11452 50. NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 20 nov 2014

20141122 17:19:00 guglielmoz

ITALIA – Dal 2007 l’Italia ha fatto i compitini meglio di tutti ma non è bastato. È il deficit l’arma di ultima istanza? / L’Italia riconosca lo Stato di Palestina – FIRMA ANCHE TU! https://www.change.org/p/l-italia-riconosca-lo-stato-di-palestina
MONDO – Suntzu addio, l’arte della guerra è un missile che fa tutto da solo. Superati i droni, ora tocca alle armi che non hanno bisogno dell’uomo.
EUROPA – L’EUROCRAZIA DI JUNCKER GUARDA ALLA «SUPERCLASS» Quando il 4 novembre scorso dichiarava: «Non sono il capo di una banda di burocrati», il neopresidente della Commissione europea Jean Claude Juncker non stava replicando alle illazioni sulla vigilanza bancaria di qualche pericoloso euroscettico, ma alle spavalde dichiarazioni del premier di un Paese fondatore della Comunità europea / SPAGNA. Izquierda unida e Podemos, si scalda l’alternativa a sinistra / Cambio della guardia al vertice di Iu: Cayo Laro fa spazio ad Alberto Garzón. Pablo Iglesias battezza PodemoS.
AFRICA & MEDIO ORIENTE – PALESTINA/ISRAELE. FERMIAMO LA GUERRA DI RELIGIONE. L’uccisione di cinque israeliani a Gerusalemme il 18 novembre è una tragedia.
ASIA & PACIFICO – HONG KONG. PROVA DI RESISTENZA. Il 19 novembre la polizia di Hong Kong ha sgomberato i principali sit-in del movimento Occupy, compreso quello all’Admirality, il più vicino alla sede del governo, sotto la torre Citic, il cui proprietario ha ottenuto un’ingiunzione del tribunale. Lo stesso provvedimento è stato ottenuto da alcune aziende di trasporto private che si ritengono danneggiate dai sit-in.
AMERICA CENTROMERIDIONALE – URUGUAY. Politiche sociali e redistribuzione del reddito: così il Frente amplio ha costruito il successo alle urne. /
AMERICA SETTENTRIONALE – Usa, il dramma degli homeless: due milioni e mezzo solo i bambini
Il paese più ricco del mondo ha due milioni e mezzo di bambini senza una casa: uno su trenta.
USA – bocciato l’oleodotto dei giacimenti petroliferi. / WASHINGTON. La svolta di Obama
Il presidente Barack Obama userà i suoi poteri presidenziali – quindi scavalcando eventualmente il congresso a maggioranza repubblicana

ITALIA
DAL 2007 L’ITALIA HA FATTO I COMPITINI MEGLIO DI TUTTI MA NON È BASTATO. È IL DEFICIT L’ARMA DI ULTIMA ISTANZA?
Come un criceto che gira senza posa in una ruota. Senza trovare via d’uscita. La situazione attuale dell’Italia non è lontana da questa metafora. Basti pensare che la scure della Commissione europea incombe nuovamente sui conti pubblici italiani. L’Italia, nonostante si avvii a chiudere l’ennesimo anno in avanzo primario di bilancio (che diventa poi deficit includendo gli interessi passivi pagati sul debito) rischia un “early warning” (un’ammonizione). Ma la domanda è, di questo passo dove andrà l’Italia? È evidente che si trova a un bivio: la crescita continua a non arrivare (cinque anni su sette in recessione, di cui tre consecutivi) mentre nello sforzarsi di compiere i compitini europei e rispettando parametri che mezza Europa invece non rispetta continua a pagare dazio sulla crescita, non corroborata da stimoli fiscali.
DOPO LA GRECIA L’ITALIA È IL PAESE CHE HA PAGATO DI PIÙ LA CRISI .
Osservando la crisi dell’Eurozona ad ampio raggio, e cioè dal 2007 (anno in cui sono scoppiati i primi focolai) il quadro che emerge è allarmante. Tra i 18 Paesi dell’Eurozona l’Italia è il Paese che ha perso più di tutti (se si esclude la Grecia che ha visto crollare il Pil reale del 23%): il Pil reale italiano è diminuito dell’8,7% (segue Cipro con -7,5%).
IL PIL NON CRESCE PIÙ MA IL DEBITO SÌ. L’ITALIA È IN UNA SPIRALE DA INCUBO. CHE FARÀ RENZI?
I paesi che hanno reagito peggio alla crisi dell’Eurozona. L’Italia è quello che ha azionato meno la leva del deficit per ripartire
Dai dati si possono ricavare altre considerazioni. Tra i Paesi che sono stati colpiti dagli attacchi speculativi l’Italia è quello che durante la crisi ha fatto meglio di tutti i compitini a casa e cioè é tra quelli che ha generato meno deficit/Pil (26% cumulato dal 2007 al 2014 secondo i calcoli e le stime del Fondo monetario internazionale). Per fare un confronto la Grecia ha generato una spesa a deficit del 65%, l’Irlanda dell’80%, la Spagna del 56%, il Portogallo del 46%. Insomma, i Pigs hanno cercato di rilanciare la crescita utilizzando molto più dell’Italia la leva fiscale (deficit governativo). E anche la Francia (da molti considerato il nuovo malato d’Europa) ha fatto più deficit dell’Italia per reagire alla crisi (38% del Pil).
IN TERMINI NOMINALI IL DEBITO PUBBLICO ITALIANO È CRESCIUTO MENO DI TUTTI
I dati evidenziano un altro spunto di riflessione eclatante, in linea con i precedenti. Dal 2007 lo stock di debito nominale italiano (in termini percentuali) è aumentato del 33%, in linea con l’aumento della Grecia e meno di quello della Germania (+ 34%). Quello irlandese è cresciuto del 332%, quello spagnolo del 166%. Il debito di Cipro è raddoppiato, lo stock a leva del governo francese è cresciuto del 65%. Ciò significa che Italia e Grecia hanno praticato austerità più di tutti gli altri Paesi e l’Italia ancora di più se si considera che nel frattempo ha generato meno deficit della Grecia. Allo stesso tempo, pur facendo aumentare meno di tutti il debito, il debito/Pil italiano è balzato dal 103% del 2007 al 136%. Questo semplicemente perché nel frattempo è crollato il Pil, che è al denominatore e spinge in alto il rapporto. Ancora una volta, leggendo questi numeri, viene da domandarsi: come si fa a spingere quasi esclusivamente su politiche mirate alla riduzione del debito e non su politiche che possano stimolare la crescita del Pil e, di conseguenza, la riduzione del rapporto debito/Pil?
I PIGS RIPARTONO, L’ITALIA NO
Nel 2014 il Pil di Portogallo, Grecia, Spagna e Irlanda crescerà, in particolare grazie al traino delle esportazioni. Per carità, leggendo il dato più in profondità si tratta di una crescita non molto sana (perché nasconde pericolosi squilibri esterni come evidenziato dalla posizione finanziaria netta, dal saldo di partite correnti e dal forte debito privato di questi Paesi, numeri ben peggiori di quelli italiani). Tuttavia il Pil è girato in positivo e dovrebbe incrementare anche nel 2015. Quanto all’Italia, invece, il 2014 si chiuderà ancora in recessione (terzo anno di fila) mentre Moody’s stima per il 2015 una crescita 0. Anche questi numeri richiamano all’interrogativo di fondo: è possibile, alle condizioni attuali e in assenza di una politica monetaria e fiscale europea ad hoc per i singoli Paesi, riprendere la strada della crescita senza allo stesso tempo sfondare, come hanno fatto tutti gli altri Paesi in crisi che sono ripartiti, più deficit di quanto previsto dai trattati? (di Vito Lops con all’interno analisi di Guido Gentili)
http://i.res.24o.it/images2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/2014/03/25/Impresa%20e%20Territori/ImmaginiWeb/italia-euro-olycom-258.jpg?uuid=e2b87e8c-b352-11e3-8675-b48e6d51b10b

