11491 52. NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 4 dicembre 2014

20141206 18:53:00 guglielmoz

ITALIA – Quando BERLINGUER annunciava la palude / Pianeta terra . USA-UE UN MILIONE FIRME CONTRO TRATTATO ATLANTICO. Più di un milione di persone in Europa, di cui 180 mila nel Regno Unito, hanno firmato la petizione in cu i esprimono l’opposizione al Trattato transatlantico su commercio e investimenti (Ttip), l’accordo di libero scambio tra Ue e Usa. Sotto accusa la trasparenza delle trattative./ SVEZIA Crisi di governo sul bilancio
VATICANO – Il Papa tra verità e diplomazia L’arte della guerra.
EUROPA – FRANCIA. Bisogna smembrare Google?. Non si può certo accusare Google di non rispettare il dovere di neutralità che si è imposto /
AFRICA & MEDIO ORIENTE – PALESTINA . II parlamento francese ha approvato il 2 dicembre una risoluzione che invita il governo a riconoscere lo stato palestinese SIRIA / SIRIA Non affamiamo i rifugiati siriani / NAMIBIA. Rifugiati senza cibo /
ASIA & PACIFICO – CINA. Hong Kong e Taiwan contro Pechino. Le proteste nell’ex colonia britannica e il terremoto elettorale a Taiwan sono segnali che il potere economico della Cina non basta a conquistare le società democratiche / INDIA. Trent’anni senza giustizia per Bhopal. Nel 1984 in india ci fu il più grave disastro industriale della storia. La union Carbide, l’azienda statunitense responsabile dell’incidente, non ha mai pagato per le sue colpe
AMERICA CENTROMERIDIONALE – URUGUAY. Il Frente Amplio si afferma anche al ballottaggio. Vasquez presidente, Il Frente Amplio si riconferma alla guida dell’Uruguay. / MESSICO Peiia Nieto contestato. /
AMERICA SETTENTRIONALE – Ferguson, in marcia per 200 chilometri gli attivisti per i diritti civili dei neri. Una marcia di protesta "per la giustizia" di quasi duecento chilometri

ITALIA
ROMA
QUANDO BERLINGUER ANNUNCIAVA LA PALUDE DI ALBERTO BURGIO, QUESTIONE MORALE . UN RUOLO-CHIAVE, IN QUESTO DISASTRO, LO HA SVOLTO ANCHE L’IDEOLOGIA O, MEGLIO, LA SEDICENTE LIQUIDAZIONE DELLE IDEOLOGIE
«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela. Gestiscono talvolta interessi loschi, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello. Non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile: sono piuttosto FEDERAZIONI DI CAMARILLE, ciascuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi e di soffocare in una palude». A quanti sono tornate in mente in queste ore le parole di ENRICO BERLINGUER nella famosa intervista alla Repubblica del febbraio 1981? Sono trascorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge.

Nel venticinquesimo della morte ci si ricorda finalmente di LEONARDO SCIASCIA. Anche Sciascia lanciò l’allarme. «LA PALMA VA A NORD», scrisse: marcia alla conquista del paese. ALLUDEVA AL MODELLO SICILIANO D’IMPASTO TRA POLITICA E MAFIA.
Un impasto nel quale dapprincipio la mafia intimidisce e corrompe, poi penetra le istituzioni e si fa Stato. Ripetutamente Sciascia mise in guardia dal rischio che questo modello si generalizzasse. Oggi fingiamo di scoprire che mafia e ‘ndrangheta si sono stabilite a Milano e controllano vasti settori dell’economia nazionale. E guardiamo atterriti al nuovo romanzo criminale della mafia romana, edizione aggiornata di quell’universo orrendo che ruotava intorno alla banda della Magliana, coinvolgendo anche allora mafia, politica e terrorismo neofascista.
In questi trenta quarant’anni non solo non si è fatto argine contro il malaffare. Lo si è assecondato, lo si è favorito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di craxiana memoria. Della Milano da bere e del patto scellerato tra Stato e capitale privato che aprì le voragini del debito pubblico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la politica usata (con la complicità di gran parte della «sinistra») per salvare le aziende di famiglia; la legalizzazione dei reati finanziari; l’esplosione delle ineguaglianze. E vennero le «riforme istituzionali» che, proprio per iniziativa della sinistra post-comunista, diedero avvio allo stravolgimento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo disegnata in Costituzione.
Il presidenzialismo negli enti locali ha reso le istituzioni più fragili e permeabili ai clan anche per effetto di un apparente paradosso. L’accentramento monocratico del comando è andato di pari passo con la disarticolazione dei partiti politici, culminata nella farsa delle primarie aperte. Questo processo ha da un lato azzerato la dimensione partecipativa e la funzione di orientamento culturale svolta in precedenza dai partiti di massa; dall’altro ha promosso una selezione perversa del ceto politico-amministrativo, premiando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i partiti – soprattutto i maggiori – si sono ritrovati sempre più spesso alla mercé delle consorterie e delle cupole, secondo un meccanismo analogo a quello che in altri tempi permise a Cosa nostra di comandare nella Palermo di Lima, Ciancimino e Gioia.
Ma un ruolo chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie: l’avvento di una politica che si pretende post-ideologica, che ha significato in realtà il congedo di gran parte della sinistra italiana dalle lotte del lavoro e da una prospettiva critica nei confronti degli spiriti animali del capitalismo. Non è necessario, certo, essere comunisti per comprendere che moralità e buona politica sono strettamente connesse tra loro nel segno del primato della giustizia e del bene comune. Né in linea di principio aderire senza riserve alle ragioni del capitalismo impedisce di riconoscere l’importanza della questione morale e di essere «ONESTI», per riprendere un lemma sul quale si è ancora di recente dibattuto. Ma se della moralità e dell’onestà non si ha una concezione povera e astratta, allora si comprende facilmente che entrambe coinvolgono direttamente il modo in cui si giudicano l’ingiustizia sociale e il persistere dei privilegi. Non è un caso che, riflettendo sulla questione morale, Berlinguer in quella stessa intervista parli proprio di questo. Della necessità di difendere «i POVERI, gli EMARGINATI, gli SVANTAGGIATI» e di metterli davvero in condizione di riscattarsi. Non è un caso che rivendichi le lotte del movimento operaio e dei comunisti, non soltanto contro il fascismo e con gli operai, ma anche al fianco dei disoccupati e dei sottoproletari, delle donne e dei giovani. Né è casuale che insista sulle gravi distorsioni, gli immensi costi sociali, le disparità e gli enormi sprechi generati dal «TIPO DI SVILUPPO ECONOMICO E SOCIALE CAPITALISTICO». Per concluderne che esso – «CAUSA NON SOLO DELL’ATTUALE CRISI ECONOMICA, MA DI FENOMENI DI BARBARIE» – deve essere superato, pena il verificarsi di una catastrofe sociale «DI PROPORZIONI IMPENSABILI». Oggi come allora la questione morale investe frontalmente la politica anche per questa via: è una faccia della sua complessiva degenerazione. Non si tratta soltanto di illegalità, ma anche di irresponsabilità di fronte alla devastazione sociale provocata da trenta e passa anni di dominio del mercato, del capitale privato, dell’interesse particolare. Questione morale e irresponsabilità sociale della politica non sono, qui e ora, fenomeni indipendenti tra loro, bensì manifestazioni della stessa patologia

VATICANO
IL PAPA TRA VERITÀ E DIPLOMAZIA L’ARTE DELLA GUERRA.
«Oggi si dice che tante cose non si possono fare perché manca il denaro. Eppure il denaro per acquistare armi si trova, per fare le guerre si trova»: questa affermazione di Papa Francesco è stata ignorata dagli ambienti governativi italiani e occidentali, che tacciono sul fatto che la spesa militare mondiale (circa 1750 miliardi di dollari annui secondo il Sipri) è trainata da quella Usa/Nato (oltre 1000 miliardi di dollari annui, più altre spese di carattere militare). DI Manlio Dinucci

