggravata dalla Procura di Ravenna e si è dimessa dal governo Letta.
Oltreché per se stesso e per i parenti, Renzi deve preoccuparsi anche per quelli dei suoi fedelissimi. Dei tanti casi che hanno sfiorato il sindaco ereditario Dario Nardella, l’amico Carrai o il braccio destro Lotti, il capitolo più delicato è riferito a Maria Elena Boschi: il padre, da vicepresidente della Banca dell’Etruria e del Lazio, è stato prima multato da Bankitalia per “gravi irregolarità” e poi ha dovuto subire il commissariamento dell’istituto di credito, ridotto a non poter chiudere il bilancio tanto erano disastrati i conti. A indagare non è la Procura di Firenze ma quella di Arezzo per quanto riguarda la gestione della banca.
Poi ci sono i magistrati di Roma e la Consob che stanno cercando di fare chiarezza sul decreto legge varato in tutta fretta a dicembre da Renzi per trasformare le cooperative in spa. Mossa che ha dato vita a speculazioni e “operazioni poco chiare” per almeno 10 milioni di euro di plusvalenze. A guadagnarci di più fu proprio la Etruria di papà Boschi. Una coincidenza? Le domande, si sa, sono lecite. Le risposte latitano. Ma arriveranno dalle procure. E dalla Corte dei Conti che dopo aver passato al setaccio le note spese della Provincia, ha aperto un medesimo fascicolo anche sugli anni in cui Renzi è stato sindaco. Indagine avviata nel 2014, proprio quando o

7 – INDAGINI E RICATTI PRESIDENTE, ADESSO RISPONDA . EGREGIO PRESIDENTE RENZI, ALLA LUCE DELLE CONVERSAZIONI CON IL GENERALE ADINOLFI LE VOLEVAMO PORRE CINQUE DOMANDE.
1. Perché lei (secondo quello che scrive Luca Lotti a Michele Adinolfi) interviene nel 2014 da segretario del Pd per stoppare la conferma del comandante Capolupo, su richiesta di un sottoposto del comandante, e senza avere alcun titolo per immischiarsi in una nomina di competenza del ministro dell’economia e del governo?
2. Perché lei, appena nominato segretario del Pd, da un lato supporta Adinolfi – nonostante sia notoriamente vicino a Gianni Letta, Adriano Galliani e Berlusconi – e dall’altro proprio a lui comunica la sua intenzione di far cadere Enrico Letta con l’aiuto di Berlusconi?
3. Adinolfi, in qualità di comandante interregionale di Toscana ed Emilia Romagna, era il vertice di un corpo che avrebbe potuto svolgere controlli e indagini sul feudo del suo rivale di allora nel Pd, Pier Luigi Bersani (lambito dalla Finanza nell’indagine sulla sua segretaria), e sul suo feudo: Firenze. Il Fatto ha scritto molti articoli su vicende imbarazzanti per lei, come la storia dei contributi pensionistici figurativi ottenuti dal 2004 al 2013 da Provincia e Comune grazie all’assunzione nella sua azienda di famiglia alla vigilia della scelta di Pds e Margherita di candidarla alla Provincia. La Guardia di finanza è andata a prendere le carte su un caso simile che ha coinvolto Josefa Idem a Ravenna, in Romagna, e l’ex ministro è stata indagata per truffa. Eventuali accertamenti della Finanza in Toscana non hanno dato alcun esito su di lei. Adinolfi non ha compiti di polizia giudiziaria ma lei ha mai parlato con lui di queste storie? E non ritiene che la sua sponsorizzazione del comandante possa appannare le certezze dei cittadini su un’azione rigorosa ed equanime delle Fiamme gialle?
4. Adinolfi secondo il Noe, avrebbe criticato le modalità di nomina del suo comandante e potrebbe avere alluso a un ricatto ai danni del presidente Napolitano, facendo illazioni sulle ragioni della proroga di Capolupo. Non crede debba dimettersi da comandante in seconda?