ROMA
L’ITALIA INVIA 4 CACCIABOMBARDIERI TORNADO PER LA GUERRA ALL’ISIS / L’Aeronautica militare sta per inviare quattro cacciabombardieri “Tornado” per partecipare alle operazioni della coalizione internazionale anti-Isis in Iraq e in Siria. La notizia giunge dagli Stati Uniti d’America: stamani la rivista specializzata Defensenews, citando il “portavoce del Minitero della difesa italiano”, afferma che i velivoli saranno schierati nella base aerea di Ahmed Al Jaber in Kuwait e “saranno utilizzati solo per missioni di riconoscimento”. Defensenews aggiunge che la ministra Roberta Pinotti avrebbe inviato nei giorni scorsi una lettera al parlamento italiano spiegando che insieme ai “Tornado” giungerà uno staff logistico di 135 uomini dell’Aeronautica italiana. Inspiegabilmente la notizia sulla nuova escalation militare italiana nel complesso scenario di guerra all’Isis non è trapelata in Italia.
In ottobre un velivolo tanker Boeing KC-767-A in dotazione al 14° Stormo dell’Aeronautica di Pratica di Mare (Roma) era stato trasferito nella base aerea di Kuwait City per rifornire in volo i cacciabombardieri della coalizione internazionale a guida Usa impegnati nei bombardamenti in Iraq e Siria. Successivamente in Kuwait sono giunti pure due droni-spia “Predator” del 32° Stormo di Amendola (Foggia), 200 addestratori e 80 “consiglieri” militari, buona parte dei quali sono stati poi trasferiti a Erbil, nel Kurdistan iracheno, per partecipare alle attività addestrative delle unità locali e dei battaglioni dei pershmega curdi.
Il governo italiano ha fatto sapere di aver trasferito alle forze armate irachene un numero imprecisato di cannoni leggeri “Folgore” con munizioni calibro 80mm, prodotto dalla Breda, di proprietà dell’Esercito italiano. Il raggio di tiro di queste armi è di circa 1000 metri che diventano 4,5 km mediante l’impiego di razzi. L’Esercito aveva ordinato 800 sistemi “Folgore”, ma l’arma ha avuto scarsissimi risultati sul campo. Secondo quanto pubblicato dalla Rivista Italiana Difesa (RID), date le grosse dimensioni e la pesantezza del “Folgore”, è stato scarsamente gradito come arma per fanteria, mentre la granata da 80mm non sarebbe in grado di perforare le corazze dei moderni carri armati moderni. Attualmente solo il 4º reggimento Genio guastatori di stanza a Palermo ha in dotazione tale arma. Il 12 settembre scorso, l’Italia ha inoltre inviato a Baghdad un aereo cargo C-130J “Hercules” con a bordo armi leggere per un valore complessivo di 1,9 milioni di euro, incluso 100 mitragliatrici MG 42/59 “Beretta” più 100 treppiedi, 100 mitragliatrici pesanti da 12.7, 250.000 munizioni per ciascuna delle due tipologie di armi, 1.000 razzi RPG 7, 1.000 razzi RPG 9 e 400.000 munizioni per mitragliatrici di fabbricazione sovietica. I 2.000 razzi e le munizioni facevano parte di uno stock di armi sequestrato nel 1994 a bordo di una nave diretta in Serbia e conservate presso un deposito sotterraneo in Sardegna. Le armi sono state consegnate attraverso un ponte aereo per Erbil ai peshmerga curdI. ( INTERNAZIONALE | Autore: Antonio Mazzeo)

ROMA
L’Italia riconosca lo Stato di Palestina
Firma anche tu! https://www.change.org/p/l-italia-riconosca-lo-stato-di-palestina
15 lettere-palestina- Firma per far sentire la tua voce, dai una chance alla pace. Chiediamo al Governo ed al Parlamento italiano di riconoscere formalmente lo Stato di Palestina.
A due anni dal riconoscimento da parte delle Nazioni Unite della Palestina come membro osservatore attraverso un voto plebiscitario (i voti favorevoli sono stati 138, quelli contrari 9 e 41 paesi si sono astenuti) l’Italia non ha fatto nessun passo in questa direzione nonostante le prese di posizione di Svezia, Gran Bretagna, Irlanda, Belgio e della Spagna. Nella classe dirigente italiana al contrario permane l’ambiguità ed una sudditanza verso Israele sempre più incomprensibile di fronte alle continue violazioni della legalità internazionale da parte dello stato ebraico.
Sappiamo bene che il riconoscimento dello Stato di Palestina non è la soluzione del problema. Il popolo palestinese vuole giustizia, indipendenza e diritti, a partire da quello irrinunciabile del ritorno alle proprie case e terre. Sappiamo bene che il riconoscimento non elimina l’occupazione, i muri e le guerre. Ma nello stesso tempo sappiamo che il riconoscimento dello Stato di Palestina può essere uno straordinario strumento di pressione su Israele.
Il governo Renzi faccia la sua parte. L’Italia riconosca subito la Palestina e il Ministro degli Esteri della Commissione Europea, l’italiana Federica Mogherini, si adoperi per recuperare un protagonismo attivo del nostro Paese che non può che poggiarsi sul rispetto delle risoluzioni dell’Onu e sulla giustizia internazionale.
Per questi motivi ci uniamo alle tante realtà che in Italia ed in Europa da tempo chiedono, lavorano e lottano per questo riconoscimento. ( Autore: LiberaRete)

MONDO
SUN TZU ADDIO, L’ARTE DELLA GUERRA È UN MISSILE CHE FA TUTTO DA SOLO
SUPERATI I DRONI, ORA TOCCA ALLE ARMI CHE NON HANNO BISOGNO DELL’UOMO
Le armi del futuro sono state battezzate Fire and forget (Spara e dimentica). Immaginifico e terribile. L’anno scorso al largo della costa meridionale della California un bombardiere B-1 ha lanciato un missile sperimentale che – come scrive John Markoff sul New York Times – potrebbe rivoluzionare l’arte della guerra. Il missile da solo, senza sollecitazioni dei piloti, decise quale imbarcazione colpire tra le tre che, prive di equipaggio, galleggiavano in mare. La guerra non è più quella descritta nei manuali che erano anche trattati di filosofia, come quel-
A OCCHI CHIUSI
lo di Sun Tzu, ma fa ricorso in modo massiccio alle intelligenze artificiali, ai computer e alla tecnologia informatica. I droni vengono azionati a distanza con un joystick manovrato da esperti piloti. Ma ormai pare sia stata varcata l’ultima frontiera: le nuove armi non rispondono all’uomo, ma sono guidate e gestite dall’intelligenza artificiale. È un software che decide quale bersaglio colpire e chi uccidere.
IL TIMORE è che queste armi possano divenire sempre più incontrollabili. Forse la loro precisione potrebbe salvare la vita di numerosi civili, ma non possiamo escludere che l’assenza dell’uomo possa avere l’effetto perverso di moltiplicare il numero dei conflitti. Alcune nazioni utilizzano già una tecnologia che permette a missili e droni di attaccare obiettivi militari senza il diretto controllo dell’uomo. Dopo il lancio, le armi ricevono da speciali software e sensori l’ordine di selezionare il bersaglio e attaccare. Il software è sofisticato e perfettamente in grado di distinguere un autobus civile da un carro armato. Inoltre i missili non “comunicano” con l’uomo. “È già partita la corsa agli armamenti guidati dall’intelligenza artificiale”, spiega Steve Omohundro, fisico ed esperto di intelligenza artificiale della Self-Aware Systems, centro di ricerca di Palo Alto. “Questi armamenti rispondono più rapidamente, in maniera più efficiente e meno prevedibile”. Ma le preoccupazioni sollevate da questa rivoluzione della tecnologia militare non sono poche e ieri a Ginevra si sono riuniti esponenti di moltissimi Paesi che puntano a impedire l’utilizzo di queste armi ai sensi della Convenzione sulle armi convenzionali. Il Pentagono, dal canto suo, ha approvato anni fa una direttiva secondo la quale lo sviluppo di queste armi richiede autorizzazioni al massimo livello della catena di comando militare e politica. Il problema è che la tecnologia va avanti con una velocità tale da aver reso già obsoleta la disposizione.
“Vogliamo sapere chi decide quali sono i bersagli”, dice Peter Asaro, co-fondatore e vicepresidente della Commissione internazionale per il controllo degli armamenti computerizzati. “Sono i sistemi a decidere autonomamente e automaticamente i bersagli da colpire?”.
È L’ULTIMO CAPITOLO di una lunga storia. Già nel 1988 la Marina militare americana testò un missile Harpoon che disponeva di un rudimentale sistema di auto-guida. L’esperimento si concluse tragicamente: il missile invece del bersaglio colpì una nave da carico indiana uccidendo un membro dell’equipaggio. Naturalmente l’incidente fu messo a tacere, ma non la ricerca nel campo dell’intelligenza artificiale al servizio della guerra. Nel 2012 il Pentagono ha approvato un’altra direttiva che distingue tra armi semi-autonome e armi completamente autonome affermando che “le armi del futuro debbono essere progettate in modo da consentire all’uomo di esercitare adeguati livelli di intervento e decisione in ordine all’uso della forza”. E siamo al 2014: il missile testato al largo delle coste della California può coprire centinaia di miglia manovrando autonomamente per evitare i radar e senza alcun contatto radio con la base operativa. Il missile viola la direttiva del Pentagono? “Questi missili sono in grado di operare autonomamente nella ricerca del bersaglio”, risponde Mark Gubrud, fisico della Commissione internazionale per il controllo degli armamenti computerizzati. “Siamo in presenza di intelligenza artificiale e quindi al di fuori del controllo dell’uomo”. Il dibattito tra sostenitori e nemici giurati dei nuovi armamenti è aperto. Scharre, analista militare, non sembra sfiorato dal dubbio: “Armi più intelligenti e precise riducono il numero delle vittime civili e quindi ne vanno incoraggiati lo sviluppo e l’impiego”. ( di Carlo Antonio Biscotto)

EUROPA
PORTOGALLO
LO SCANDALO DEI VISTI
Il 16 novembre il ministro dell’interno portoghese Miguel Macedo (nella foto) si è dimesso in seguito alla scoperta di una rete di corruzione e riciclaggio legata ai cosiddetti visti d’oro, i permessi di residenza concessi agli stranieri che investono o comprano immobili per almeno 50omila euro nel paese. Dall’ottobre del 2012 sono stati concessi più di 1.700 di questi visti, soprattutto a imprenditori cinesi interessati a circolare liberamente nell’area Schengen. Ma secondo Pìiblico "era chiaro fin dall’inizio che la legge avrebbe attirato il denaro sporco. E così abbiamo svenduto la nostra dignità per pochi spiccioli".