Praticamente ignorata, negli stessi ambienti, l’affermazione del Papa che indirettamente suona come una critica al sistema capitalista: «Stiamo vivendo una terza guerra mondiale a pezzi, a capitoli», dietro cui ci sono problemi politici ed economici collegati al tentativo di «salvare questo sistema dove il Dio denaro è al centro». Particolare rilievo è stato invece dato, a Roma e nelle altre capitali occidentali, al fatto che il Papa, giunto ad Ankara, ha espresso il proprio apprezzamento per «l’importante ruolo della Turchia nell’area mediorientale, sottolineandone in particolare l’impegno umanitario per l’accoglienza dei profughi in fuga dalle aree di con­flitto» («L’Osservatore Romano», 28 novembre).
Lo stesso aveva fatto il Papa quando, ad Amman, aveva ringraziato il regno giordano per «la generosa accoglienza ai rifugiati iracheni e provenienti da altre aree di crisi, in particolare dalla vicina Siria, sconvolta da un conflitto che dura da troppo tempo», incoraggiando la Giordania a «continuare ad impegnarsi nella ricerca dell’auspicata durevole pace per tutta la regione» («L’Osservatore Romano», 24 maggio). Tali dichiarazioni che lodano (probabilmente in base a un calcolo diplomatico) il ruolo della Turchia e della Giordania nella regione mediorientale e il loro impegno a favore dei profughi, si prestano ad essere un utile strumento nella campagna condotta dai governi e dai media occidentali per mistificare la realtà. Non a caso il presidente Napolitano, nel messaggio alla vigilia della partenza del Papa per la Turchia, sottolinea «il ruolo cruciale che Ankara è chiamata a svolgere in una regione scossa da forti tensioni e sanguinosi conflitti».
In realtà la Turchia e la Giordania costituiscono gli avamposti dell’operazione bellica Usa/Nato, il cui vero obiettivo non è la distruzione dell’Isis, funzionale a tale strategia, ma la demolizione dello Stato siriano (dopo quelli jugoslavo e libico), la riconquista dell’Iraq (eventualmente smembrandolo per poterlo meglio controllare) e in prospettiva l’attacco all’Iran. Come documentano anche inchieste del «New York Times» e del «Guardian», in Turchia e in Giordania la Cia ha aperto centri di formazione militare in cui sono stati addestrati gruppi islamici (PRIMA BOLLATI DA WASHINGTON COME TERRORISTI) da infiltrare in Siria, provenienti da Afghanistan, Libia e altri paesi, compresi quelli che hanno formato l’Isis in Siria e poi lanciato l’offensiva in Iraq. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar.
In Turchia – dove la Nato ha oltre venti basi aeree, navali e di spionaggio elettronico – è stato trasferito il Landcom, il comando alleato delle forze terrestri dei 28 paesi membri, quindi anche di quelle turche, che è stato attivato a Smirne, da dove dirige le operazioni in Siria e Iraq. In Giordania – documenta la «Associated Press» (28 novembre) – sono state formate, in un programma Cia di addestramento durato 2 anni, le forze ribelli appoggiate dagli Stati uniti che, operando congiuntamente con la branca di al Qaeda in Siria, stanno avanzando verso Damasco. Provocando altre ondate di profughi che beneficeranno della «generosa accoglienza» di Turchia e Giordania.

EUROPA
Pianeta terra. USA-UE UN MILIONE FIRME CONTRO TRATTATO ATLANTICO. Più di un milione di persone in Europa, di cui 180 mila nel Regno Unito, hanno firmato la petizione in cui esprimono l’opposizione al Trattato transatlantico su commercio e investimenti (Ttip), l’accordo di libero scambio tra Ue e Usa. Sotto accusa la trasparenza delle trattative. (di Antonio Cantaro)

EUROPA
SE IL TTIP ESPELLE I POPOLI GLOBALIZZAZIONE. CON IL TRATTATO TRANSATLANTICO VIENE MINATO LO STATO DI DIRITTO. CHE È AFFIDATO AI PRIVATI
Se l’Accordo di Partenariato Transantlatico (Ttip) dovesse andare in porto, quel giorno i popoli europei avranno avuto il loro cartellino rosso. Espulsi dall’amico americano da un campo di gioco che un tempo era territorio e spazio presidiato dagli Stati sovrani europei. Con il TTIP viene, infatti, messa in mora quella forma di Stato della quale ancora, sempre più stancamente, vantiamo nelle nostre aule di Giurisprudenza le magnifiche e progressive sorti. Per gli apostoli del libero scambio lo Stato sicurezza , lo Stato di diritto, lo Stato sociale costituiscono residui di un ancien regime che illegittimamente ostacolano la benefica concorrenza tra le nazioni, la crescita mondiale, la diffusione del benessere.
I fautori del Ttip vogliono liberarci. Abbattere le barriere normative al commercio tra Stati Uniti ed Unione Europea (le differenze nei regolamenti tecnici, nelle norme e nelle procedure di omologazione), aprire entrambi i mercati dei servizi, degli investimenti, degli appalti pubblici.
(ndr. Basta guardare cosa sta succedendo nel Messico con l’accordo Facta, per avere la certezza che non si deve fare, in parte Marchionni ha anticipato quello che succederà alle nostre aziende)
Sostanzialmente una totale liberalizzazione del commercio transatlantico . Un mercato comune che procurerà vantaggi all’industria automobilistica delle due sponde dell’Atlantico, a quella chimica e farmaceutica del Regno Unito; e che, di converso, penalizzerà l’agro-alimentare dei paesi mediterra­nei. Ma che – ci assicurano — procurerà vantaggi diffusi e mirabolanti benefici sistemici.
Sulla base di controverse ed incerte proiezioni, di una messianica fiducia globalista, si trattano gli ordinamenti di Stati ancora formalmente sovrani come prodotti da mettere in concorrenza per espungere i meno idonei a soddisfare le attese degli investitori. Capovolgendo l’idea tra i comuni mortali, che gli ordinamenti giuridici rappresentano il quadro entro il quale si svolge la competizione economica e non uno degli oggetti di essa.

DARWINISMO NORMATIVO CHE PRIVILEGIA I RAPPORTI MATERIALI DI FORZA SUI RAPPORTI GIURIDICI.
CAPITALISMO ANARCHICO CHE DISTRUGGE GLI STESSI FONDAMENTI ISTITUZIONALI DELL’ECONOMIA DI MERCATO.
L’ennesimo licenziamento senza giusta causa. Questa volta il bersaglio è lo Stato europeo. Lo Stato sicurezza, in primo luogo.
La rimozione delle barriere normative compromette, infatti, consolidate garanzie a tutela dei lavoratori, dei consumatori, della salute, dell’ambiente. Controlli, etichettature, certificazioni potrebbero essere considerate barriere indirette al libero scambio in settori cruciali quali la CHIMICA – FARMACEUTICA, LA SANITÀ, L’AUTO, L’ISTRUZIONE, L’AGRICOLTURA, I BENI COMUNI, GLI STRUMENTI FINANZIARI: È TIPICAMENTE IL CASO DEGLI ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI, la cui introduzione massiva nell’agricoltura europea è stata finora rallentata da una serie di regole ispirate all’europeo principio di precauzione.
Ma il CARTELLINO ROSSO degli apostoli del libero scambio non risparmia nemmeno i principi dello Stato di diritto. Il Ttip rende, infatti, possibile citare in giudizio l’Unione e gli Stati nazionali, vanificando la prerogativa pubblica di esercitare il potere giudiziario sul proprio territorio. Le controversie commerciali verrebbero affidate a speciali corti extra­territoriali. Le multinazionali sarebbero autorizzate a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a regimi del lavoro considerati troppo vincolanti, a leggi ambientali giudicate troppo severe.

CARTELLINO ROSSO, infine, anche per lo Stato sociale. Il mercato comune Europa-Usa danneggerà interi settori del sistema produttivo europeo. Questi per sopravvivere si appelleranno, in nome del superiore interesse a non deindustrializzare il Vecchio Continente, all’inderogabile esigenza di ulteriori tagli alla tassazione. E, quindi, alla spesa pubblica, alle politiche di welfare. Un accordo, insomma, colmo di agguati che rischia di spazzare il buono che c’è nell’acquis communitaire. Sono, insomma, in discussione disciplina e diritti che costituiscono un elemento identificativo dell’european way of life.