8 – PERCHÉ IL SEGRETARIO DEL PD SI FA DARE DELLO “STRONZO” DA UN GENERALE CHE TUBA AL TELEFONO CON GIANNI LETTA? POVERA PATRIA: IL NOSTRO STRATEGA COL CONO IN MANO
SBAGLIA ENRICO LETTA QUANDO ACCOSTA ALLO “SQUALLORE DI HOUSE OF CARDS”, la Renzicricca delle intercettazioni pubblicate dal Fatto perché là c’è la cupa grandezza del potere assassino, qui l’eterno, italico Bagaglino delle parodie fiorentine col tovagliolo al collo che alla Taverna Flavia sminestrano su generaloni e Quirinale.
Non si sminuisce la gravità dell’intrigo se lo si misura con la visione più scadente della politica politicante. Ma cresce la delusione: tutto ci saremmo aspettati dal premier che voleva rottamare il mondo meno che nella stanza dei bottoni subito si mettesse a giocare con gli stessi soldatini di piombo in carriera maneggiati da Andreotti e Berlusconi (che almeno non si facevano dare dello stronzo al telefono).
Le lettere piccate e il tenente Colombo
Renzi è il cugino di campagna che non è ancora entrato a Palazzo Chigi, ma già incrocia i piedi sulla scrivania e decide sui destini delle istituzioni che in fondo disprezza visto che l’“incapace” Letta-nipote (forse proprio perché incapace) “sarebbe perfetto” come presidente della Repubblica, ma purtroppo, da vero disastro, non ha l’età. Del resto, che sul Colle non giganteggiassero dei padri della patria, si evince dalle piccatissime lettere di Napolitano senior e junior al Fatto. Traboccante di sdegno la prima davanti al “solo ipotizzare che il Presidente Napolitano abbia potuto essere oggetto di ricatti da parte di chicchessia”. Mentre nella seconda, l’argomentazione regina è che “i commensali non riescono a evidenziare un solo fatto, evento, provvedimento che in qualche modo mi avrebbe favorito”. Ovvero: le prove, dove sono le prove?, che fa tanto Tenente Colombo. Invece di lanciare moniti entrambi non dovrebbero seriamente interrogarsi sul perché la famiglia Napolitano fosse oggetto di tante e tali chiacchiere?
Il problema di Renzi non è l’essersi fatto prendere con le dita nella marmellata, ma la qualità della marmellata. La solita, scivolosa materia delle camarille per piazzare questo o quello sulle poltrone che contano: in questo caso l’amico Adinolfi al vertice della Gdf, bruciato sul traguardo, porca miseria, dal parigrado Capolupo, mentre il governo Letta esala l’ultimo respiro. Per placare l’incazzatissimo generale si ricorre all’infallibile rito romanesco del se famo du’ spaghi e nella simpatica bicchierata, insieme al futuro sindaco di Firenze, Dario Nardella, e al potente mandarino Vincenzo Fortunato, si accompagna, chissà perché, il presidente dei medici sportivi Maurizio Casasco. Anche qui niente di nuovo: è il metodo di una mano lava l’altra che suggella le vere amicizie: altro che massonerie, che andate a pensare?
Mastri tintori e omertà da weekend
Il resto del copione prevede la paziente opera di edulcorazione e smussamento a cura dei mastri tintori di Palazzo Chigi, a uso e consumo della stampa responsabile, china sui problemi del Paese. Poi, l’omertà da weekend che, tolti i sovversivi Cinquestelle, tende a trincerarsi dietro quello straordinario menare il torrone che dice (e non dice): sono parole che si commentano da sole. Caspita. Quindi, anatemi a schiovere sui complotti dei magistrati che fanno diffondere carte penalmente irrilevanti per alimentare la macchina del fango (vedi Giulio Napolitano). Infine, nuove pressanti richieste affinché la nuova legge sulle intercettazioni tagli le mani ai giornalisti che non si fanno i cavoli loro.