EU
L’EUROCRAZIA DI JUNCKER GUARDA ALLA «SUPERCLASS»
QUANDO IL 4 NOVEMBRE SCORSO DICHIARAVA: «NON SONO IL CAPO DI UNA BANDA DI BUROCRATI», IL NEOPRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA JEAN CLAUDE JUNCKER NON STAVA REPLICANDO ALLE ILLAZIONI SULLA VIGILANZA BANCARIA DI QUALCHE PERICOLOSO EUROSCETTICO, MA ALLE SPAVALDE DICHIARAZIONI DEL PREMIER DI UN PAESE FONDATORE DELLA COMUNITÀ EUROPEA.
Quel Matteo Renzi che pochi giorni prima Susanna Camusso aveva etichettato come un’«espressione dei poteri forti», gli stessi evocati da Palazzo Chigi già a settembre. Se dunque i poteri forti sono sempre gli altri, agitare il loro spauracchio, senza ulteriori precisazioni, è inutile o dannoso.
Meno sterile è interrogarsi sui motivi che rendono plausibile descrivere l’Unione come un’implacabile eurocrazia, un triangolo del rigore che ha i suoi vertici a Strasburgo e a Bruxelles, sedi di Parlamento e Commissione europei, e culmina a Francoforte, nel palazzo della Banca centrale. D’altronde, dallo scoppio della crisi in poi, l’Eurobarometro non smette di segnalare il calo di fiducia nelle istituzioni comunitarie.
La loro legittimità è precipitata prima di tutto per una ragione culturale. L’Unione monetaria progettata a Maastricht sull’asse franco-tedesco è figlia di una cultura economica che ha di fatto sacrificato il «modello sociale europeo» sull’altare del modello di sviluppo anglosassone a forte dominante finanziaria. Fatte salve le singole responsabilità dei diversi Stati membri e dei loro governi, il risultato economico e sociale è sotto gli occhi di tutti: recessione dilagante e disuguaglianza senza precedenti tra capitale e lavoro.
Ma l’Unione europea può apparire come un «comitato d’affari» anche per l’intreccio di ragioni istituzionali e geopolitiche. Negli ultimi anni sono venuti al pettine, infatti, i nodi del sistema decisionale stabilito dal Trattato di Lisbona. L’autentico luogo di scelta delle (fallimentari) misure anticicliche non è stato il Parlamento europeo (che rappresenta i cittadini), ma il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo (che rappresenta gli Stati). Due le inevitabili conseguenze: gli interessi della Germania e dei suoi alleati del Nord sono riusciti a prevalere su quelli dell’Europa meridionale e lo scontro tra i Paesi dell’eurozona e quelli aderenti solo all’area di libero scambio ha prodotto una paralisi sulle stesse finalità del processo di integrazione.
LA TERZA RAGIONE della cattiva fama dell’Unione attiene alla sua struttura amministrativa. Questa è cresciuta a dismisura (circa 55 mila i funzionari, considerando i precari e i rappresentanti permanenti degli Stati). Ed è una pia illusione ritenere che la burocrazia abbia la semplice funzione di promuovere l’implementazione delle policies comandate. Così non può essere, per due motivi: complici la selezione concorsuale e, soprattutto, l’inveterata pratica di revolving doors, gli alti funzionari dell’Unione hanno ormai sviluppato un forte senso corporativo, cementato dagli ottimi salari e dalla sensazione di incarnare un élite sovranazionale autonoma; ma il motivo più importante è che la burocrazia concorre in modo essenziale al processo decisionale, e non soltanto nella fase di attuazione ma anche e soprattutto in quella di elaborazione delle politiche pubbliche: è sulla base dei dati forniti dagli uffici competenti, infatti, che può essere adottato un provvedimento anziché un altro.
UNA QUARTA RAGIONE di ostilità nei confronti dell’Unione deriva dalla particolare natura della Banca centrale europea. Pur godendo di un’invidiata autonomia, questa difetta di due funzioni tipiche di qualunque banca centrale: lo statuto non la abilita né a finanziare i deficit degli Stati membri né a fungere da prestatore di ultima istanza. Anomalia per la quale negli ultimi anni Mario Draghi ha potuto sì inondare il mercato di liquidità, ma prestando denaro alle banche con un tasso d’interesse nettamente inferiore a quello indirettamente imposto agli Stati.

FRANCIA
ANCHE IN FRANCIA UNA GRANDE MANIFESTAZIONE CONTRO IL GOVERNO E CONTRO L’AUSTERITÀ
Decine di migliaia di persone hanno manifestato oggi a Parigi e in altre città francesi rispondendo a un appello del collettivo "Alternative A l’Austérité‚", composto da partiti della sinistra radicale, sindacati e associazioni, per "dire no alla politica di austerità del governo" Valls.
Il collettivo ha organizzato una trentina di manifestazioni in varie città del Paese, tra cui Tolosa, Bordeaux e Strasburgo, "contro la manovra finanziaria non efficace", che martedì passerà all’esame del Parlamento. I manifestanti hanno protestato anche contro la "repressione nei confronti dei movimenti sociali, ecologici e cittadini", dopo la morte di Rémi Fraisse, un militante ambientalista ucciso il 26 ottobre negli scontri con le forze dell’ordine nelle proteste contro il cantiere della diga di Sivens, nel Tarn (sud della Francia). Nella capitale il corteo ha riunito 7.500 persone, secondo la polizia, 30 mila stando al Partito di sinistra (Pg). In totale "100 mila persone" sono scese in piazza oggi in Francia, ha aggiunto in una nota la formazione della sinistra radicale. Nel corteo parigino si sono viste sfilare insieme bandiere del Pg, del Partito Comunista francese e del Nuovo Partito anticapitalista. Alla manifestazione hanno preso parte anche responsabili di associazioni femministe, sindacalisti e organizzazioni in lotta contro la disoccupazione. | Autore: fabrizio salvatori

SPAGNA
II 18 novembre l’azienda Repsol ha dato il via alle esplorazioni petrolifere al largo delle isole Canarie, mentre il governo ha bloccato un referendum contro le trivellazioni pre-visto per il 23 novembre

POLONIA
II partito conservatore Diritto e giustizia (Pis, all’opposizione), guidato da Jaroslaw Kaczynski, ha vinto il primo turno delle elezioni amministrative del 16 novembre.

ROMANIA
II 18 novembre il par-lamento ha bocciato, con 193 voti contrari e uno solo a favore, un progetto di legge di amnistia di cui avrebbero beneficiato molti politici.

UNGHERIA
IL GIORNO DELL’INDIGNAZIONE.
Dopo il successo delle manifestazioni di fine ottobre contro la tassa su internet, il 17 novembre circa 25mila persone sono scese in piazza a Budapest per la giornata dell’indignazione contro il governo di Viktor Orbàn. I manifestanti, definiti "nuova opposizione" dal quotidiano Népszabadsàg, hanno chiesto le dimissioni di Orbàn, accusato di voler portare il paese nell’orbita della Russia. Pochi giorni prima diecimila persone avevano chiesto le dimissioni della responsabile dell’agenzia delle entrate Ildikó Vida, che ha ammesso di far parte di una lista di cittadini ungheresi che non possono entrare negli Stati Uniti perché accusati di corruzione.

