11398 CGIL, oltre un milione in piazza a Roma

20141026 11:57:00 redazione-IT

Un milione. O forse più. Lo dice dopo l’una anche l’organizzazione della Cgil. La stessa che fino a pochi minuti prima aveva con­fer­mato di non voler dare numeri. Ma il rag­giun­gi­mento dell’asticella messa così in alto pro­prio da Mat­teo Renzi ieri è come una libe­ra­zione per il sin­da­cato rosso. Che in forma ano­nima si lascia andare all’esultanza: «Ce l’abbiamo fatta», «esi­stiamo ancora» e soprat­tutto «Renzi deve fare i conti con noi». Il cal­colo dei par­te­ci­panti è quasi impos­si­bile. A chi era in una piazza San Gio­vanni, come dimo­strano le foto dall’alto, piena come un uovo, andreb­bero som­mati i tan­tis­simi che hanno desi­stito ad arri­varci.

All’una e un quarto — ben quat­tro ore dopo la par­tenza pre­vi­sta — c’erano ancora per­sone che sta­vano lasciando piazza Ese­dra. Anche nell’altro cor­teo pro­ve­niente da Ostiense, e che arriva a piazza San Gio­vanni da sopra, tan­tis­sime per­sone deci­dono di non sot­to­porsi alla stret­toia della strada, ridotta in lar­ghezza per le tran­senne. Il tappo che si crea fa pro­ce­dere tutti len­ta­mente e arri­vare in piazza per molti diventa una pro­ces­sione laica.

Il tutto è acca­duto nono­stante la gior­nata di ieri pas­serà alla sto­ria sin­da­cale per essere stata la prima in cui un cor­teo sia par­tito in largo anti­cipo. Davanti alla sta­zione Ter­mini e nella vicina piazza Ese­dra la folla aveva già riem­pito tutto lo spa­zio pos­si­bile ben prima delle nove. L’organizzazione ha così deciso di far par­tire la testa del cor­teo gui­data da Susanna Camusso con più di mezz’ora d’anticipo. Si scende per via Cavour di buon passo. Tanto che la Rete stu­denti medi — tan­tis­simi, vera sor­presa della mat­ti­nata — devono rin­cor­rere per pren­dersi la posi­zione a loro dedi­cata, appena dopo la testa del cor­teo. Men­tre Camusso e Lan­dini si spo­stano all’altro cor­teo, l’avanguardia arriva a piazza San Gio­vanni. Sono le dieci. Se le pre­senze non fos­sero «molto oltre le aspet­ta­tive», a quest’ora di solito si doveva ancora partire.

L’infinito ser­pen­tone rosso è uno spet­ta­colo per gli occhi. È ani­mato da per­sone di tutte le età. Si va dai tre anni di Gabriel — che è venuto con mamma e i due fra­telli Andrea (11 anni) e Gio­vanni (14) da Tor­ritto, pro­vin­cia di Bari — e del suo pas­seg­gino agli 86 di Rita, che da Fro­si­none a piazza San Gio­vanni è arri­vata in tempo per sedersi su una delle pan­chine di marmo sul lato della chiesa. Lei fa parte dei tanti dello Spi, la mac­china da guerra gui­data da Carla Can­tone, che ieri ave­vano deciso di sfi­lare con la pet­to­rina «Largo ai giovani».

Il nome più get­to­nato però è quello di Marta. La mamma citata da Renzi nel video della pic­cata rispo­sta alla Camusso che lo para­go­nava alla That­cher è diven­tato pro­ver­biale. Le magliette con il suo nome spo­po­lano. Sono aran­cioni quelle delle stu­den­tesse medie, bian­che quelle con l’hashtag #aidi­rit­ti­non­si­cam­bia­verso, la stessa che Susanna Camusso sfog­gerà per il suo discorso dal palco.

La «Marta» della Cgil aveva par­lato un’ora prima. Non si trat­tava — anche se in verità non tutti l’hanno capito — della stessa ragazza citata da Renzi, ma di un’omonima con una sto­ria simile. «Ciao Mat­teo sono Marta, so che sei impe­gnato alla Leo­polda ma avrai 5 minuti per sen­tire la mia sto­ria», attacca dal palco. Si chiama Marta Alfieri ed è una lavo­ra­trice delle Poste, ini­zial­mente — e que­sta è un’altra sor­presa — iscritta alla Cisl. Dopo diversi con­tratti pre­cari, Marta fa ricorso alle Poste, gra­zie all’aiuto del sin­da­cato, viene sta­bi­liz­zata e ottiene i diritti che Renzi ora vor­rebbe darle. «Il lavoro non deve essere merce. Ci sono bat­ta­glie che abbiamo l’obbligo di com­bat­tere fino in fondo».