Tutto come prima sulla misera scena repubblicana. Cambia soltanto che al centro ora c’è uno con il gelato in mano, per dirla con l’ex amico Diego Della Valle. Altro che Frank Underwood. (di Antonio Padellaro | 12 luglio 2015 IlFattoQuotidiano.it)

9 – LOGGIA P2, SOLDI E DOSSIER: LA FINANZA CHE SBAGLIA – NON SOLO MICHELE ADINOLFI CHE FA COMUNELLA COL “GIGLIO MAGICO” DA SPECIALE A MILANESE PASSANDO PER POLLARI
NEC RECISA RECEDIT. NON ARRETRA NEPPURE TAGLIATA. IL MOTTO DELLA GUARDIA DI FINANZA, LETTO OGGI, RICHIAMA INEVITABILMENTE VISIONI CONTRAPPOSTE DI EROISMI E OSCURITÀ. I tanti che fanno il loro lavoro con passione, come quel colonnello Renzo Nisi che avviò le indagini sul Mose e, prima di essere trasferito, profetizzò: “La pietra ha cominciato a rotolare e presto diventerà una valanga”. E i molti che invece hanno tradito. Già Luigi Einaudi scrisse in un suo saggio che “il contrabbando, la grassazione e l’abuso di potere erano attività abituali dei militari che avrebbero dovuto estirparli”.
Dalle pontificie “brigate delle gabelle” a oggi, quante brutte storie hanno macchiato l’onore delle Fiamme gialle. Gli ultimi protagonisti del serial Fiamme Sporche sono a Venezia il generale Emilio Spaziante e il braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese. A Bari la squadretta che sosteneva il procuratore di Bari Antonio Laudati alle prese con Giampi Tarantini e le sue escort. A Napoli il colonnello Fabio Mendella, accusato da un imprenditore di pretendere il pizzo. A Roma il generale Michele Adinolfi che parla e sparla con il Giglio magico. E che dire dell’ex comandante generale Roberto Speciale, che si faceva portare le spigole in montagna da un aereo della Gdf?
Più indietro nel tempo, c’è il ruolo del generale Nicolò Pollari, diventato direttore del servizio segreto militare Sismi, nel sequestro Cia dell’imam Abu Omar e nel dossieraggio illegale della sua ombra (Shadow) Pio Pompa. C’è lo scontro, durissimo, tra il Gico della Guardia di finanza di Firenze e il pool Mani pulite della procura di Milano. C’è, soprattutto, l’indagine Fiamme Sporche che nel 1994 ha portato in carcere e sotto processo più di cento finanzieri, accusati di pretendere tangenti per ammorbidire le verifiche fiscali. Prima ancora, due scandali ne hanno pesantemente segnato la storia: la truffa dei petroli e il ritrovamento dell’elenco degli iscritti alla P2. Fu nell’autunno del 1980 che decollò un’inchiesta giudiziaria che svelò i contorni di una colossale truffa all’erario sui prodotti petroliferi: il 20 per cento dei prodotti raffinati ogni anno in Italia, per almeno sette anni, era stato sottratto ai controlli e al fisco.
Risultato: oltre 2 mila miliardi di lire (a valori dell’epoca) sottratti allo Stato. Più che truffa era un sistema, attraverso il quale i petrolieri evadevano il fisco e finanziavano sottobanco i partiti politici di governo. Il tutto con il beneplacito del Corpo che avrebbe dovuto vigilare e proteggere l’erario. Risultarono coinvolti infatti i massimi vertici della Guardia di finanza: il comandante generale Raffaele Giudice e il suo capo di Stato maggiore, Donato Lo Prete.
Nel 1981, a scandalo ancora caldo, la pubblicazione delle liste P2 mise in luce che alla loggia di Licio Gelli erano iscritti anche molti appartenenti alla Guardia di finanza: l’elenco per categorie allinea 37 nomi di ufficiali delle Fiamme gialle, tra cui non solo i due generali già coinvolti nella truffa dei petroli, Giudice (tessera numero 1634) e Lo Prete (1600), ma anche il nuovo comandante del Corpo succeduto a Giudice, il generale Orazio Giannini (2116), il colonnello Sergio Acciai, il comandante del nucleo speciale valutario di Roma, i capi dei nuclei di polizia tributaria di molte province, il comandante della Finanza di Arezzo, parecchi ufficiali. In quei mesi di atroce tormento istituzionale, la Guardia di finanza mostrò al Paese contemporaneamente le sue vergogne e il suo riscatto: furono i finanzieri, inviati il 17 marzo 1981 dai giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo alla ditta Giole di Castiglion Fibocchi, a sequestrare le carte di Gelli; furono i finanzieri a indagare, interrogare, arrestare decine e decine di commilitoni coinvolti nella truffa dei petroli. Quelle vecchie ombre dimenticate si ripresentarono in piena Mani pulite.