SERBIA
IL RITORNO DI SESELJ
L’ultranazionalista serbo Vojislav Seselj, detenuto all’Aja dal 2003 e in attesa di giudizio per crimini di guerra, è tornato a Belgrado in libertà provvisoria per motivi di salute. Dopo il suo arrivo Seselj ha partecipato a una manifestazione in suo onore in cui sono stati scanditi cori a favore della Grande Serbia. "Ma a parte i fanatici scesi in piazza", scrive il sito croato HAlter, "l’opinione pubblica serba è rimasta indifferente al ritorno di Seselj, considerato uno dei responsabili degli errori commessi dal paese negli anni novanta".

GEORGIA
Manifestazione a Tbilisi
Il 15 novembre 2014 più di trentamila persone hanno partecipato a una manifestazione a Tbilisi per protestare contro la politica filorussa portata avanti dal presidente Bidzina Ivanishvili, leader della coalizione Sogno georgiano. I manifestanti hanno denunciato in particolare un accordo tra la Russia e la regione separatista dell’Abkhazia, che prevede la creazione di forze militari congiunte. La protesta è stata organizzata dal partito dell’ex presidente Mikheil Saakashvili, che oggi vive negli Stati Uniti. Gli organizzatori, scrive il quotidiano russo Kommersant, "non sono riusciti a coinvolgere altre forze politiche, ma hanno promesso nuove iniziative contro il governo".

UCRANIA
UNO SMACCO PER PUTIN
Quando il presidente russo Vladimir Putin ha lasciato in anticipo il vertice del G20, che si è svolto il 15 e il 16 novembre a Brisbane, i mezzi d’informazione russi si sono interrogati sui motivi del suo gesto. Secondo il sito Sion, "Putin era andato in Australia per rompere il suo isolamento e far capire ai suoi con-nazionali che le relazioni con l’occidente non erano così compromesse. Ma le dure critiche che gli sono state rivolte dai leader occidentali sulla questione ucraina hanno rotto l’incantesimo. Il fatto che Putin abbia lasciato il vertice dopo che il suo staff aveva appena smentito le voci di una partenza anticipata dimostra che non è stato un piano deciso a tavolino, ma una ruga improvvisa causata da questo fallimento diplomatico". Intanto, come scrive il sito Gazeta, il presidente ucraino Petro Porosenko ha ordinato la chiusura dei servizi statali ancora attivi nell’est del paese controllato dai separatisti, sospendendo in particolare il pagamento delle pensioni. "Le autorità ucraine hanno lanciato una guerra economica per convincere gli abitanti dell’est a passare dalla parte di Kiev", conclude Gazeta. Il 16 novembre sei soldati e tre poliziotti sono stati uccisi nella regione di Donetsk.

MEDIO ORIENTE & AFRICA
PALESTINA/ISRAELE
FERMIAMO LA GUERRA DI RELIGIONE. L’uccisione di cinque israeliani a Gerusalemme il 18 novembre è una tragedia. È difficile immaginare come qualcuno possa essere capace di entrare in una sinagoga e sparare a sangue freddo. La tensione nella città, i tentativi dei parlamentari israeliani di visitare la Spianata delle moschee e le provocazioni dei coloni nel quartiere Silwan a Gerusalemme Est non possono giustificare un crimine come questo. Ma la violenza che negli ultimi due mesi è diventata abituale in città solleva molti interrogativi sul comportamento del governo israeliano. Benjamin Netanyahu vuole davvero prevenire il ripetersi di queste tragedie? Interrompere la spirale di sangue tra israeliani e palestinesi è davvero uno dei suoi obiettivi?
Presumendo che sia cosi, è difficile capire perché il premier continui a incolpare il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen per questi atti terroristici. Cosa spera di ottenere ? Vuole calmare le acque o sta sfruttando la tragedia per demonizzare quello che dovrebbe essere il principale interlocutore di Israele? La risposta è arrivata proprio dal governo. Quando il ministro dell’economia Naftali Bennett definisce Abu Mazen "uno dei peggiori terroristi che il popolo palestinese emerge chiaramente: alimentare lo scontro con i palestinesi e sabotare ogni accordo.
In questo contesto le parole di Yoram Cohen, capo del servizio d’intelligence Shin bet, assumo¬no un’importanza particolare. Cohen ha negato che Abu Mazen sia responsabile per le violenze, spiegando che il presidente palestinese "non ha interesse nel terrore e non lo sta alimentando, nemmeno di nascosto". Cohen ha invece indicato l’uccisione dell’adolescente palestinese Mohammed Abu Khdeir a luglio come una delle principa¬li cause degli scontri a Gerusalemme, insieme agli ultimi incidenti sulla Spianata delle moschee. Inoltre ha chiesto moderazione, sottolineando che "il conflitto sta assumendo una preoccupante dimensione religiosa". L’opinione professionale di Cohen contraddice Netanyahu e i suoi ministri. La loro politica è un atto di enorme irresponsabilità nei confronti dei cittadini. Che i loro motivi siano ideologici o elettorali, queste persone stanno mettendo in pericolo la popolazione. (da Ha’aretz, Israele)
ISRAELE
TERRORE A GERUSALEMME
Il 18 novembre quattro rabbini e un poliziotto sono morti in un attacco contro una sinagoga del quartiere di Har Nof a Gerusalemme Ovest. I due attentatori, che sono stati uccisi dalla polizia, erano palestinesi di Gerusalemme Est. "Prendersela con i fedeli in preghiera crea un pericoloso precedente", scrive An-shel Pfeffer su Ha’aretz. Il giorno dopo le autorità israeliane hanno demolito la casa del palestinese che il 22 ottobre aveva investito dei pedoni israeliani, uccidendone due. Secondo Nahum Barnea, commentatore di Yedioth Aharonot, "l’attacco alla sinagoga segna la fine di dieci anni di relativa calma

DA RAMALLAH
VENTÌCINQUE ORFANI
"Venticinque bambini sono diventati orfani in un istante". La frase – una sintesi efficace dell’attentato del 18 novembre contro una sinagoga di Gerusalemme – è stata pronunciata da uno dei fedeli il giorno dopo l’attacco, quando le macchie di sangue erano state cancellate dai pavimenti e dalle scale dell’edificio. I padri uccisi sono quattro ebrei ortodossi stranieri (tre statunitensi e un britannico). Un altro uomo, un poliziotto druso, è morto il giorno dopo a causa delle ferite Dopo il loro arrivo in Israele, i quattro ebrei uccisi si erano stabiliti in una strada di Har Nof, un quartiere nato nel posto dove prima sorgeva il villaggio palestinese di Deir Yassin. I due attentatori, i cugini Ghassan e Uday Abu Jamal, vivevano invece a Jabal Mukkaber, un quartiere di Gerusalemme Est che ha perso gran parte dei suoi terreni per l’espansione degli insediamenti ebraici. Come tutti i pa Dopo il loro arrivo in Israe¬le, i quattro ebrei uccisi si era¬no stabiliti in una strada di Har Nof, un quartiere nato nel po¬sto dove prima sorgeva il vil¬laggio palestinese di Deir Yassin. I due attentatori, i cugini Ghassan e Uday Abu Jamal, vi¬vevano invece a Jabal Mukkaber, un quartiere di Gerusa¬lemme Est che ha perso gran parte dei suoi terreni per l’espansione degli insedia¬menti ebraici. Come tutti i palestinesi, Ghassan e Uday Abu Jamal sapevano che a Gaza ci sono strade dove i bambini rimasti orfani sono ben più di venticinque. E, come tutti i palestinesi di Gerusalemme, vivono in libertà vigilata nella loro stessa città. Gli immigrati ebrei hanno molti più diritti di loro.
La maggior parte dei palestinesi di Gerusalemme non intraprende questo cammino sanguinario, ed è contraria agli attentati. Ma condivide la rabbia e la disperazione che ha portato i due cugini ad assassinare degli ebrei disarmati che stavano pregando in una sinagoga ( Da Ramallah Amira Hass)

SIRIA-IRAQ,
LA FERITA DIERBIL
Un attentato suicida contro la sede del governatorato di Erbil, il 19 novembre, ha causato almeno quattro morti. Il capoluogo del Kurdistan iracheno era stato finora al riparo dalla minaccia dall’organizzazione Stato islamico. Nei giorni precedenti il gruppo jihadista aveva pubblicato un video che mostrava la decapitazione dell’ostaggio Peter Kassig, un cooperante statunitense rapito in Siria nel 2013

TUNISIA
LA BATAILLE DE CARTHAGE
"Il 23 novembre i tunisini sono chiamati alle urne per eleggere il capo dello stato. Per la prima volta l’elezione presidenziale sarà democratica, trasparente e a suffragio universale diretto", scrive Jeune Afrique, ricordando che gli ex presidenti Habib Bourguiba e Zine el Abidine Ben Ali furono quasi sempre candidati unici. L’attuale presidente Moncef Marzouki è stato nominato nel 2011 dall’assemblea costituente. Tra i 27 candidati il favorito è Béji Caid Essebsi, 87 anni, leader di Nidaa Tounes, il partito laico che ha vinto le legislative del 26 ottobre. Essebsi è stato più volte ministro in vari governi dell’epoca di Bourguiba. La sua vittoria potrebbe essere facilitata dal fatto che Ennahda, il secondo partito del paese, non presenterà nessun candidato e ha scelto di non dare indicazioni di voto. Questa libertà potrebbe spingere i suoi elettori a votare per Marzouki, il cui partito ha subito una dura sconfìtta alle ultime elezioni. Tra gli outsider Jeune Afrique cita Hamma Hammami, 62 anni, esponente del Fronte popolare, partito della sinistra radicale. Per i suoi sostenitori Hammami è il "Lula tunisino". ( JEUNE AFRIQUE TUNISIE )

LIBIA
Almeno 356 persone sono morte a Bengasi dal 15 ottobre, quando il generale Khalifa Haftar ha lanciato un’offensiva contro le milizie islamiche che controllano la città

BAHREIN
II 22 novembre si svolgeranno le elezioni legislative boicottate dall’opposizione.