Tan­tis­simi anche i lavo­ra­tori migranti. Spe­cie quelli sta­gio­nali dell’agricoltura e quelli della logi­stica. Gjoka è alba­nese e sfila di fianco a Kumar, che è indiano. Entrambi lavo­rano nei magaz­zini di Pia­cenza, vera capi­tale della logi­stica in Ita­lia, da Ama­zon in giù. «Era­vamo quasi tutti pagati in nero e sfrut­tati. Assieme all’Usb, la Cgil ci ha aiu­tato e abbiamo por­tato avanti uno scio­pero con pic­chetto di un mese», rac­conta Gjoka che dei due se la cava meglio con l’italiano. «L’azienda ha dovuto rico­no­scerci il con­tratto nazio­nale e se prima gua­da­gna­vamo 900 euro al mese, ora arri­viamo anche a 1.400. Lavo­riamo fino a 45 ore a set­ti­mana, ma abbiamo ferie e malat­tie assi­cu­rate. Insomma, gra­zie al sin­da­cato siamo garan­titi. Io dell’articolo 18 ho capito que­sto: il padrone non mi può licen­ziare se mi com­porto bene. Mi sem­bra una cosa nor­male, non vedo per­ché dovreb­bero eli­mi­narlo», dice con fac­cia sorpresa.

Poco dopo arriva in piazza San Gio­vanni anche la dele­ga­zione di Imola, terra di quel Giu­liano Poletti che ora è mini­stro del Lavoro, inven­tore del decreto che ha libe­ra­liz­zato i con­tratti a ter­mine e che dovrà scri­vere for­mal­mente la delega in bianco del Jobs act. Basta pro­fe­rire il nome Giu­liano e la rea­zione è istan­ta­nea. «A uno che ti ha dato da man­giare e man­gia con te da 30 anni non puoi voler­gli male», rac­conta Andrea, 52enne lavo­ra­tore edile che di roma­gnolo ha anche l’aria sba­raz­zina. «Per noi Poletti rimane sem­pre una per­sona spe­ciale, però è anche vero che pro­prio per que­sto non dovrebbe trat­tarci così: toglierci quei diritti che in qual­che modo lui stesso ci ha fatto godere, assi­cu­ran­doci un lavoro sicuro», spiega tenendo lo stri­scione della Fil­lea Imola.

La vera star dei cor­tei è indi­scu­ti­bil­mente Mau­ri­zio Lan­dini. Quasi a volersi distin­guere, il lea­der dei metal­lur­gici della Cgil que­sta volta ha optato per la felpa nera grif­fata Fiom. A chi gli fa notare la cosa, risponde che «la scritta è rossa e comun­que io sono rosso 365 giorni l’anno». Viene scor­tato dal ser­vi­zio d’ordine ma non rie­sce a fare più di dieci metri senza essere fer­mato. Chi gli stringe la mano, chi vuole fare una foto con lui. La pazienza è una dote acqui­sita per il reg­giano Lan­dini. Si ferma, sor­ride e non dice mai di no. Alla fine chi gli sta vicino stima in 150 le foto e almeno 300 le strette di mano. Fra que­ste non ci sarà Cele­ste, 64 anni da Ver­celli che si è fatta fare una maglietta rossa per­so­na­liz­zata: “Io sto con Lan­dini”. «Mi è costata 10 euro e l’ho fatto per­ché lui è l’unica per­sona seria rima­sta». Le foto più sen­tite sono con gli ope­rai della Ast di Terni, per Ste­fano che ha par­lato dal palco: con loro indossa anche il caschetto azzurro dell’acciaieria di pro­prietà Thyssen.

I sor­risi però lasciano poi spa­zio alla pre­oc­cu­pa­zione per quella che sta diven­tando «una nuova Pomi­gliano»: l’azienda gui­data dalla taglia­trice di teste Lucia Mor­selli — che l’altra notte si è pre­sen­tata al pre­si­dio «pro­vo­cando per farsi menare, ma noi siamo stati più intel­li­genti e ce ne siamo andati» — pro­pone 80mila euro per andar­sene e molti stanno accet­tando, lasciando i col­le­ghi a lot­tare senza armi con­tro la dismissione.

Lasciati i suoi ope­rai, Lan­dini abbrac­cia Ser­gio Cof­fe­rati. Il sipa­rietto diventa comico quando i due si intrat­ten­gono con la dele­ga­zione Ig Metall in visita in Ita­lia, ospite della Fiom Emi­lia Roma­gna: «Pensa, un cinese che parla con dei tede­schi, è il futuro del mondo», dice Lan­dini fra le risate. La discus­sione si fa seria quando si parla di scio­pero dei metal­mec­ca­nici: «Se Renzi non ci ascolta sarà ad ini­zio dicem­bre», spiega a Cof­fe­rati che annuisce.