Era il 26 aprile 1994 quando il giovane brigadiere Pietro Di Giovanni si recò dal comandante della sua sezione, il tenente colonnello Gianluigi Miglioli, per riferirgli un fatto imbarazzante: nel corso delle indagini sulle tangenti ai partiti pagate dalla Edilnord di Paolo Berlusconi al fondo pensioni della Cariplo, un suo superiore, il maresciallo Francesco Nanocchio, gli aveva passato una busta contenente 2 milioni e mezzo di lire. Doveva essere la sua parte di un “premio” alla squadra per non vedere le irregolarità fiscali nella compravendita di un palazzo in via Senato a Milano.
Dalla reazione di un finanziere onesto parte l’inchiesta sulle Fiamme Sporche, condotta inizialmente dai pm Raffaele Tito e Antonio Di Pietro. Scattano le manette, si riempiono le prime celle del carcere militare di Peschiera del Garda. Le porte delle celle del vecchio forte si chiudono anche alle spalle del generale Giuseppe Cerciello, per cinque anni comandante del nucleo regionale della Lombardia. Seguono settimane drammatiche. Per i magistrati che, increduli, si sentono traditi da chi operava al loro fianco, da chi credevano dalla parte della legalità. Dalle indagini emerge, ancora una volta, un sistema.
Non è l’episodico scivolone di qualche finanziere che non riesce a resistere alle tentazioni, ubriacato dai fiumi di denaro che vede passare sopra la sua testa, è un vero e proprio sistema collaudato, operante da anni e ad alto rendimento: la sola procura di Milano recupera, a titolo di risarcimento, ben 8 miliardi e 600 milioni di lire.
Una storia esemplare è quella di Massimo Maria Berruti. Da ufficialetto delle Fiamme gialle era stato coinvolto in una storia di mazzette degli anni Ottanta, che gli archeologi di Tangentopoli classificano come “scandalo Icomec”: un’inchiesta condotta da Francesco Greco che ebbe tra i suoi imputati nientemeno che Gianfranco Troielli (che poi si scoprirà essere il grande cassiere di Bettino Craxi) e Antonio Natali (padre politico di Craxi, considerato l’inventore del sistema milanese delle tangenti). Come succedeva prima di Mani pulite, la sentenza d’appello mandò assolti quasi tutti gli imputati, e anche Berruti, che dimenticò presto la condanna a 5 anni di reclusione ottenuta in primo grado, uscì dalla Guardia di finanza e fece carriera. Greco e il pool lo ritrovano infatti, qualche anno dopo, come consulente del gruppo Fininvest, assoldato dopo una verifica a Berlusconi finita benissimo e in seguito coinvolto in più d’una vicenda di corruzione.
A metà degli anni 90 viene scoperta una squadretta di finanzieri (“legati da solidarietà massonica”, si legge negli atti) che facevano sotterranea azione di dossieraggio ai danni del pool di Milano, alla ricerca di materiali per infangare Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e altri magistrati milanesi. Con scarsi risultati. Non si nascondono invece i militi del Gico della Guardia di finanza di Firenze, che nel 1995 producono un dossier contro i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano (Armando Spataro, Alberto Nobili, Maurizio Romanelli…). Il materiale del Gico di Firenze viene poi riciclato nell’autunno 1996 dalla procura di La Spezia, che arresta, è vero, il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia e il manager delle Ferrovie Lorenzo Necci, ma finisce per avere come obiettivo principale le presunte irregolarità e i pretesi abusi commessi dal pool di Milano, Di Pietro in testa, accusato di aver coperto e salvato alcuni imputati di Mani pulite. Finisce in una bolla di sapone, ma il fango è girato a lungo nei tubi dell’informazione.