COSTA D’AVORIO
II 18 novembre centinaia di soldati hanno mani-festato in varie città per chiedere il pagamento degli stipendi arretrati.

BURKINA FASO
COMINCIA LA TRANSIZIONE
Michel Kafando è entrato in carica il 18 novembre co-me presidente di transizione in Burkina Faso. Kafando, 72 anni, è stato a lungo l’ambasciatore alle Nazioni Unite. Il giorno dopo il colonnello Isaac Zida, che aveva preso il potere all’inizio di novembre dopo la fuga dell’ex presidente Blaise Compaoré, è stato nominato primo ministro. Il passo successivo è la scelta dei membri del Consiglio nazionale di transizione, che avrà il potere legislativo, scrive l’Observateur Paalga. Le elezioni si svolgeranno a novembre del 2015.

ASIA & PACIFICO
GIAPPONE
Il 18 novembre il primo ministro giapponese Shinzó Abe ha annunciato il rinvio dell’aumento dell’iva, previsto per l’ottobre del prossimo anno, e le elezioni anticipate per metà dicembre. Abe ha dichiarato che il voto permetterà all’opinione pubblica di giudicare la sua decisione. Secondo gli ultimi dati il pil del Giappone ha perso l’i,6 per cento su base annua, uno scenario molto peggiore rispetto a quanto previsto. Il declino del pil ha certamente provocato uno shock. Ma se l’aumento dell’iva dev’essere rinviato, basterebbe emendare la legge che lo prevede, e l’opposizione è disposta a collaborare. Il governo invece ha deciso di andare immediatamente alle urne. È inevitabile pensare che abbia delle motivazioni nascoste. Alzare le tasse è una scelta dolorosa per i cittadini e i loro rappresentanti. Se l’aumento dell’iva sarà l’unico argomento della campagna elettorale, gli elettori saranno meno motivati a votare contro la decisione del primo ministro. Se Abe ne è consapevole e vuole comunque che l’opinione pubblica si esprima, non può sfuggire all’accusa di essere un populista. Nei recenti dibattiti sul segreto di stato e sull’ampliamento del ruolo dell’esercito Abe non ha nemmeno finto di chiedere l’opinione dei cittadini, anche se erano in gioco la libertà di espressione, il pacifismo e altri valori sanciti dalla costituzione. Dopo aver rifiutato agli elettori la possibilità di esprimersi su argomenti così importanti, Abe li invita ora a esprimersi sul rinvio di un impopolare aumento dell’iva. La politica è sempre una lotta per il potere, ma la mossa di Abe è chiaramente al servizio dei suoi interessi.
Nei prossimi mesi il governo giapponese dovrà affrontare questioni ancora più complesse, come la riattivazione delle centrali nucleari spente dopo il disastro di Fukushima e la partecipazione agli interventi militari all’estero. Prima di affrontare il dibattito su questioni così delicate, perché non portare a casa un bel risultato elettorale per garantirsi un nuovo mandato di quattro anni che gli dia mano libera? È questo che Abe ha in mente, e gli elettori devono saperlo ( di Asahi Shimbun, Giappone)
TOKYO
LA SFIDA DI OKINAWA
IL 17 novembre Takeshi Onaga, candidato governatore contrario al ricollocamento della base statunitense di Futenma, ha vinto le elezioni locali a Okinawa contro il governatore uscente Hirokazu Nakaima. La presenza militare americana sull’isola, che ospita più del 60 per cento delle basi nel paese, è da sempre un tema centrale alle urne. Anche Nakaima era stato eletto dopo una campagna incentrata sull’opposizione alle basi ma poi, in cambio di contributi economici per Okinawa, ha dato il suo assenso all’accordo di Tokyo e Washington, che prevede lo spostamento della base di Futenma nel nord dell’isola e non la sua chiusura, come vuole la maggioranza della popolazione. "La volontà degli abitanti di Okinawa va rispettata", scrive il Ryukyu Shimpo.

COREA DEL NORD
I/ONU CONTRO PYONGYANG
Il comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha chiesto che il Consiglio di sicurezza deferisca la Corea del Nord alla Corte penale internazionale. La mozione presentata dal comitato dev’essere ancora approvata dall’assemblea generale e si fonda sul rapporto dell’Orni pubblicato a febbraio. Basato sulle testimonianze di nordcoreani fuggiti dal loro paese, il documento parla di "atrocità indicibili" e violazioni dei diritti umani che "superano tutte le altre per durata, intensità e orrore". Al Consiglio di sicurezza, però, la Cina molto probabilmente opporrà il suo veto

HONG KONG
PROVA DI RESISTENZA
Il 19 novembre la polizia di Hong Kong ha sgomberato i principali sit-in del movimento Occupy, compreso quello all’Admirality, il più vicino alla sede del governo, sotto la torre Citic, il cui proprietario ha ottenuto un’ingiunzione del tribunale. Lo stesso provvedimento è stato ottenuto da alcune aziende di trasporto private che si ritengono danneggiate dai sit-in. I manifestanti da più di 50 giorni chiedono libere elezioni e conte-stano la riforma elettorale concessa da Pechino. La pratica delle occupazioni ha perso presa tra la popolazione, scrive Mingpao. Ma per il quoti-diano di Hong Kong, se il movimento continuerà a ignorare gli altri cittadini, rischierà di essere marginalizzato. Nella notte tra il 17 e il 18 novembre, poche ore dopo gli sgomberi fino a quel momento eseguiti senza resistenza, gruppi di manifestanti a volto coperto hanno tentato l’assalto alla sede del consiglio legislativo scontrandosi con la polizia. L’episodio è stato immediata-mente condannato dai rappresentati del movimento Occupy. "Le campagne di disobbedienza civile implicano che ognuno si prenda le proprie responsabilità e non metta a rischio gli altri manifestanti", ha detto all’Apple Daily Joshua Wong, leader del movimento studentesco che anima la protesta.

BIRMANIA
II 18 novembre il presidente del parlamento ha annunciato che non si potrà cambiare la costituzione prima delle elezioni del 2015. Aung San Suu Kyi non potrà quindi candidarsi.

INDIA
II 13 novembre la polizia ha arrestato il chirurgo R.K. Gupta, che aveva operato 15 donne morte durante una sterilizzazione di massa nello stato del Chhattisgarh.

INDONESIA
II presidente Joko Widodo ha annunciato il 17 novembre un aumento del 30 per cento del prezzo della benzina.

AFGHANISTAN
GHANÌ IN VÌSITA A ISLAMABAD
Il 14 novembre il presidente afgano Ashraf Ghani è arrivato in Pakistan per una visita di due giorni, la prima visita ufficiale nel paese da quando ha assunto l’incarico a settembre. Uno degli scopi principali del viaggio era parlare di sicurezza. Lungo il confine tra i due paesi, infatti, trovano rifugio i taliban, che secondo Kabul hanno il sostegno di alcuni settori dell’esercito pachistano. Per questo, oltre all’incontro con il primo ministro Nawaz Sharif, Ghani è andato al quartier generale militare di Rawalpindi per un faccia a faccia con il capo dell’esercito, Raheel Sharif. È stata questa la
tappa più importante della visita, scrive Dawn, sottolineando la centralità del Pakistan per la stabilità afgana. Dall’incontro è emersa la necessità di un meccanismo congiunto per rispondere a eventuali minacce e favorire la cooperazione in tema di sicurezza e difesa. Ma si è di-scusso anche di altro. Un giorno prima di Ghani, infatti, a Islamabad è arrivato il suo ministro delle finanze, Omar Zakhilwal, che con il suo collega pachistano Ishaq Dar ha concordato di aumentare da 2,5 a 5 miliardi di dollari il volume dello scambio commerciale tra i due paesi nei prossimi 2-3 anni. In realtà, scrive Dawn, se si tiene conto di quelli illegali, che ammonterebbero a circa 2 miliardi, gli scambi commerciali superano già i 5 miliardi di dollari.