SORPRENDE IL SILENZIO COMPLICE DELLE CLASSI DIRIGENTI DEI PAESI MEDITERRANEI RISPETTO ALL’ACCORDO DI PARTENARIATO TRANSATLANTICO, ADERENDO AL QUALE IL PROGRAMMA DI LIBERALIZZAZIONI SUBIREBBE UN’ESCALATION DESTINATA A CANCELLARE OGNI TRACCIA DI AUTONOMIA POLITICA, ECONOMICA, CULTURALE DELL’EUROPA.
Barbara Spinelli ha proposto una rappresentazione spietata di questo silenzio. «Re dormienti» che hanno dimenticato cosa siano una corona e uno scettro, ignari dei costi che il mercato comune Europa-Usa comporta per i paesi dell’Unione, in particolare per quelli mediterranei.
Serve qualcosa che assomigli a quei contro movimenti sui quali, a suo tempo, si arrovellarono MARX, POLANY, GRAMSCI. PODE­MOS? Io penso di sì.

SVIZZERA
TRENO AI REFERENDUM
In uno dei tre referendum che si sono svolti il 30 novembre gli svizzeri hanno bocciato il progetto che puntava a limitare l’immigrazione annua allo 0,2 per cento della popolazione. Se la proposta fosse passata, spiega la Tribune de Genève, "nel paese avrebbero potuto stabilirsi ogni anno i/mila persone, rifugiati compresi, mentre nel 2013 gli ingressi sono stati Borni-la". Gli elettori hanno respinto anche le altre due proposte referendarie: quella di abolire il regime di tassazione privilegiata per i ricchi stranieri e quella di obbligare la banca centrale ad avere almeno il 20 per cento delle riserve in oro.

«UN SOLLIEVO IL NO AL REFERENDUM». PARLA L’AMBASCIATORE A ROMA, GIANCARLO KESSLER. L’INIZIATIVA ECOPOP BOCCIATA AL 74,1%. L’OCSE: IL PAESE ELVETICO PRIMO IN ACCOGLIENZA MIGRANTI

FRANCIA
Bisogna smembrare Google?
Non si può certo accusare Google di non rispettare il dovere di neutralità che si è imposto. Se in-fatti si digita sul motore di ricerca "Faut-il dé-manteler Google" (Bisogna smantellare Google), si ottengono ben 374mila risultati. Le opinioni riportate variano dai "googlofobi " più accaniti ai sostenitori fanatici dell’azienda californiana. Questofairplay non risolve certo i problemi posti da Google. E sono problemi importanti. Il 27 no¬vembre i parlamentari europei hanno di nuovo denunciato i rischi di monopolio nel mercato digitale. Con il 90 per cento delle ricerche su internet nell’Unione europea, Google di fatto non ha concorrenti.
Non è solo colpa sua se in Europa ha un simile privilegio: negli Stati Uniti la sua quota di mercato è del 70 per cento. In compenso, come osserva il parlamento europeo, questa situazione per-mette a Google di promuovere i propri servizi come YouTube e Google Maps e di sfruttare la sua posizione dominante, minacciando la concorrenza. Almeno questo è quello che pensano la Microsoft, gli editori e i siti europei che hanno intentato un’azione contro Google presso le istituzioni europee. L’inchiesta della Commissione, cominciata quattro anni fa. avanza a passo di lumaca e finora ha prodotto solo alcune proposte ritenute insoddisfacenti da chi ha presentato il ricorso, come distinguere i risultati di ricerca dai servizi offerti da Google. Bisogna arrivare al punto di smembrare l’azienda, come vogliono alcuni? In attesa dei risultati dell’inchiesta, è meglio evitare una misura così estrema, anche se gli stessi dirigenti di Google ammettono che le dimensioni dell’azienda cominciano a essere un problema. In compenso bisogna essere più radicali su un’altra questione importante posta dall’azienda, a proposito delle nostre libertà e della protezione della privacy. Se la lotta di Bruxelles contro i giganti statunitensi può essere dettata dall’invidia dell’Europa, che non ha aziende paragonabili, sulle libertà bisogna essere intransigenti. Secondo le istituzioni europee Google non rispetta il "diritto all’oblio digitale" sancito da una sentenza della corte di giustizia dell’Unione, in base alla quale chiunque può esigere la soppressione dei risultati di ricerca che lo riguardano. Questa è la battaglia più importante, perché interessa la cultura, l’identità e i valori dell’Europa. Il pericolo è reale, e se necessario bisognerà adottare san-zioni contro Google. (Le Monde, Francia)

PARIGI
LA BATTAGLIA DI SARKOZI
"Sarkozy torna ai comandi": così il Journal du Dimanche annuncia in copertina dopo l’elezione dell’ex presidente della repubblica alla segreteria dell’Unione per un movimento popolare (Ump). "Sarkozy, scelto con il 64,5 per cento dei voti contro l’8o per cento che aveva ottenuto nel 2006, dovrà fare i conti con i suoi oppositori", sottolinea il settimanale. "A cominciare da Bruno Le Maire, che ha avuto quasi il 30 per cento dei consensi". Ed è proprio il risultato dell’ex ministro dell’agricoltura la sorpresa maggiore del congresso del 29 novembre. Le Maire, infatti, "è riuscito a raggruppare quasi in silenzio buona parte degli oppositori di Sarkozy, che nell’Ump non sono pochi". Per il momento l’ex presidente ha invitato il partito a "fare gruppo" intomo al suo nome in vista delle primarie per la designazione del candidato alle presidenziali del 2017. La strada verso la riconquista dell’Eliseo è comunque ancora lunga e Sarkozy, molto popolare tra i militanti ma assai meno tra gli elettori, dovrà affrontare rivali estremamente determinati, come lo stesso Le Maire, che si presenta come "il nuovo", il popolare ex premier Alain Juppé o il meno amato, ma molto determinato, Francois Fillon

REGNO UNITO
IL PIANO DI CAMERON Continua il braccio di ferro tra il premier David Cameron e l’Unione europea. Il 28 novembre Cameron ha annunciato misure per impedire agli immigrati di altri paesi europei di usufruire del welfare britannico per i primi quattro anni di residenza nel Regno Unito e permettere il rimpatrio di chi è disoccupato da più di sei mesi. L’obiettivo è frenare l’arrivo di lavoratori dal resto dell’Unione e contrastare l’ascesa dei populisti dell’Ukip. "Anche se sotto la pressione dell’Ukip Cameron ha permesso al tema dell’immigrazione di prendere il sopravvento", scrive il Guardian, "questo discorso è stato più ragionevole di altri e può far sperare nell’apertura di un dibattito onesto sul tema".

UCRAINA
II 2 dicembre è stato raggiunto un accordo per una tregua a Luhansk e all’aeroporto di Donetsk. Lo stesso giorno è entrato in carica il nuovo governo con una statunitense, un lituano e un georgiano in posti chiave: il presidente Petro Porosenko gli aveva concesso la nazionalità poche ore prima.

GROENLANDIA
II partito Siumut, al potere, ha ottenuto la maggioranza relativa nelle elezioni anticipate del 28 novembre.

SPAGNA
II 26 novembre la ministra della sanità Ana Mato si è dimessa dopo essere stata coinvolta in un caso di corruzione che riguarda il Partito popolare.

SVEZIA
Crisi di governo sul bilancio
Il 3 dicembre il primo ministro svedese Stefan Lòfven, socialdemocratico, ha annunciato elezioni anticipate per il 22 marzo dopo che il parlamento ha bocciato, con 182 voti contrari e 153 favorevoli, la legge di bilancio per il 2015. Lòfven guidava da appena due mesi un governo di minoranza. La crisi, scrive Da-gens Nyheter, è stata innescata dall’opposizione di centrodestra e dal partito populista dei Democratici di Svezia, che hanno deciso di votare una finanziaria alternativa. La Svezia non andava al voto anticipato dal 1958.