(di Gianni Barbacetto | 12 luglio 2015 – IlFattoQuotidiano.it)

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10 – RENZI E IL GENERALE, L’ARTE DEL POTERE OCCULTO – INTERCETTAZIONI . IN COMBUTTA COL NEMICO: L’ASCESA DEL GIOVIN MATTEO
I giudizi coloriti su Letta, e certe metafore taglienti sulle sue capacità di governo, sono soltanto l’aspetto più provinciale del colloquio tra il sindaco e il generale. Svelano il tratto privato di Renzi, la sua inclinazione alla chiacchiera come strumento di autopromozione nella sfera pubblica. Ma la propensione ciarliera del giovin statista, e le simulazioni complottistiche dei suoi sodali lasciati a Palazzo Vecchio, quali degni interpreti di una Toscana minore raffigurata nelle scene di “amici miei”, non sono la questione centrale della sbobinatura.
Il profilo politico dell’intercettazione è un altro. In una democrazia latina il cui sistema politico è crollato, la conquista del potere passa attraverso ricatti, pressioni, giochi.
Il voto perde ogni valore di investitura. Le urne sono convertite in una ratifica tardiva di spostamenti già maturati nel palazzo. Le rimozioni e gli avvicendamenti al governo sono favoriti dal gioco spregiudicato tessuto dietro le quinte. L’intrigo diventa il terreno prediletto da personaggi ambiziosi ma privi di qualità politica e soprattutto di legittimazione. Il sistema è diventato davvero un congegno autoreferenziale, con maggioranze che si decompongono in aula e con i ritrovati magici di formule variabili che nulla hanno a che vedere con il mandato elettorale originario. E’ saltato il circuito ascendente della legittimazione, quello che collega governanti e governati attraverso il voto competitivo.
E la manovra ambigua è l’arte che decide le carriere di statista in un tempo di politici mediocri e senza ideali che occupano la scena in virtù del potere di interdizione privato che sprigionano e del gradimento dei media assicurato da decisive potenze alleate. Solo in apparenza la scalata al quartier generale è un puro spettacolo di gazebo, di flash e di pubblicità. Accanto alle trovate luccicanti della comunicazione via tweet, esiste un piano nascosto con minacce e alleanze trasversali, un terreno che sta sotto la superficie iconica visibile e su cui è impossibile penetrare. Il profumo acre di occulto accompagna tutta l’ascesa di Renzi al vertice del potere.
Il filo che collega la misteriosa visita ad Arcore del 2010, la mattutina scappatina dell’ancora sindaco fiorentino dalla Merkel sino alla grande messa in scena del patto del Nazareno è la vocazione all’esoterico come strategia per farsi largo nel gradimento nei piani nobili del potere. Quello di Renzi è un potere occulto, nato dalla combinazione di una richiesta di attestati di benemerenza (rilasciati in Europa da governi e uomini d’affari) e di una spregiudicata combutta con il nemico. Le intercettazioni proprio questo svelano: un accordo segreto, una sintonia strategica per smontare l’asse Letta-Napolitano. Il Quirinale, dipinto a lungo come una rediviva fortezza reale, si tramuta in un castello di sabbia venuto giù all’istante. Con l’accordo tra Renzi e Berlusconi, del mitologico «re Giorgio» non rimane che l’ombra e dei corazzieri si è persa ogni traccia.
LE ALLUSIONI DEL LEADER PD CONTRO IL CAPO DELLO STATO, RAFFIGURATO COME UN DIAVOLO dell’antiberlusconismo militante, questo spiegano: il desiderio di Renzi di accreditarsi agli occhi di Berlusconi decaduto per peccati contro il fisco (e all’udito di un generale delle fiamme gialle!) come garante di una svolta radicale, rispetto alla negazione della «agibilità politica» del cavaliere, imputata al capriccio ostinato del Colle. I giovani turchi ed altri esponenti della minoranza del Pd credevano di essere stati rilevanti nella richiesta (suicida) di un “cambio di passo” nel governo Letta, che poi Renzi, in una donchisciottesca riunione della direzione, ha convertito in lascia passare corale per una sua immediata investi­tura a Palazzo Chigi. In realtà sono stati anche allora giocati dal politico toscano che aveva già concordato mosse, strategie, tempi e scenari direttamente con Berlusconi.