PAKISTAN
SERVIZI SOCIAI AL COLLASSO
SCUOLA IN CRISI, MALNUTRIZIONE, POLIOMIELITE E TERRORISMO: IL PAKISTAN HA PROBLEMI URGENTI DA RISOLVERE MA IL GOVERNO NON FA NESSUNO SFORZO PER AFFRONTARLI.
IL governo del primo ministro Nawaz Sharif sta affrontando una crisi politica ed economica, e alcuni dati recenti sottolineano le condizioni precarie de i servizi sociali del paese. L’esecutivo sembra ignorare le lacune croniche nel settore della sanità, dell’istruzione e dell’amministrazione. Quando affronta questi temi pubblicamente lo fa per negarne le cause e gli effetti, e per zittire i giornalisti che lo criticano.
Secondo il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite il 44 per cento dei pachistani soffre di malnutrizione, nel 15 per cento dei casi in maniera acuta, e di conseguenza 11 milioni di bambini sotto cinque anni soffrono di disturbi della crescita. Islamabad non ammette il problema, causato principalmente non dalla carenza di viveri ma dal costo elevato dei prodotti
alimentari. Per questo nelle province del Sindh e del Belucistan ci sono stati disordini che potrebbero diffondersi nella provincia cerealicola del Punjab. Le stesse regioni sono colpite anche da una siccità sempre più grave che, senza misure per gestire le eccedenze di acqua e le inondazioni nella stagione dei monsoni, minaccia di lasciare all’asciutto vaste aree nei prossimi decenni. L’assenza di acqua nel sistema di canali del Punjab, costruito all’epoca dell’impero anglo-indiano, sta già impoverendo la produzione alimentare nella regione.
CAMPAGNA DISASTROSA. Intanto la campagna del Pakistan per prevenire la diffusione della poliomielite che colpisce i neonati è stata definita "disastrosa" dalla Global polio eradication initiative, creata con l’obiettivo di sradicare la malattia a livello globale. Nel rapporto pubblicato il 26 ottobre, l’organizzazione definisce il Pakistan "il principale ostacolo allo sradicamento della poliomielite nel mondo" e il Centro per le operazioni di emergenza del governo "un capolavoro di oscurità". Quest’anno nel paese ci sono stati 217 casi di poliomielite, l’85 per cento del totale nel mondo: si tratta della più alta incidenza degli ultimi 14 anni. Inoltre, 64 addetti alle vaccinazioni sono stati uccisi dai taliban contrari alla campagna, un segnale dell’inadeguatezza della protezione offerta dalle forze di sicurezza. L’Organizzazione mondiale della sanità teme che, se il Pakistan non prenderà provvedimenti, si spenderà più per isolare il paese dal resto del mondo e prevenire la diffusione del virus che per debellare la malattia. Tuttavia, per più di un anno il governo ha taciuto le dimensioni del disastro e ha tenuto nascosti i dati al parlamento e ai mezzi d’informazione, accusando la comunità internazionale di esagerare la portata della minaccia.
Nel frattempo, 25 milioni di bambini continuano a non andare a scuola, il numero più alto al mondo. Secondo un nuovo rapporto di Alif Ailaan, un’organizzazione per la promozione dell’istruzione, tra i bambini che si iscrivono a scuola solo uno su sei finisce il biennio di scuola superiore e metà si ritira dopo le elementari. Inoltre le condizioni delle scuole sono pessime, senza acqua corrente, bagni e aule.
VIOLENZA IN AUMENTO. C’è stato un preoccupante aumento del livello di violenza contro le minoranze, culminato il 4 novembre con l’uccisione di una coppia cristiana da parte di una folla inferocita per delle presunte dichiarazioni blasfeme. È poi emersa una versione più prosaica dei fatti: la coppia doveva dei soldi al datore di lavoro, che si è voluto vendicare. Molte delle campagne sociali, come quella antipolio e quella per il controllo delle nascite, non hanno successo perché sono minacciate dai terroristi. Tuttavia, senza una strategia di tolleranza zero con¬tro il terrorismo da parte del governo centrale è impossibile avviare qualsiasi tipo di azione contro gli estremisti. Da quando è stata annunciata a febbraio, non si è più sentito parlare della Strategia nazionale per la sicurezza interna, che avrebbe dovuto fare da perno della campagna antiterrorismo. L’assenza di una chiara strategia da parte del governo ha provocato un fallimento ancora maggiore delle politiche sociali e della loro attuazione.
Ahmed Rashid è un giornalista e scrittore pachistano che vive a Lahorf. Il suo ultimo libro è Pakistan on the brink. The Future of America, Pakistan and Afghanistan (Penguin Booksioij. Ahmed Rashid, Bbc, Regno Unito)