RUSSIA
MOSCA AFFONDA IL SOUTH SREAM
Il 2 dicembre il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato l’annullamento del progetto del gasdotto South stream, destinato ad assicurare le forniture di gas dalla Russia ai paesi dell’Unione europea aggirando l’Ucraina. "L’improvvisa fine di South stream dopo otto anni di negoziati e lavori", scrive Kommersant, "è stata una sorpresa per tutti". Secondo esperti citati dal quotidiano "le conseguenze della decisione saranno sicuramente negative per i paesi europei attraverso i quali il gasdotto avrebbe dovuto transitare e per le aziende che avevano investito nel progetto. In questo modo, inoltre, l’Europa rimane senza un’importante leva nei rapporti diplomatici con Mosca". Secondo Politcom si potrebbe trattare invece di "un bluff di Putin per spingere le aziende energetiche europee a esercitare pressioni su Bruxelles affinché assuma una posizione più conciliante sul tema dei rifornimenti energetici russi all’Europa".

MEDIO ORIENTE & AFRICA

PALESTINA
II parlamento francese ha approvato il 2 dicembre una risoluzione che invita il governo a riconoscere lo stato palestinese

SIRIA-IRAQ
RIFUGIATI SENZA CIBO
IL 1 DICEMBRE IL PROGRAMMA ALIMENTARE MONDIALE DELL’ORNI HA DOVUTO SOSPENDERE LA DISTRIBUZIONE DI VOUCHER PER L’ACQUISTO DI GENERI ALIMENTARI A 1,7 MILIONI DI RIFUGIATI SIRIANI A CAUSA DELLA CARENZA DI FONDI.
Finora la guerra in Siria ha costretto 3,2 milioni di persone a fuggire all’estero e, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, un’ong con sede nel Regno Unito, ha provocato più di duecentomila morti. Secondo gli Stati Uniti, l’Iran ha condotto dei raid aerei contro le postazioni del gruppo Stato islamico nella provincia di Diyala in Iraq, scrive Now. Teheran ha smentito la notizia

SIRIA/IRAQ
NON AFFAMIAMO I RIFUGIATI SIRIANI
Come se la tragedia siriana non fosse già abbastanza orribile, con più di duecentomila vittime e oltre metà degli abitanti del paese costretti ad abbandonare le loro case, è arrivata un’altra brutta notizia: una parte del flusso di aiuti dall’estero sembra aver rallentato fino quasi a interrompersi. Per attirare l’attenzione sul problema il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam) ha annunciato la sospensione degli aiuti alimentari a causa della mancanza di fondi.
Il Pam ha bisogno di circa 60 milioni di dollari per sfamare 1,7 milioni di rifugiati siriani fino alla fine di dicembre. Il denaro non arriva, forse anche per le difficoltà dei paesi donatori. Possiamo solo immaginare l’impatto devastante che l’interruzione degli aiuti avrà sugli innumerevoli campi nei paesi vicini, soprattutto in Libano, Turchia e Giordania, dove vivono più di tre milioni di profughi siriani. Il conflitto in Siria, che dura ormai da tre anni, ha evidenziato l’impotenza della comunità internazionale davanti a una crisi complessa. La guerra è scoppiata quando il governo ha usato le armi contro il suo popolo per stroncare una ribellione. Bashar al Assad ha sottoposto i suoi cittadini a ogni tipo di orrore, dall’uso di gas sarin e barili bomba alla tortura. Il risultato è stata la radicalizzazione di tutte le parti in conflitto. Ora che la lotta contro il gruppo Stato islamico ha la precedenza su tutto, Assad sembra essere riuscito a imporsi come tacito alleato dell’occidente nella guerra contro i jihadisti. Il progetto di orchestrare una "transizione politica" a Damasco è o-mai un vuoto slogan.
Nessuno vuole o sembra capace di affrontare l’origine del dramma siriano, ovvero il regime di Assad. Il problema è che non stiamo affrontando nemmeno i sintomi. Gli aiuti alimentari sono essenziali. I governi dei paesi più ricchi, a cominciare da quelli del golfo Persico, devono dare alle Nazioni Unite il denaro che serve a sfamare i siriani. La stabilità dei paesi che ospitano i rifugiati potrebbe essere a rischio (The Guardian, Regno Unito)

ISRAELE
Alle urne a marzo
Gli israeliani andranno alle elezioni anticipate il 17 marzo 2015, scrive Ynetnews. L’ha stabilito il parlamento il 3 dicembre, dopo che il premier Benjamin Netanyahu aveva rimosso dai loro incarichi il ministro delle finanze Yair Lapid e la ministra della giustizia Tzipi Livni, due politici di centro. La coalizione di go-verno si è spaccata sul disegno di legge che afferma il primato del carattere ebraico su quello democratico dello stato di Israele e sulla proposta, caldeggiata da Lapid, di sgravi fiscali sull’acquisto della prima casa.

NAMIBIA
LE PRIORITA’ DEL PRESIDENTE
Il primo ministro uscente Hage Geingob, 73 anni, ha vinto le presidenziali del 28 novembre con l’86,7 per cento dei voti. Il suo partito, l’Organizzazione del popolo dell’Africa del sudovest (Swapo), ha conquistato 77 seggi su 96 in parlamento, mentre l’Alleanza democratica di Turnhalle, con cinque seggi, è diventata il principale partito d’opposizione. La Swapo, fondata ai tempi della lotta anticoloniale, ha sempre vinto le elezioni da quando il paese è diventato indipendente, nel 1990. Il 28 novembre la Namibia è stato il primo paese africano a usare il voto elettronico. Secondo l’Unione africana lo scrutinio si è svolto in modo corretto, ma i partiti dell’opposizione si sono lamentati per alcune difficoltà tecniche e hanno accusato la Swapo di aver manipolato i risultati. Quest’ipotesi è stata respinta dai produttori indiani delle macchine per il voto elettronico, che erano in Namibia per seguire le elezioni, scrive The Namibian. Secondo il quotidiano, Geingob dovrà risolvere vari problemi, come le forti disuguaglianze economiche tra i 2,3 milioni di namibiani e la mancanza di alloggi, in particolare a Windhoek.

KENYA
ALSHABAAB COLPISCE ANCORA
Trentasei minatori sono morti il 2 dicembre nel raid compiuto dai ribelli somali di Al Shabaab in una cava a Koromei, vicino a Manderà, nel nordest del Kenya. Com’era già successo dieci giorni prima in un attacco contro i passeggeri di un autobus, i miliziani somali hanno risparmiato i musulmani e ucciso gli altri, scrive The Standard.

BURKINA FASO
II 28 novembre il premier Isaac Zida ha detto che chiederà al Marocco l’estradizione dell’ex presidente Blaise Compaoré. Zida ha poi annunciato un’inchiesta sull’assassinio di Thomas Sankara nel 1987.

SOMALIA
II 3 dicembre quattro persone sono morte in un attentato contro un convoglio dell’Orni a Mogadiscio.