La consuetudine con il Cavaliere, la frequentazione amicale con i suoi colonnelli fiorentini è cruciale nell’ascesa di Renzi al comando. La vera benedizione per la conquista del governo, più che dai gazebo o dalla direzione Pd, proviene da Berlusconi con il quale, al di là delle episodiche scaramucce parlamentari, esiste una sintonia granitica che resiste nel tempo e che non si spiega con la sola logica della politica. Sono in gioco altre dimensioni, che sfuggono al momento. Che la vita pubblica sia del tutto incancrenita, traspare anche dalle parole fuori registro del generale Adinolfi. Che si rivolge al segretario del Pd chiamandolo con rispetto «stronzo» e, cosa ancor più preoccupante, partecipa a considerazioni sul destino del capo dello Stato (suo vertice gerarchico), del presidente del consiglio, dei partiti.
Un tempo erano i generali dell’arma a far risuonare gli umori ribelli delle caserme con il forte rumore di sciabola che si udiva dentro la stanza dei bottoni. Ora sono i generali delle fiamme gialle, e quanti sono depositari di notizie riservati sulle consuetudini fiscali dei potenti, a partecipare a parate occulte e a dispiegamenti di forza con allusioni, interventi, accrediti, annunci. Se il capo dello Stato uscisse, per un momento soltanto, dalla vocazione al silenzio alla quale si è consegnato e pronunciasse, in qualità di capo delle forze armate, qualche parola contro la inquietante politicizzazione degli uomini in divisa, una democrazia stanca e malata come quella italiana ne troverebbe forse un piccolo sollievo. Qui rimane ancora un’utopia il postulato di Gramsci per cui i militari dovrebbero fare politica ma solo nel senso «di difendere la costituzione, cioè la forma legale dello Stato, con le istituzioni connesse».
(Michele Prospero 12.07.2015)

11 – COMMENTI . LA VERITÀ SU RENZI – SINISTRA. PER IL PREMIER «SINISTRA» È SOLO UNO SCHERMO UTILE A COMPETERE CON LA DESTRA RAZZISTA.
Due fatti in questa settimana colpiscono per la loro contraddittoria rilevanza. Il referendum greco ha tracciato in Europa confini politici più che mai netti, che aiutano a orientarsi in una situazione non semplice né favorevole. Nel frattempo in Italia la rivoluzione reazionaria di Renzi imperversa e corona la propria azione inquinante con l’approvazione di una legge nefasta contro la scuola pubblica. A dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che il nostro paese resta prigioniero di una possente spinta regressiva.
Sullo sfondo del conflitto tra la Grecia e le «istituzioni» il continente si è diviso. Chi ha gioito ha letto nella vittoria del No la testimonianza della dignità e del coraggio consapevole di un popolo capace di resistere al terrorismo internazionale della troika. Chi ha maledetto nel referendum una forzatura e una mossa populistica ha poi schizzato fiele per la bruciante sconfitta, giurando che quei sudici fannulloni non la passeranno liscia. Ma se si va a guardare chi si è collocato da una parte o dall’altra, ci si accorge subito che non si può più straparlare di destra e di sinistra utilizzando pigramente le cartografie tradizionali. Lo show down coraggiosamente imposto dalla leadership greca richiede urgenti aggiornamenti delle mappe, soprattutto per quanto riguarda la sinistra, sedicente o reale.
I continui tentennamenti del presidente francese, succube dell’egemonia tedesca, e l’indecente performance del presidente del parlamento europeo in trasferta ad Atene dimostrano che l’eclisse della socialdemocrazia è in tutta Europa il tratto cruciale di questa fase storica e un architrave costitutivo dell’eurocrazia. Venti, trent’anni di neoliberismo hanno stravolto in profondità le culture politiche e l’identità delle organizzazioni e dei ceti politici. Quella che sino agli anni Ottanta fu la sinistra socialista, rappresentante dei movimenti operai e democratici, ha interiorizzato le ragioni di una modernità arcaica, incentrata sulla primazia del mercato e del capitale transnazionale. Oggi siamo, complici le rovinose conseguenze del monetarismo e dell’architettura comunitaria, allo smascheramento delle ipocrisie. Quella sinistra si arma contro il lavoro, contro i diseredati, contro i subalterni. E va alla guerra – una guerra di sterminio – dirigendo in prima linea le operazioni sul campo.