AMERICA CENTRO-MERIDIONALE
URUGUAY
Politiche sociali e redistribuzione del reddito: così il Frente amplio ha costruito il successo alle urne.
L’Uruguay è sempre stato lì, quasi schiacciato tra Argentina e Brasile, con il suo mate, il carnevale, la murga e Montevideo, bagnata da un lungomare chilometrico. Il mondo raramente si è accorto dell’esistenza di questo piccolo e tranquillo paese sudamericano. INTERNAZIONALE | Autore: Nadia Angelucci
Le luci della ribalta lo hanno illuminato quando ha battuto il Brasile nella finale dei Campionati Mondiali del 1950 gettando nella disperazione i tifosi carioca; quando un giornale spagnolo, nel 2012, ha raccontato del suo presidente- Pepe Mujica il presidente più povero del mondo-, quando ha legalizzato la cannabis. La scorsa settimana, in contemporanea con il secondo turno delle elezioni politiche e presidenziali in Brasile, si è aperto il processo elettorale che dovrà eleggere un nuovo governo per gli uruguayani; Mujica, il presidente più povero del mondo, si appresta a cedere la fascia presidenziale al suo successore e queste elezioni sono anche occasione di bilanci, per il suo governo e per il Frente Amplio, la coalizione che lo sosteneva. A una settimana dalle elezioni politiche e presidenziali, in Uruguay si fanno i conti con i risultati delle urne e ci si proietta verso la campagna elettorale per il secondo turno di ballottaggio che si svolgerà il 30 novembre. Le previsioni che vedevano il Frente Amplio, coalizione di centro sinistra che presenta Tabaré Vázquez medico oncologo già presidente del paese dal 2005 al 2010, in difficoltà e annunciavano un avanzamento delle destre e in particolare del Partido Nacional sono state smentite dai dati emersi dalle votazioni. Il Frente Amplio che ha governato il piccolo paese sudamericano negli ultimi 10 anni, ha conquistato il 47,8% dei voti ottenendo così una maggioranza dei seggi nei due rami del Parlamento che gli permetterà, in caso di vittoria al ballottaggio, di governare senza dover ricorrere ad accordi con altre formazioni. Il suo diretto sfidante, il Partido Nacional, ha raccolto il 30,9% dei consensi e malgrado l’appoggio dichiarato per il ballottaggio del terzo classificato, Partido Colorado (12,9%) non sembra impensierire la coalizione di centro sinistra. A meno di grandi stravolgimenti, che dovrebbero verificarsi durante questo mese, i giochi sembrano già fatti. Voci che si rincorrono nelle ultime ore parlano addirittura di appelli al Partido Nacional proponendogli di non presentarsi neanche al secondo turno e di dare così la vittoria ‘a tavolino’ al Frente.
Il risultato di questa tornata elettorale, che ricalca a grandi linee quello delle passate elezioni del 2009, non era così scontato. Nelle ultime settimane di campagna elettorale le maggiori agenzie di rilevamento elettorale attribuivano alla coalizione di centrosinistra un dato tra il 40 e il 42%, e l’impossibilità di raggiungere una maggioranza parlamentare che aveva messo in fibrillazione la compagine del Frente. Le accuse di non vigilare abbastanza sulla sicurezza dei cittadini, la proposta di militarizzazione della Polizia, l’aumento delle tasse e le critiche per i disservizi, principalmente nelle aree della salute e dell’educazione, portate avanti da Luis Lacalle Pou del Partido Nacional sembravano aver fatto breccia nella cittadinanza e si paventava un pareggio tra il Frente e gli altri due partiti che avrebbero quindi potuto soffiargli presidenza e maggioranza in Parlamento. In più il Frente sembrava aver perso consistenti blocchi di voti a sinistra a favore delle formazioni più radicali come Unidad Popular e il PERI – Partido Ecologista Radical Intransigente.
Le elezioni di domenica scorsa hanno sconfessato queste previsioni e adesso in Uruguay ci si domanda come ciò sia potuto accadere. Sotto accuse le agenzie di rilevamento dati che avrebbero ‘sbagliato’, a detta di molti consapevolmente, con il chiaro tentativo di confondere l’elettorato. E si parla del consolidamento di una ingerenza nelle strategie pubblicitarie e nella costruzione e manipolazione della volontà popolare che assedia e accerchia la polis e distoglie l’attenzione dai temi più importanti. Ma gli osservatori più attenti avevano già provato a smentire i sondaggi sulla base delle presenze alle manifestazioni finali della campagna elettorale che, a fronte di qualche centinaia di presenti per il Partido Nacional, rivelavano una folla di centinaia di migliaia di persone alla chiusura di campagna del Frente.
D’altro canto una certa disaffezione tra gli elettori del Frente era davvero percepibile. E le critiche più forti arrivavano dai settori della sinistra più radicale. Con la designazione di Tabaré Vázquez quale candidato della coalizione di centrosinistra il programma di governo è rapidamente scivolato verso il centro rispetto a quello del 2008 che accompagnò Pepe Mujica, presidente uscente, alle elezioni del 2009. E alcuni settori più critici affermano che l’unico vincitore di queste elezioni sarà, in ogni caso, il sistema capitalista che si destreggia senza grandi problemi tra la destra conservatrice del Partido Nacional e la socialdemocrazia perfettamente inserita nel sistema del Frente Amplio. Poche sarebbero, per questi critici, le voci interne al Frente discordi rispetto a questa impostazione: qualche candidato del Partido Socialista e la compagine che fa riferimento a Constanza Moreira, sfidante di Vázquez alle primarie del giugno scorso, che però sembra più interessata alla questione dei diritti civili che a concentrarsi in un orizzonte di cambiamento di modello economico.
Il Frente si è presentato a queste elezioni dopo aver governato l’Uruguay per dieci anni consecutivi ed è arrivato a quest’appuntamento forte di una serie di misure, e di una congiuntura economica, che hanno restituito all’Uruguay, travolto nel 2001 dalla crisi della vicina Argentina, una certa tranquillità economica e sociale: l’economia pur rallentando continua a crescere, i piani di emergenza sociale hanno tirato fuori dall’indigenza migliaia di famiglie, riforme dell’orario di lavoro degli operai rurali e delle colf testimoniano un’attenzione verso le fasce più deboli, investimenti nel campo della salute pubblica (anche se continuano ad esserci delle criticità) hanno elevato la qualità dei servizi, l’introduzione di un imposta progressiva sui redditi permette di attuare politiche di redistribuzione, l’accoglienza di profughi provenienti da paesi in guerra come la Siria, per non parlare delle leggi sui diritti civili – Interruzione Volontaria di gravidanza, matrimoni tra persone dello stesso sesso, legalizzazione della cannabis.
Capitolo a parte la presidenza Mujica, che sta attraversando la sua fase finale, e che, con i suoi tratti anticonformisti e profondamente umani ha segnato gli ultimi cinque anni sia a livello interno che internazionale guadagnandosi una certa autorità morale.
La stessa che alcuni analisti negli ultimi giorni attribuiscono al Frente Amplio scomodando addirittura Antonio Gramsci e il suo pensiero per parlare del Frente come di una forza culturale e morale prima ancora che politica. E spiegare così il risultato inatteso di domenica scorsa. Ma se, come dichiarava Gramsci, l’egemonia si definisce come l’autorità ideologica e culturale di una classe sociale sull’altra che permette un cambiamento rivoluzionario, è evidente che tale egemonia deve essere una tappa che precede il cambiamento, capace di favorire le condizioni per una trasformazione. Ma il Frente Amplio è davvero interessato a questa trasformazione, ad un modello alternativo? Lo diranno i prossimi cinque anni.
*giornalista, autrice insieme a Gianni Tarquini del volume "Il presidente impossibile. Pepe Mujica, da guerrigliero a capo di Stato".

BRASILE
SANPAOLO. NUOVI ARRESTI PER PETROBRAS.
Il 14 novembre la polizia brasiliana ha arrestato diciotto persone nell’ambito dell’inchiesta sullo scandalo di corruzione che ha coinvolto l’azienda petrolifera statale Petrobras. Tra le persone arrestate ci sono dirigenti di alcune aziende edili accusati di pagare tangenti per assicurarsi contratti redditizi con la compagnia petrolifera. Il 16 novembre la presidente Dilma Rousseff ha dichiarato che "lo scandalo Petrobras cambierà per sempre i rapporti tra la società, lo stato e le imprese private", scrive Carta Capital. "Non è il primo scandalo della storia del paese", ha aggiunto la presidente che si trovava in Australia per il summit del G20, "ma è il primo della nostra storia su cui si sta svolgendo un’indagine ac-curata e questo avrà un ruolo chiave sugli altri processi per corruzione". Secondo la Folha de Sào Paulo, "alcuni investitori stranieri potrebbero congelare i progetti nel paese fino a quando le acque non si saranno calmate".

COLOMBIA
SOSPESO IN COLOMBIA ILPROCESSO DI PACE
La responsabilità non è mai delle vittime: questa è una certezza. Il 16 novembre le Forze rivoluzionarie armate della Colombia (Fare) hanno sequestrato il generale dell’esercito Ruben Dario Alzate Mora nel dipartimento di Chocó, nell’ovest del paese. Il 5 novembre, nel dipartimento di Cauca, hanno ucciso due guardie indigene che protestavano per la violazione del loro territorio. Il gruppo guerrigliero è anche responsabile del sequestro di due soldati nel dipartimento di Arauca all’inizio di novembre. La colpa di questi fatti è solo delle Fare. Sembra un’affermazione ovvia, ma dopo decenni di conflitto c’è chi finisce per dare la colpa alle vittime.
Dal 16 novembre, quando il presidente Juan Manuel Santos ha annunciato la sospensione dei colloqui di pace con le Fare che avrebbero dovuto ricominciare due giorni dopo all’Avana, molti sottolineano l’imprudenza del generale. Perché si trova-va senza scorta su una lancia sul fiume Atra-to, nel dipartimento di Chocó? Perché era entrato senza scorta in una zona controllata dalla guerriglia insieme al caporale Jorge Rodriguez e all’avvocata Gloria Urrego, coordinatrice dei progetti speciali dell’esercito nel dipartimento? Sono domande legittime, che però non devono farci perdere di vista il fatto che le Fare hanno sequestrato tre persone. Nell’aprile del 2012 avevano promesso di non commettere mai più que¬sto reato. Il generale è stato imprudente, ma il sequestro è inaccettabile.
AMMISSIONE DI COLPA
Lo stesso vale per l’omicidio dei due indigeni nel dipartimento di Cauca. Il comandante Rodrigo Londono Echeverri, anche noto come Timochenko, crede che anche in que-sto caso i due indigeni abbiano commesso un’imprudenza. Per il numero uno delle Fare le guardie, innervosite per chissà quale motivo, hanno preteso che i guerriglieri ri-muovessero un manifesto con l’immagine di Alfonso Cano, l’ex capo delle Fare morto nel 2011. " I guerriglieri non hanno ubbidito e a quel punto le guardie li hanno aggrediti, cercando di arrestarli. I miliziani si sono al-lontanati e le guardie indigene li hanno in-seguiti. Nel corso di una lotta corpo a corpo sono partiti gli spari che hanno provocato la morte delle due guardie".
La guerriglia non ha capito che ogni azione criminale mina la fiducia del paese nel processo di pace. E se il processo procede troppo a rilento, la pace diventa irraggiungibile. I colloqui sono cominciati due anni fa e in questo periodo ci sono stati dei progressi reali. I negoziatori hanno raggiunto l’accordo su tre dei cinque punti in discussione. Ma in questo stesso periodo le Fare hanno dato prova di un cinismo offensivo. Per esempio hanno trattato con disprezzo il generale della polizia Luis Mendieta Ovalle durante l’incontro all’Avana. Non hanno voluto riconoscere che l’ufficiale, sequestrato dal 1998 al 2010, era una vittima. Non solo non gli hanno chiesto scusa, ma lo hanno accusato di essere l’unico responsabile dei fatti. Nel caso di Clara Rojas, l’avvocata sequestrata nel 2001 insieme alla candidata alla presidenza Ingrid Betancourt, le offese sono stati umilianti. Anche stavolta le Fare non hanno riconosciuto che era una vittima e hanno sostenuto che avesse insistito lei per restare nella selva. Non voleva abbandonare Betancourt, "responsabile del sequestro a causa della sua imprudenza".
Questi avvenimenti e la sospensione dei negoziati sono per le Fare l’occasione di assumersi le proprie responsabilità. Se ammettono le loro colpe e non ripetono gli stessi reati, sarà più facile costruire una pace duratura. Altrimenti la Colombia resterà intrappolata nella violenza.
DA SAPERE
Ultime notizie / Dopo essersi inizialmente dichiarate all’oscuro dei fatti, il 18 novembre le Fare hanno confermato il sequestro del generale colombiano Ruben Dario Alzate Mora, del caporale Jorge Rodriguez e dell’avvocata Gloria Urrego, rapiti il 16 novembre. "Una volta identificati anche se erano in abiti civili", hanno spiegato le Fare, "i tre sono stati catturati in quanto nemici che, nell’esercizio delle loro funzioni, si muovevano in una zona di guerra". Riguardo al presidente Juan Manuel Santos, che ha sospeso il processo di pace, le Fare hanno dichiarato: "Senza un cessate il fuoco bilaterale, quelle che lui chiama regole del gioco non possono valere solo per lo stato".