NIGERIA
LA REAZIONE DI KANO
La città nigeriana di Kano sta ancora curando le ferite del triplice attacco del 28 novembre contro la JHkaM moschea centrale. Il bilancio è stato di 120 morti e quasi 270 feriti. Prima ancora di qualsiasi rivendicazione, tutti gli sguardi si sono rivolti verso il gruppo estremista islamico Boko haram. Ma che ragione avrebbe avuto per attaccare una moschea? Molti osservatori vedono una relazione di causa-effetto tra l’attentato e l’appello di Muhammad Sanusi II, emiro di Kano, la seconda autorità religiosa della Nigeria, che ha invitato le popolazioni del nord del paese a creare dei gruppi di autodifesa.
I miliziani di Boko haram pretendono di agire nel nome dell’islam, ma uccidono e feriscono dei musulmani e distruggono i loro luoghi sacri. Quanta ipocrisia! "Non ci lasceremo impressionare né abbandoneremo la nostra religione", ha detto l’emiro. L’attacco potrebbe quindi avere effetti controproducenti e convincere molti civili a rispondere all’appello di Sanusi. Già il 28 novembre, dopo il massacro, alcune persone hanno inseguito gli aggressori e ne hanno uccisi quattro. Un abitante della città ha dichiarato che i miliziani dovranno tenere bene a mente che "chiunque attaccherà la gente di Kano si esporrà al rischio di morte". Come spesso succede, lo shock e l’indignazione saranno presto sostituiti dalla rabbia verso il governo, che fa ben poco per fermare le violenze. Il presidente Goodluck Jonathan si ricandiderà alle presidenziali nel 2015. Resta da vedere quale strategia sceglierà per farsi rieleggere. (Ahi-Assane Rouamba, L’Observateur Paalga, Burkina Faso)

LAGOS
LA NIGERIA ASSISTE IMPOTENTE AGLI ATTACCHI DI BOKO HARAM
11 dicembre le forze di sicurezza nigeriane hanno difeso con fatica Damaturu, il capoluogo dello stato di Yobe, dai ripetuti attacchi degli estremisti islamici del gruppo Boko haram. Gli abitan¬ti della città hanno parlato di varie esplosioni e scontri a fuoco prolungati nei pressi dell’università e del commissariato di polizia. Secondo le autorità locali, i miliziani di Boko haram sono stati respinti, ma le violenze hanno causato più di 150 morti.
Nell’ultima settimana di novembre centinaia di nigeriani sono morti in un’accelerazione dell’offensiva lanciata dal gruppo terroristico con l’obiettivo di creare uno sta-to islamico nel nord del paese. Quasi ogni giorno Boko haram ha fatto ricorso ad autobombe, attentati suicidi e raid contro villaggi e città. L’aumento delle violenze coincide con una fase di grave difficoltà per il presidente Goodluck Jonathan, che deve fare i conti con una diminuzione dei proventi del petrolio dopo il calo globale del prezzo del greggio. Mentre era in corso l’attacco a Damaturu, si sospetta che alcune attentatrici suicide abbiano fatto esplodere due bombe al mercato di Maiduguri, il capoluogo dello stato di Borno. Pochi giorni prima la moschea centrale di Kano, la città più grande della Nigeria settentrionale, era stata assalita.

MAIDUGURI ISOLATA
Kano, che era stata già presa di mira in passato, si trova lungo la principale via di approvvigionamento che porta nel nordest della Nigeria. La maggior parte delle altre strade che conducono a Maiduguri, dove le forze governative schierate contro i ribelli hanno stabilito il loro quartier generale, sono già state interrotte. L’inasprimento dell’insurrezione ha sconvolto i nigeriani e ha fatto nascere un gran numero di teorie del complotto, alimentate dalle accuse sempre più gravi che i politici si scambiano in vista delle elezioni presidenziali previste per il febbraio del 2015. Il governatore dello stato di Kano, Rabiu Kwankwaso, ha dichiarato che molti nigeriani del nord credono che il governo stia fomentando le violenze per indebolire la regione e che Jonathan si indifferente al destino di quest’area. Molti cristiani del sud, invece, pensano che l’insurrezione sia istigata da membri dell’elite politica del nord per indebolir Jonathan e riportare alla presidenza un musulmano del loro territorio
(William Wallis, Financial Times, Regno Unito)

ASIA & PACIFIC0

Hong Kong e Taiwan contro Pechino
LE PROTESTE NELL’EX COLONIA BRITANNICA E IL TERREMOTO ELETTORALE A TAIWAN SONO SEGNALI CHE IL POTERE ECONOMICO DELLA CINA NON BASTA A CONQUISTARE LE SOCIETÀ DEMOCRATICHE ( The Japan Times, Giappone)
Una dura sconfitta elettorale per il Kuomintang, il partito vicino a Pechino che governa Taiwan, e una nuova impennata nelle proteste a Hong Kong: questi due avvenimenti hanno riportato il presidente cinese Xi Jinping con i piedi per terra proprio mentre stava cavalcando un’onda di successi diplomatici. Il messaggio di Xi, incentrato sull’idea che per assicurarsi un futuro economico migliore conviene unire le forze con Pechino invece che mettercisi contro, non sembra aver funzionato con l’elettorato taiwanese. Alle amministrative del 29 novembre, infatti, gli abitanti dell’isola hanno votato in massa per il Partito democratico progressista (Dpp, all’opposizione), favorevole a una maggiore distanza tra Taiwan e la Cina. Il Dpp dà voce ai molti taiwanesi che temono un’eventuale unificazione con il regime autoritario di Pechino. Il messaggio di Xi non ha convinto nemmeno i manifestanti di Hong Kong che, da-vanti all’intransigenza di Pechino sulla possibilità di avviare le riforme democratiche, il 1 dicembre si sono scontrati di nuovo con la polizia mentre cercavano di circondare la sede del governo. Secondo Kweibo Huang, che insegna diplomazia all’università nazionale Chengchi di Taipei, le manifesta-zioni di Hong Kong hanno ricordato agli elettori taiwanesi cosa potrebbe diventare l’isola in caso di riunificazione con la Cina. Il Dpp ha vinto sette elezioni su nove per la carica di sindaco o di capo di contea, asse-stando un duro colpo al Kuomintang che invece sostiene una maggiore integrazione economica tra le due sponde dello stretto di Taiwan. Questa situazione rappresenta un problema per Pechino, che rivendica Tai¬wan come parte del suo territorio e ha promesso di prendere il controllo dell’isola con la forza, se necessario. Ma durante la campagna elettorale i giovani e la classe media di Taiwan si sono opposti agli sforzi del presidente Ma Yingjeou di abbattere le barriere economiche con Pechino e favorire il dialogo sull’unificazione politica.
Tra i manifestanti di Hong Kong favore-voli alla democrazia c’è anche il timore che l’ascesa economica cinese possa margina-lizzare l’ex colonia britannica. Allo stesso modo, a Taiwan molti temono che l’economia dell’isola possa essere fagocitata dalla Cina, che potrebbe inondare il mercato del lavoro per mantenere bassi gli stipendi mentre il costo della vita sale. "I vantaggi economici della politica di Ma, che dal 2008 ha firmato diversi accordi economici e commerciali con Pechino, non sembrano aver raggiunto tutti gli strati sociali. Gli elettori non vogliono che il presente di Hong Kong possa essere il futuro di Taiwan", spiega Joseph Cheng, esperto di politica cinese della City university di Hong Kong.
Pechino ha poco margine di manovra per adeguarsi ai cambiamenti in corso a Taiwan e Hong Kong: da un lato ha paura di alimentare sentimenti filo-democratici in Cina e dall’altro non intende cambiare la sua posizione in merito ai due territori. Il governo cinese continua a premere perché Taiwan accetti il modello "un paese, due sistemi" applicato a Hong Kong al momento del passaggio della sua sovranità dal Regno Unito alla Cina, nel 1997. Questo sistema concede alla città una certa autonomia e un apparato giudiziario ed economico se-parati, ma la pone saldamente sotto l’autorità di Pechino. Nei rapporti con Taiwan Xi ha continuato a sostenere questo modello, nonostante l’opposizione diffusa tra i 23 milioni di abitanti dell’isola. Il presidente cinese ha anche messo in chiaro che i candidati al governo di Hong Kong nelle elezioni del 2017 dovranno essere autorizzati da una commissione scelta da Pechino.

