11579 “Andarsene sognando”. Le musiche degli emigrati italiani

20150201 23:16:00 redazione-IT

[b]di Stefano Pasta[/b][i] (da Il Corriere della Sera del 1/2/2015)[/i]
Come sosteneva Proust nella Ricerca, «le canzoni, anche quelle brutte, servono a conservare la memoria del passato». Con Andarsene sognando, Eugenio Marino ci prova ricostruendo l’emigrazione italiana degli ultimi 150 anni attraverso la musica. Nel libro – il titolo è tratto da Ciao amore, ciao, la canzone per la cui esclusione da Sanremo si suicidò Luigi Tenco – si incontrano differenti generi, dalle note impegnate dei cantautori italiani a quelle più leggere, dalle migrazioni stagionali interne alla Penisola di Me vo’ partì de qui, vo’ gi’n Maremma a quelle Oltreoceano verso «la Merica» e le «Nuovaiorche», dalle canzoni popolari dell’Ottocento a quelle dei giovani “cervelli in fuga” nate e diffuse su YouTube. Passando per la nostalgia di Mino Reitano, l’ironia di Carosone, l’impegno politico di De Gregori e il dialetto tremezzino di Van de Sfroos. Eugenio Marino, che è responsabile del Partito democratico per gli italiani nel mondo, parte dai canti più celebri e vecchi, quelli dai toni più marcatamente melodrammatici (Lacreme napuletane, Miniera, Torna a Surriento, Partono i bastimenti) che cantano la migrazione transcontinentale dell’Ottocento e Novecento.

È soprattutto musica “napoletana”, intesa con un’accezione più ampia dell’attuale, cioè comprendente tutti gli abitanti di quello che era stato il Regno delle Due Sicilie. Se al Nord si salpava da Genova, al Sud si partiva, quasi tutti, da Napoli. Dalle navi, chi andava via buttava sul molo un rocchetto di filo, tenendone un capo. A terra, chi restava, prendeva l’altro capo; la nave, allontanandosi, tendeva quel filo sino a spezzarlo. Solo il ritorno avrebbe consentito di riallacciarlo, insieme agli affetti. Da quel dolore, nacquero gli accordi che invasero il mondo, quasi tutti in “sesta napoletana”, musica popolare ma di grande livello.

Santa Lucia luntana, composta nel 1919, divenne uno degli inni degli emigranti: cantava la nostalgia per una modesta chiesta vicino al mare, riassumibile in «chi è nato a Napoli, là vuol morire». Ma in tutta Italia si sognava di partire. Nella Brianza lombarda, cantavano a squarciagola Ciapa la rocca e’l fus, che tradotto suonerebbe:

«Prendi la rocca e il fuso/ che andiamo in California,/ andremo in California/ in California a tappare i buchi!/ Quando avremo tappato i buchi/ I buchi in California/ Lasceremo la California/ Torneremo con rocca e fuso».

Una canzone popolare su una ragazza che moriva annegata dopo essere fuggita di casa per amore del re di Francia venne riadattata in chiave transoceanica: divenne Mamma mia dammi cento lire («perché nell’America voglio andar»), la più famosa canzone dell’emigrazione italiana. In una delle sue varie versioni, manteneva il finale tragico:

«Bastimento si ribaltò, la balena la mangerà».

Tragedie del mare – come quelle oggi cantate da Reda Taliani e Lofti, rapper maghrebini le cui canzoni sono le suonerie dei cellulari dei giovani nordafricani arrivati negli anni scorsi – di cui parlano, per esempio, le versioni lombarde e piemontese de Il naufragio della nave Sirio, poi riprese da Francesco De Gregori nella Trilogia del Titanic.

«Il 4 agosto alle cinque di sera, nessun sapeva il suo rio destin, urtò il Sirio un orribile scoglio, di tanta gente la misera fin. Ci fu pure un vapore stranier che da lungi vide il Sirio perir, con destrezza di ver marinaio i naufraghi dell’acqua levar».