AMERICA SETTENTRIONALE
USA, IL DRAMMA DEGLI HOMELESS: DUE MILIONI E MEZZO SOLO I BAMBINI / IL PAESE PIÙ RICCO DEL MONDO HA DUE MILIONI E MEZZO DI BAMBINI SENZA UNA CASA: UNO SU TRENTA. Sono i numeri shock che riguardano gli Stati uniti. Ad elaborare i dati è stato il National Center on Family Homelessness, che ha reso noti i risultati dello studio "America’s Youngest Outcasts". Nel 2013 si è raggiunto un numero record di minori senza tetto, che è destinato ad aggravarsi nel tempo. I dati mostrano infatti che la povertà infantile è cresciuta dell’8% in un anno, dal 2012 al 2013, con la California maglia nera. Tra le cause, il peggioramento delle condizioni economiche dopo la grande crisi, la mancanza di alloggi alla portata di tutti (soprattutto nelle grandi città) e anche una violenza tra le pareti domestiche sempre più diffusa. Secondo Carmela DeCandia, direttrice del National Center on Family Homelessness, il governo federale finora si è preoccupato di limitare i danni nei confronti della popolazione adulta. "Lo stesso livello di attenzione e risorse – ha specificato – non è stato invece messo nell’aiutare le famiglie e i loro bambini. In termini economici e umani, pagheremo un alto prezzo per questo".
Secondo lo studio, i livelli di povertà infantile raggiunti possono avere effetti devastanti sia sullo sviluppo educativo, sociale e emotivo degli stessi bambini, sia sui loro genitori e la loro capacità di esercitare quella funzione. California, Alabama e Mississippi sono gli stati “canaglia”.
La situazione più drammatica è in California. La culla della tecnologia registra un costo della vita elevato e poche case a prezzi ragionevoli. E il governo locale non sembra molto concentrato sul problema. I rifugi sono affollati da famiglie che non possono permettersi una casa. E anche quando vengono distribuiti incentivi per cercare un alloggio spesso non si riesce a trovare un posto per vivere. "I proprietari – ha spiegato Kathleen Baushke, direttrice del ricovero Transition House a Santa Barbara – non sono disposti a mettere una famiglia di quattro persone in un appartamento di due stanze perch‚ possono trovare facilmente un single professionista che la prenda in affitto". Occorre quindi, a detta degli studiosi, incrementare il numero di abitazioni economiche, aumentare il salario minimo e le opportunità di lavoro per i genitori senza tetto e potenziare i servizi per quelle madri che hanno perso un tetto a causa della violenza domestica.
Anche a New York la situazione non è delle più rosee. Il dramma dei senzatetto fa salire la tensione nei principali parchi della citta’, scelti come aree di abitazioni provvisorie. Dopo un decennio in cui il numero di senza tetto per le strade della citta’ è calato, scendendo del 25%, quest’anno si e’ assistito a un aumento del 6%, per un totale di 3.357 senza tetto. A questi si vanno ad aggiungere il numero record di senza tetto che vivono nei rifugi e ricoveri pubblici: sono 57.676. L’aumento dei senza tetto per le strade si e’ tradotto in una maggiore tensione con le comunita’ locali, soprattutto quelle vicino ai parchi pubblici.
LA STORIA DI ARNOLD ABBOTT, un attivista novantenne che da20 anni combatte per i senza tetto, è emblematica delle grosse contraddizioni con le quali gli Usa devono fare i conti per tentare di uscire da questa situazione. Abott è stato accusato, e condannato, dalle autorità di aver violato un’ordinanza della città che vieta di condividere cibo in pubblico con le persone senza fissa dimora.
Abbott ha fondato un’organizzazione no-profit in onore di sua moglie Maureen, morta 23 anni fa in un incidente stradale. "Ho cercato di aiutare quante più persone povere ho potuto – ha detto il 90enne, gioielliere in pensione cresciuto a Filadelfia -. Quando ho perso Maureen, ho pensato che il miglior tributo era creare una organizzazione a suo nome". USA | Autore: fabio sebastiani
USA
STATI UNITI
BOCCIATO L’OLEODOTTO DEI GIACIMENTI PETROLIFERI
Il 18 novembre il senato ha boc-ciato il disegno di legge sulla costruzione dell’oleodotto Keystone XL, che secondo i piani dovrebbe partire da Hardisty, in Canada, e arrivare fino al Nebraska per poi collegarsi a un oleodotto già esistente che raggiunge il golfo del Messico. È stata decisiva l’opposizione del Partito democratico, che controlla ancora il senato (il nuovo senato a maggioranza repubblicana si insedierà a gennaio). Il progetto, spiega il New York Times, è contestato dalle comunità di nativi americani che vivono nel nord degli Stati Uniti e dagli ambientalisti, secondo cui l’oleodotto comporterebbe l’aumento dell’estrazione delle sabbie bituminose in Canada, causando gravi danni Ambientali.
Usa
La svolta di Obama
Il presidente Barack Obama userà i suoi poteri presidenziali – quindi scavalcando eventualmente il congresso a maggioranza repubblicana- per legalizzare la posizione di milioni di persone che vivono e lavorano negli Stati Uniti, ma non hanno i documenti in regola. La Casa Bianca farà ricorso a un ordine esecutivo per concedere permessi di lavoro a chi si trova nel paese da almeno cinque an-ni e ai genitori di bambini nati negli Stati Uniti. "In questo ca-so", spiega il Washington Post, "a beneficiare del provvedimento sarebbero cinque degli undici milioni di immigrati che in questo momento rischiano di essere espulsi dal paese". Obama ha dichiarato che la sua scelta è dovuta all’incapacità del congresso di approvare una ri-forma dell’immigrazione. Il Partito repubblicano ha contestato duramente il presidente. I conservatori, che da gennaio controlleranno anche il senato, potrebbero rispondere sfidando Obama sull’approvazione del bilancio.
Persone che risiedono negli Stati Uniti senza documenti, milioni
USA
LE RADICI DI FERGUSON
Il 17 novembre Jay Nixon, il governatore del Missouri, ha dichiarato lo stato d’emergenza. Le autorità temono l’esplosione di scontri violenti se il grand jury dovesse decidere di non rinviare a giudizio Darren Wilson, l’agente bianco che il 9 agosto ha ucciso a Ferguson Michael Brown, un nero di diciotto anni. Per questo nelle ultime settimane ci sono state trattative tra i leader della protesta e la polizia per fare in modo che le manifestazioni rimangano pacifiche. Su American Prospect, Richard Rothstein ricostruisce le discriminazioni che hanno portato alla segregazione in cui vive oggi la comunità nera della contea di St. Louis, dove si trova Ferguson. Secondo Rothstein, per più di un secolo i neri sono stati vittime di politiche che avevano come obiettivo quello di tenerli lontani dai bianchi e dalle opportunità economiche. Basti pensare all’approvazione di piani urbanistici che relegavano i neri in sobborghi e quartieri isolati che col passare degli anni si sono trasformati in ghetti con un alto livello di violenza. O alle leggi sul lavoro che hanno negato ai neri la possibilità di accedere a impieghi paragonabili a quelli dei bianchi. ( American Prospect)

(Le principali fonti di questo numero:
NYC Time USA, Washington Post, Time GB, Guardian The Observer, GB, The Irish Times, Das Magazin A, Der Spiegel D, Folha de Sào Paulo B, Pais, Carta Capital, Clarin Ar, Le Monde, Le Monde Diplomatique ,Gazeta, Pravda, Tokyo Shimbun, Global Time, Nuovo Paese , L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi e INFORM, AISE, AGI, AgenParle , RAI News e 9COLONNE".)

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