I LIMITI DEL SOFT POWER
L’intransigenza di Xi contrasta con la sua politica estera che, tramite il soft power, cerca di presentare la seconda economia del mondo come una realtà solida e sicura, sperando di cancellare i timori della comunità internazionale sul modo in cui la Cina in-tende usare la sua nuova forza. Nelle ultime settimane Xi ha ospitato a Pechino il vertice annuale dell’Apec (Cooperazione economica dell’Asia e Pacifico), ha partecipato al G20 in Australia e ha visitato le Fiji per rafforzare i legami tra la Cina e l’arcipelago. Inoltre ha portato avanti le sue proposte per la creazione di un’area di libero scambio e di un’istituzione di credito asiatica che possa competere con la Banca mondiale, affidando a Pechino il ruolo di leader globale che ha cercato a lungo. Apparentemente rilassato e con la situa-zione sotto controllo, il 29 novembre Xi ha rilasciato un’importante dichiarazione di politica estera parlando della crescente integrazione della Cina nella comunità internazionale e del suo rifiuto di scendere a compromessi sulle sue rivendicazioni territoriali. " La Cina deve avere il suo stile peculiare nelle relazioni con gli altri paesi", ha spiegato Xi. "Seguire il cammino dello sviluppo pacifico ma allo stesso tempo non abbandonare i suoi diritti legittimi e non sacrificare gli interessi primari della nazione". Anche se è stato ricevuto in pompa magna all’estero, il presidente cinese potrebbe avere maggiori difficoltà a convincere l’opinione pubblica di Taiwan e Hong Kong, perché i due territori sono molto più vicini e si sentono molto più minacciati dall’ascesa di Pechino. Ex colonia giapponese, Taiwan si è separata dalla Cina durante la guerra civile del 1949. Pechino considera il governo dell’isola l’amministratore illegittimo di una provincia ribelle. Dal 2008 Taiwan e la Cina hanno firmato 21 accordi commerciali, di transito e d’investimento, ma a marzo decine di migliaia di manifestanti hanno occupato il parlamento di Taipei per impedire la ratifica di un trattato che avrebbe liberalizzato il commercio con la Cina. Quando Hong Kong è tornata sotto l’autorità cinese, nel 1997, Pechino ha promesso di introdurre il suffragio universale in occasione delle elezioni per il capo dell’esecutivo del 2017. Ma non sarà così, e da due mesi e mezzo centinaia di cittadini protestano occupando alcune zone della città. Anche se le proteste di Hong Kong non sono state al centro del dibattito elettorale a Taiwan, gli analisti sono convinti che gli elettori avevano ben presenti i lega-mi sempre più forti tra il loro governo e quello di Pechino quando hanno deciso di punire il Kuomintang. Dopo la sconfitta alle urne, il primo ministro Jiang Yihuah e i suoi ministri si sono dimessi formalmente anche se sono rimasti alla guida di un governo provvisorio. La batosta elettorale spinge il partito sulla difensiva in vista delle elezioni del 2016, a cui Ma non potrà più candidarsi.
Sia a HONG KONG sia a TAIWAN l’elite economica e politica è tendenzialmente favorevole a rafforzare i legami con la Cina, mentre i giovani hanno paura che la forza lavoro in arrivo dal continente possa compromettere le loro prospettive di lavoro. Inoltre molti temono che i diritti civili come la libertà di stampa e la possibilità di creare organizzazioni politiche indipendenti possano essere cancellati da politici e uomini d’affari ansiosi di ingraziarsi i vertici di Pechino.
Considerati questi sentimenti diffusi, la Cina ha bisogno di qualcosa di più profondo dei legami economici per conquistare un elettorato democratico, spiega Hsu Yungming, politologo dell’università Soochow di Taipei.

NOTA.
LA PROTESTA A UN BIVIO
Il 3 dicembre 2014 Benny Tai, Chan Kin-man e Chu Yiuming, fondatori del movimento Occupy centrai, si sono consegnati alla polizia ma sono stati rilasciati senza nessuna accusa. Insieme a loro si è costituito il cardinale cattolico Joseph Zen Zekiun, sostenitore delle proteste cominciate due mesi e mezzo fa a Hong Kong. Il giorno prima i tre uomini avevano spiegato che il loro era un gesto simbolico per dimostrare che se avevano intrapreso azioni illegali era stato per un obiettivo più grande e che non avevano nulla da nascondere. Tai, Chan e Chu hanno poi invitato i manifestanti a seguire il loro esempio e a terminare l’occupazione continuando la protesta in altre forme. Nel frattempo, però, l’altra anima della protesta rifiuta di arrendersi. Uno dei leader degli studenti, Joshua Wong, insieme a due ragazze, ha cominciato lo sciopero della fame. Alex Chow, un esponente del movimento Scholarism, ha fatto sapere che gli studenti non lasceranno le zone di Admiralty e Causeway Bay dove sono accampati.

INDIA
TRENT’ANNI SENZA GIUSTIZIA PER BHOPAL
NEL 1984 IN INDIA CI FU IL PIÙ GRAVE DISASTRO INDUSTRIALE DELLA STORIA. LA UNION CARBIDE, L’AZIENDA STATUNITENSE RESPONSABILE DELL’INCIDENTE, NON HA MAI PAGATO PER LE SUE COLPE ( *) Vijay Prashad, Counterpunch, Stati Uniti.
IL nome Warren Anderson forse dice poco al lettore occidentale, ma in India significa molto. Anderson, morto JH Lalla fine di settembre in Florida all’età di 92 anni, era il responsabile della Union Carbide quando, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984, avvenne il disastro. Un imprevisto aumento della temperatura nell’impianto per la produzione di pesticidi a Bhopal, nell’India centrale, provocò una persone sono morte e più di mezzo milione sono state colpite in seguito dagli effetti del gas tossico. Nel 1985 l’azienda mandò Warren Anderson in India, dove fu messo agli arresti domiciliari con l’accusa di "omicidio colposo non equivalente all’assassinio". Le responsabilità della Union Carbide sembravano evidenti. Anderson pagò la cauzione (2.100 dollari) e lasciò paese. Non sarebbe mai più tornato in India né nei tribunali indiani. Nel 1975 il governo del Madhya Pradesh aveva diffuso un documento in cui chiedeva che l’impianto di Bhopal, costruito nel 1968, fosse spostato in una zona più isolata. La Union Carbide e i suoi alleati nel governo locale respinsero le richieste. Era il primo di una lunga serie di rifiuti in contrasto con la necessità di garantire la sicurezza dei cittadini. Nel 1982 una squadra della Union Carbide mandata dagli Stati Uniti evidenziò "gravi" problemi di sicurezza nell’impianto, anche nell’unità dove due anni dopo avrebbe avuto origine il disastro. Nessuno fece nulla e la Union Carbide avviò invece una serie di tagli alle spese riducendo ulteriormente la sicurezza nell’impianto. Era il
secondo segnale dell’eclatante indifferenza nei confronti dei lavoratori dell’impianto e degli abitanti della città. Quando, poco prima della mezzanotte del 2 dicembre 1984, il gas cominciò a uscire, l’azienda non fece suonare la sirena che avvertiva della perdita di sostanze tossiche né informò la polizia e le autorità locali affinché facessero evacuare l’area. Per almeno un’ora i manager dell’impianto rimasero con le mani in mano. Alla fine un operaio suonò l’allarme per avvisare gli altri del pericolo. Il disastro di Bhopal non fu un "incidente", ma il risultato di una deliberata indifferenza verso la sicurezza in un impianto chimico di una città densamente popolata.