In Italia, laborato­rio poli­tico del trasformismo, il dislocarsi della «sinistra di governo» non è certo meno visibile e concreto che altrove. Che cosa intendiamo di norma parlando di sinistra? Ci riferiamo alle battaglie per la giustizia sociale e l’eguaglianza; per la tutela del lavoro dipendente e dei diritti sociali. Torniamo alle lotte per la democrazia integrale, concepita come autodeterminazione della collettività. Quindi all’antifascismo. Pen­siamo alla pace e a un’idea di progresso come sicurezza sociale e crescente riconoscimento dei diritti. Confrontata con questi temi, la storia politica italiana degli ultimi vent’anni non lascia margini al dubbio. La sinistra si è via via dileguata. O ha cambiato residenza, abbandonando le dimore tradizionali delle quali veniva espropriata dalla prepotente egemonia neoliberale. Oggi siamo al dunque. Non c’è evidenza che offuschi il quadro, e chi resista a riconoscere la realtà non può credibilmente rivendicare alibi.
Al netto delle menzogne populiste, Renzi ha praticato politiche di pura austerity aumentando la pressione fiscale sul lavoro e sul ceto medio e riducendo sistematicamente le prestazioni del welfare. Ha brutalmente attaccato le residue tutele del lavoro e il sindacato. Ha imposto, con l’aiuto dell’amico Verdini, un’odiosa controriforma autoritaria e privatistica della scuola e adesso lavora per distruggere il sistema nazionale dell’università pubblica. Ha varato una legge elettorale liberticida, peggiore del porcellum, nella speranza di consacrare la propria dominazione personale. E sta per manomettere definitivamente la struttura costituzionale della democrazia rappresentativa accrescendo a dismisura il potere delle oligarchie e delle cricche politiche.
Nulla di quanto Renzi fa o dice (anche in Europa, dove si è candidato a mazziere dei poteri forti) può essere ricondotto a un’idea di sinistra che conservi un’ombra di significato. Nel suo schema operativo «sinistra» è soltanto uno schermo propagandistico utile a competere, sulla base di piattaforme comuni, con la destra tradizionale razzista e camorrista. Questa verità va finalmente detta con forza e senza perifrasi. Va detta, prima che sia troppo tardi, all’elettorato del Pd. E va ripetuta con ostinazione all’opposizione interna di quel partito, la cui timidezza – o pavidità – ha sin qui permesso al governo di restare in sella e impedito che nuove energie si liberassero in questo paese, ultimo e unico tra i fondatori dell’Unione europea a rimanere immobile nella palude di una politica senza alternativa.
Resta, si dirà, proprio questo problema. Non c’è, al momento, un’alternativa praticabile. Non c’è in Italia Syriza né Podemos; non c’è la Linke né tanto meno un partito comunista credibile. C’è invece un M5S costituito nell’ambiguità, ricettacolo e catalizzatore di un senso comune innervato dal pregiudizio qualunquista, ed è evidente che si tratta delle due facce di una stessa medaglia. Ma il fatto di aggirarsi in un maledetto circolo vizioso non costituisce un alibi per la rassegnazione. Muovere queste acque stagnanti prima che si trasformino in sabbie mobili è necessario e urgente. Bisogna tentare, con onestà e spregiudicatezza, di liberare e riunire le energie disperse e di riconquistare la fiducia dell’enorme giacimento dell’astensionismo. Per questo occorre costruire nuovi riferimenti, liberi dall’ipoteca di questi anni bui. È un’impresa difficile, disperata, ma non impossibile. Anche il barone di Münchhausen rischiò di sprofondare nel fango ma riuscì a salvarsi afferrandosi per il codino. (Alberto Burgio 12.07.2015)

 

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