Era il 1906, il transatlantico era partito da Genova per il Sud America e i morti furono 350. In altre di queste canzoni: l’ottimismo per l’avventura migratoria, il business di chi organizzava l’emigrazione, i racconti delle dure condizioni di viaggio («Cristofiru Culumbu, chi facisti?/ La megghiu ggiuvintù tu rruvinasti!») e quelli entusiasti di chi ce l’aveva fatta. Si potrebbe anche dire che alcune “mandulinate” abbiano contribuito al diffondersi del luogo comune degli «italiani maccheroni, mandolini e dolce far niente»; nel 1907, un giornalista del San Francisco Cronicle, dopo aver intervistato la cantante Adelina Padovani, arrivava addirittura ad affermare che, mentre parlava, gli sembrava «di poter respirare il delizioso profumo di zuppa genovese e di avere visioni di spaghetti con la salsa di funghi». Non mancavano anche i presunti “terroristi”: Lacreme ‘e cundannate e Sacco e Vanzetti, una ballata di cantastorie rielaborata in seguito da Ernesto Esposito e Ivan Della Mea e reincisa da Francesco De Gregori e Giovanna Marini, sono solo due esempi di canzoni dedicate ai due anarchici italiani ingiustamente condannati a morte nel 1927 negli Stati Uniti.

Nel libro di Marino, ci sono altre canzoni dedicate alle dure condizioni degli italiani all’estero: in Pablo di De Gregori (quella di «Hanno ammazzato Pablo, ma Pablo è vivo»), a cui contribuì anche Lucio Dalla, un italiano emigrato in Svizzera, con solo una valigia talmente povera da non aver nemmeno bisogno del classico filo di spago, racconta di un collega spagnolo che vede morire perché caduto da un impalcatura in un cantiere. Siamo nel 1975, due anni dopo la data simbolo della storia della migrazione in Italia: il 1973, quando gli immigrati in Italia superarono per la prima volta gli emigrati. Sognando e cantando, gli italiani avevano popolato il mondo. Oggi si calcola che circa 60 milioni di persone di origine italiana vivono in paesi extraeuropei e senza dubbio parecchi altri milioni vivono in Europa fuori dai confini italiani. Le persone di origine italiana che attualmente risiedono fuori dai confini nazionali superano quindi la stessa popolazione residente in patria; gli oriundi italiani rappresentano circa il 10% della popolazione francese, il 21% di quella Argentina e il 5% di quella statunitense.

Sono stati una ricchezza per i Paesi che li hanno ospitati e una risorsa per l’Italia che li ha visti partire. Inizialmente si trattava di manodopera numerosa e a basso costo, spesso maltrattata, ghettizzata, fatta oggetto di discriminazioni e luoghi comuni infamanti. In seguito, gli italiani sono riusciti a integrarsi e affermarsi in vari campi. Ancora una volta è la musica a raccontarcelo; in Si va, Eugenio Bennato canta questa contaminazione: «Quella nave, che appena fuori da Gibilterra, trasforma un ritmo di tarantella nel nuovo swing che arriverà»; Renzo Arbore ha pure girato un documentario in cui racconta come nel cimitero del jazz di New Orleans, sulle lapidi delle prime file di tomba, i nomi che si leggono sono quasi tutti italiani. Succedeva anche che dopo aver lavorato una vita intera all’estero, sognando ininterrottamente il ritorno per cui alla fine si erano create le condizioni, molti migranti si sono trovati di fronte a problemi che non erano stati previsti: per esempio figli che, cresciuti e integratisi all’estero, non avevano nessuna intenzione di tornare in un Paese che non è il loro, dove si parlava una lingua che conoscono poco.

Nel frattempo in Italia, l’ironia di Renato Carosone dissacrava il mito americano con Tu vuò fa l’americano! (1957), ma anche smontava i luoghi comuni del campanilismo italiano. Per esempio, in Lettere da Milano, immedesimandosi in un emigrato napoletano nel capoluogo lombardo, arriva addirittura a esaltare il vituperato nebiun milanese e il risotto allo zafferano. La storia raccontata in musica da Eugenio Marino continua poi con Le formiche di Lucio Battisti, Modugno, Mino Reitano e la nostalgia per la Calabria delle conserve fatte in casa, Lucio Dalla che canta Andrea di Crotone e Un auto targata TO sulla migrazione interna, i Nomadi, De Gregori, Guccini di Amerigo, l’Equipe 84, Finardi, Endrigo, Bennato, Fossati, De Andrè…

http://lacittanuova.milano.corriere.it/2015/02/01/andarsene-sognando-le-musiche-degli-emigrati-italiani/

 

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