VALORI DIVERSI
Nel 1989 la Union Carbide accettò di pagare risarcimenti per 470 milioni di dollari, una miseria. L’azienda dichiarò che, poiché l’impianto era gestito dalla sua affiliata indiana, non aveva responsabilità giurdiche per il disastro. John Musser, un portavoce dell’azienda, disse che la Union Carbide si assumeva solo la "responsabilità morale", niente di più. Ma l’azienda possedeva più della metà delle azioni dell’impianto di Bhopal e si era occupata della sicurezza dell’impianto, mandando le sue squadre di ispettori e vigilanti. Nel 1994 la Union Carbide tagliò i ponti con la sua affiliata indiana e nel 2001 è diventata interamente di proprietà della Dow Chemicals.
La Dow sogna da sempre più libertà per le grandi aziende. Nel 1972 il presidente statunitense Richard Nixon incontrò i dirigenti delle aziende più importanti del paese per discutere del futuro dell’economia mondiale. Cari Gerstacker, a capo della Dow Chemicals, commentò: "Ho sognato a lungo di comprare un’isola che non appartenesse a nessuna nazione, un terreno senza obblighi nei confronti di alcuna società dove mettere il quartier generale del¬la Dow Company ". Secondo Gerstacker le grandi aziende non dovevano essere sog-gette ad alcun controllo, né sulla gestione dei lavoratori né sul rispetto dell’ambiente. Dovevano avere il permesso di essere antisociali.
Dieci anni più tardi, dopo il disastro di Bhopal, l’atteggiamento di questi manager verso i popoli del sud del mondo fu chiarito da un rappresentante dell’azienda chimica American Cyanamid. L’uomo fece notare con noncuranza che il numero di morti a Bhopal non doveva essere preso troppo sul
serio perché gli indiani non condividevano "con i nordamericani la stessa filosofia sull’importanza della vita umana". Perché la Dow o la Union Carbide dovevano essere ritenute responsabili quando da un lato avrebbero dovuto essere libere da qualsiasi forma di responsabilità in generale, e dall’altro la gente in India non rispettava la vita allo stesso modo degli americani?
Il 1 febbraio del 1992 il pubblico ministero del tribunale di Bhopal dichiarò Warren Anderson latitante. Anderson si rifiutò di tornare in India per affrontare il processo e nel 2002 Greenpeace gli notificò il mandato d’arresto. Nel 2003 l’India contattò il governo statunitense per ottenere la sua estradizione ma Washington rifiutò, sostenendo che le prove non erano sufficienti a incriminare Anderson per il disastro. Il 31 luglio del 2009 Prakash Mohan Tiwari, pubblico ministero di Bhopal, ha spiccato un nuovo mandato d’arresto per Anderson, il quale però è rimasto sempre negli Stati Uniti, al riparo dai tribunali indiani. Non solo: il governo indiano ormai sembra aver deciso che i suoi nuovi "rapporti strategici" con gli Stati Uniti sono molto più importanti della giustizia per le decine di migliaia di abitanti di Bhopal. Secondo Ronen Sen, ambasciatore indiano negli Stati Uniti dal 2004 al 2009, i "legami probatori" tra Anderson e il disastro del 1984 dovevano essere chiariti dall’Indian centrai bureau of investigations (Cbi). Nel 2010 il funzionario del Cbi in pensione B. R. Lall ha rivelato che il ministro degli esteri indiano aveva chiesto al Cbi di "rallentare" sul caso Anderson.
La cospirazione è maturata durante i vertici del 2005 e del 2006 del Forum degli amministratori delegati indiani e statunitensi. Dopo il vertice del 2005, l’amministratore delegato della Dow, Andrew Live-ris, ha scritto all’ambasciatore Sen dicendo che "per facilitare la partnership strategica tra India e Stati Uniti", bisognava "risolvere una questione legale specifica: il problema Bhopal". L’anno dopo il governo indiano si è spinto ancora oltre.
Nel 2006 Liveris ha scritto a Sen: "Tenuto conto delle dichiarazioni dei rappresentanti del governo indiano, secondo cui la Dow non è responsabile del disastro di Bhopal e non sarà perseguita dal governo di New Delhi, sarà importante proseguire su questa strada e garantire azioni concrete e coerenti con queste parole". In particolare, l’India doveva ritirare le accuse contro la Dow e accantonare la richiesta di estradizione per Anderson. L’opinione di Liveris è stata appoggiata dal presidente del forum degli amministratori delegati, Ratan Tata, in una lettera al primo ministro indiano Manmohan Singh. Nella lettera Tata si è offerto di creare un fondo indiano per la bonifica di Bhopal, mettendo la Dow Chemicals al riparo perfino da questo obbligo.
La storia completa della complicità del governo indiano con la Dow Chemicals e il governo di Washington per negare giustizia agli abitanti di Bhopal deve ancora essere raccontata. Quello che si sa è scandaloso. Nel frattempo Anderson è morto. A Bhopal, Rampyari Bai, un attivista vittima del gas di Bhopal, ha detto: "Di certo otterremo i nostri diritti. Non mi arrenderò finché vivrò, finché il mio cuore non smetterà di battere. Non mi ritirerò dalla battaglia".

Nota.
SE ACCADESSE OGGI. Anche se è stato il peggior disastro industriale della storia – lo scrittore Suketu Mehta, autore di molti articoli sull’argomento, l’ha definito "l’n settembre indiano" – in occidente la tragedia di Bhopal non ha avuto l’eco che avrebbe oggi. Negli anni ottanta, infatti, le informazioni non circolavano così facilmente e Twitter non esisteva. Oltre al fatto che la vicenda ha macchiato la reputazione delle multinazionali, fa riflettere il rifiuto della magistratura statunitense di affrontare le gravi conseguenze di un’industrializzazione senza regole. "Cos’è cambiato da allora? Reagiremmo diversamente oggi?", si chiede Businessweek.
( *) Vijay Prashad è uno storico e giornalista indiano. In India sta per uscire Usuo ultimo libro, No free left: the futures on Indian Communism (Leftword Books).

AMERICA CENTRO-MERIDIONALE
URUGUAY
Il Frente Amplio si afferma anche al ballottaggio. Vasquez presidente, Il Frente Amplio si riconferma alla guida dell’Uruguay. Tabare Vazquez, già presidente prima di Mujica, ha vinto al ballottaggio contro il conservatore Luis Lacalle Pou e s’insedierà in marzo. Vazquez, 74 anni, viene dato vincitore con il 53-54% da tre diversi exit poll e il suo avversario, il 41enne Pou, indicato al 41%, ha già ammesso la sconfitta. Gli elettori hanno chiesto "più sviluppo economico, sociale e culturale", ha detto Vazquez, un oncologo che fra il 2005 e il 2010 è stato il primo presidente di centro sinistra dell’Uruguay. Aveva terminato il mandato con alto tassi di approvazione, ma in base alla legge non aveva potuto ripresentarsi per un secondo mandato consecutivo. Ora promette di puntare su istruzione e diffusione di Internet. I risultati ufficiali sono attesi in giornata.
Un totale di 2,6 milioni di persone era chiamato alle urne per il ballottaggio, ma il maltempo – con piogge forti piogge e venti – ha spinto molti elettori a rimanere a casa. Al primo turno, dove Vazquez era arrivato in testa, il suo partito Frente Amplio ha conquistato la maggioranza assoluta nelle due camere.
VAZQUEZ, CHE RAPPRESENTA L’ANIMA "CENTRISTA" DEL FRENTE, si è pubblicamente opposto a molte delle riforme di Mujica, come la legalizzazione dell’aborto (sulla quale impose il suo veto presidenziale nel 2008) e la produzione e distribuzione della marijuana "di Stato". Acerrimo nemico del tabacco, fiero di aver fatto dell’Uruguay la prima "nazione libera dal fumo" in America Latina, Vazquez ha ammesso che considera "incredibile" che la cannabis possa essere venduta nelle farmacie del Paese l’anno prossimo, e ha avvertito che è pronto a bloccare la riforma se i risultati non saranno quelli previsti dal governo ( di: fabrizio salvatori)

MESSICO
Peiia Nieto contestato. "Il i dicembre, nel secondo anniversario della presidenza di Enrique Pena Nieto, migliaia di persone hanno manifestato in varie città del Messico chiedendo giustizia per gli studenti scomparsi a Iguala il 26 settembre e le dimissioni del presidente", scrive Proceso. La popolarità di Pena Nieto non è mai stata cosi bassa e, secondo il settimanale, "sarà difficile che il paese sopporti altri quattro anni di questa farsa". In risposta alle proteste ormai diffuse in tutto il Messico, il 27 novembre il presidente aveva annunciato di voler le forze di polizia per contrastare l’infiltrazione del crimine organizzato.

HAITI
IN PIAZZA PER LE ELEZIONI. Il 28 novembre a Port-au-Prince migliaia di haitiani sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del presidente Michel Martelly e del primo ministro Lauren Lamothe. I cittadini vogliono che il governo convochi le elezioni parlamentari e comunali, che erano previste per il 26 ottobre e sono state posticipate senza stabilire una data. Lo stesso giorno, in un discorso alla nazione, "Martelly ha annunciato la creazione di una commissione presidenziale per affrontare la crisi politica che sta vivendo il paese", scrive il Miami Herald

HAITI
II 1 dicembre 34 detenuti sono evasi dalla prigione di Saint Marc, a nord di Port-au-Prince. Cinque guardie carcerarie sono state arrestate con l’accusa di averli aiutati a fuggire.

BRASILE
II 2 dicembre gli esperti forensi hanno escluso che l’ex presidente Joào Goualrt, morto in esilio dopo essere stato deposto nel 1964, sia stato avvelenato.

VENEZUELA
Trentacinque detenuti in sciopero della fame sono morti intossicati il 27 novembre dopo aver ingerito dei farmaci per protestare contro le condizioni nella prigione di Uribana.

COLOMBIA
UN PASSO IN PIÙ VERSO LA PACE
Il 30 novembre le Forze armate rivoluzionarie della Colombia hanno liberato il generale Ruben Dario Alzate Mora (nella foto), il caporale Jorge Rodriguez e l’avvocata Gloria Urrego, sequestrati il 16 novembre. Secondo El Espectador, "con la liberazione del generale il processo di pace tra il governo e la guerriglia, in corso da due anni, ha superato la sua crisi più grave". Tra i punti di forza dei negoziati c’è il ruolo di primo piano delle organizzazioni delle vittime, che si sono opposte alla decisione unilaterale del presidente Juan Manuel Santos di sospendere le trattative fino alla liberazione dei tre ostaggi. "Il processo di pace è in piedi", scrive Arturo Wallace su Bbc mundo, "ma le conseguenze di quest’episodio si faranno sentire a lungo. Una cosa è comunque certa: entrambe le parti sono impegnate sinceramente a trovare una soluzione negoziata al conflitto colombiano". Il 1 dicembre il generale Alzate Mora ha annunciato le sue dimissioni.

AMERICA SETTENTRIONALE
USA
FERGUSON, in marcia per 200 chilometri gli attivisti per i diritti civili dei neri.
Una marcia di protesta "per la giustizia" di quasi duecento chilometri. Da Ferguson, in Missouri, dove da giorni è in atto una rivolta (ieri il bilancio è stato di 15 persone arrestate) contro la decisione del Gran Jury di scagionare l’agente Wilson per la morte del diciottenne nero Michael Brown, è partito ieri a piedi un folto gruppo di attivisti per i di diritti civili dei neri. L’obiettivo è quello di raggiungere a piedi la residenza del governatore dello stato a Jefferson City. La marcia, organizzata dalla National Association for the advancement of colored people (Naacp, la maggiore associazione per la difesa dei diritti degli afroamericani), durerà sette giorni ed è simbolicamente iniziata proprio nel luogo dove è stato ucciso Brown. Vi partecipano un centinaio di persone, con lo scopo di sostenere la richiesta di un nuovo capo della polizia di Ferguson e per reclamare riforme della polizia in tutto il Paese.
Intanto, l’agente Wilson si è dimesso dallla polizia. Una decisione che nei giorni scorsi era stata caldeggiata da più parti e che, nonostante la tesi contraria ribadita dal suo avvocato e dalle autorità, suona come una implicita ammissione di colpevolezza

USA
"DON’T SHOOT HANDS UP". ANCHE I GIOCATORI DI RUGBY CONTRO LE VIOLENZE DELLA POLIZIA AMERICANA
In campo con le braccia alzate in segno di protesta contro lo scagionamento dell’agente Wilson, responsabile della morte di Michael Brown. Le immagini stanno facendo il giro del mondo: alcuni giocatori dei Rams St. Louis che entrano in campo con le braccia alzate in segno di solidarietà al diciottenne nero. Un gesto che riecheggia lo slogan delle centinaia di migliaia di manifestanti che in questi giorni stanno protestando in tutta l’America: "Hands Up, Don’t Shoot", mani alzate, non sparate, in riferimento alle testimonianze di chi ha raccontano come Michael Brown avesse le mani alzate nel momento in cui e’ stato ucciso.
Il gesto dei giocatori dei Rams ha scatenato le critiche dei poliziotti della città del Missouri, che si sono detti "profondamente delusi". La ‘St. Louis Police Officers Association’ lo ha definito un atto "offensivo, di cattivo gusto e polemico". Dopo la partita, la polizia in un comunicato ha domandato che i giocatori Jared Cook, Kenny Britt, Stedman Bailey, Chris Givens e Tavon Austin vengano sanzionati per il loro gesto. Inoltre, hanno chiesto scuse pubbliche dalla Nfl, la massima lega professionistica di football americano.
La vicenda di Ferguson non sembra per nulla archiviata. Il presidente Barack Obama ha convocato oggi alla Casa Bianca ben tre incontri. Nel primo pomeriggio, una riunione con membri della sua amministrazione "per discutere programmi federali e finanziamenti per provvedere all’equipaggiamento per le forze dell’ordine statali e locali" per la risposta alle rivolte. Poi un incontro con leader di associazioni per i diritti civili locali e nazionali. Infine, un incontro con funzionari statali, ufficiali delle forze dell’ordine e leader di comunità religiose "per discutere come le comunità e le forze dell’ordine possono lavorare insieme per costruire fiducia con l’obiettivo di rafforzare le comunità in tutto il paese".
Intanto studenti e lavoratori in tutti gli Stati Uniti hanno dato vita al ‘walkout’ (#HandsUpWalkOut‬): una sorta di sciopero nazionale in cui centinaia di migliaia di persone hanno abbandonato le scuole e i luoghi di lavoro prima dell’orario previsto, per protestare contro il proscioglimento dell’agente Darren Wilson (Autore: fabrizio salvatori)

USA
TROPPO VICINI AL PETROLIO
In These Times, Stati Uniti
L’8o per cento del petrolio prodotto in California proviene dalla Central valley. In questa regione le compagnie petrolifere usano la tecnica del fracking da almeno sessant’anni. Il prezzo dei terreni è tra i più alti di tutto lo stato e l’estrazione del greggio ha arricchito per decenni le aziende e i governi locali. Eppure, nella regione ci sono alcune delle contee più povere di tutto lo stato. In These Times racconta le difficili condizioni economiche e di salute di centinaia di migliaia di persone che vivono in prossimità dei pozzi di petrolio della Central valley. "Secondo uno studio dell’organizzazione non profit Fractracker alliance, nelle comunità che si trovano a meno di un miglio dai pozzi di petrolio il livello di povertà è del 32,5 per cento superiore alla media della California". Inoltre, la popolazione che vive vicino ai pozzi è formata al 69 per cento da neri. Infine, due milioni di persone che vivono nel giro di un miglio dai pozzi sono classificate dall’Agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) come le più vulnerabili agli effetti dell’inquinamento causato dai rifiuti industriali, dalle discariche e dalle emissioni tossiche.

USA
Condanna eseguita
Il 3 dicembre il Texas ha eseguito la condanna a morte di Scott Panetti, un detenuto con problemi mentali. Panetti era stato condannato nel 1995 per aver ucciso i genitori di sua moglie. L’uomo era stato dichiarato schizofrenico quando aveva vent’anni e durante il processo i suoi problemi mentali sono stati dimostrati. "Nel 2007", scrive il New York Times, "la corte suprema ha stabilito che per eseguire una condanna a morte c’è bisogno che l’accusato ‘comprenda razionalmente’ il motivo per cui viene ucciso. Ma non ha fissato dei parametri per determinare in quali casi la pena vada sospesa. Non è la prima volta", conclude il quotidiano, "che il Texas usa delle scappatoie per evitare.

CONDANNE A MORTE ESEGUITE NEGLI STATI UNITI
Texas 518, Alabama 56, Oklahoma 111, Georgia 54, , Virginia 110, Ohio 53,
Florida 89, North Carolina 43, Missouri 79, South Carolina 43.

(Le principali fonti di questo numero: NYC Time USA, Washington Post, il Miami Herald , El Espectador (COLOMBIA), Time GB, Guardian The Observer, GB, The Irish Times, Das Magazin A, Der Spiegel D, Folha de Sào Paulo B, Pais, Carta Capital, Clarin Ar, Le Monde, Le Monde Diplomatique, Gazeta, Pravda, Tokyo Shimbun, Global Time, Nuovo Paese, L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi e INFORM, AISE, AGI, AgenParle , RAI News e 9COLONNE".)

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