Per l’annuncio di quello dell’intera Cgil basterà atten­dere le parole di Susanna Camusso. Il suo comi­zio è tenuto con tutto il gruppo dri­gente — una qua­ran­tina fra segre­tari con­fe­de­rali, di cate­go­ria e regio­nali — sul palco. Lan­dini è in disparte sulla sini­stra. Ma applaude con­vinto. La Cgil c’è ed è unita. Ed è una buona notizia.

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[b]Il capitale della sinistra[/b]
[i]di Norma Rangeri[/i]

Tutta mia la città. Forse è que­sta la bella sen­sa­zione che hanno pro­vato le cen­ti­naia di migliaia di per­sone arri­vate ieri nella capi­tale da ogni dove d’Italia. Per­ché c’erano loro, con i canti, gli slo­gan, i sor­risi, i balli, le parole d’ordine, i “cor­doni”, i mega­foni. E intorno il silen­zio di una città serena, anche “com­plice”. Non diremo che è stata una bel­lis­sima gior­nata di sole, né che Roma ha rice­vuto come se niente fosse un popolo immenso. Que­sto lo sanno già tutti per­ché per­sino le tv più filo-renziane hanno dovuto arren­dersi di fronte all’evidenza dei fatti: una mani­fe­sta­zione sin­da­cale, di ragazze e di nonni, di stu­denti e di pre­cari, di lavo­ra­tori e di mili­tanti, di immi­grati e par­tite Iva che ha invaso gio­io­sa­mente, paci­fi­ca­mente le strade romane.

Vediamo invece che cosa la piazza della Cgil ha messo davanti agli occhi di tutti gli italiani.

In primo luogo la ric­chezza della rap­pre­sen­tanza. Mille realtà e infi­niti volti del lavoro rac­con­tati dai car­telli delle cate­go­rie, a indi­care la pre­senza del sin­da­cato anche dove non te lo sare­sti aspet­tato (guar­die gialle, peni­ten­zia­rie…). Una con­ferma, con­for­tante, del radi­ca­mento sociale del sin­da­cato con­tro il luogo comune che lo dipinge come la casta dei burocrati.

Per­ché si è mobi­li­tato il lavoro vivo. Vero. E se doveva essere una prova di forza, l’esito di que­sto 25 otto­bre ci dice che è pie­na­mente riu­scita. Nono­stante le cri­ti­che, tal­volta giu­sti­fi­cate, di vetero sin­da­ca­li­smo, di inca­pa­cità di inclu­dere i più gio­vani e i meno garan­titi, di non avere gli stru­menti per coa­gu­lare intorno a se un’opinione forte e in grado di oltre­pas­sare gli stec­cati sin­da­cali, ebbene ieri la Cgil ha dimo­strato che que­sti limiti non hanno modi­fi­cato i sen­ti­menti più pro­fondi e più forti del sin­da­cato italiano.

Ma quella breve distanza che divide Roma da Firenze, ieri è diven­tata abis­sale. Per­ché men­tre Renzi riven­di­cava a sé e alla Leo­polda la forza di creare lavoro (e sten­diamo un velo su chi ha fatto da con­torno alla corte del gio­vane pre­mier che ama gli yesman), ieri a piazza San Gio­vanni c’era la gente che lavora sul serio, e tanta altra gente che il lavoro lo vor­rebbe con­cre­ta­mente, non solo nei pro­grammi e nelle pro­messe. Per­ché men­tre a Firenze lo spon­sor (e finan­zia­tore) di Renzi, il finan­ziere Serra, soste­neva che andrebbe vie­tato lo scio­pero nel pub­blico impiego (ma non si ver­go­gna un po’ il segre­ta­rio del par­tito demo­cra­tico — ripeto: par­tito demo­cra­tico — ad avere simili sup­por­ter?), qui a Roma sfi­la­vano donne e uomini che recla­ma­vano la tutela di un diritto costituzionale.

E’ pos­si­bile che tra i soste­ni­tori (com­presi par­la­men­tari e mini­stri) molti non con­di­vi­dano i valori rap­pre­sen­tati ieri da quella massa enorme di cit­ta­dini ita­liani. Ed è altret­tanto pro­ba­bile che il distacco tra i due mondi (assai poco vir­tuale) non venga col­mato, se non in parte, da quei poli­tici della sini­stra Pd che a fatica cer­cano di tam­po­nare la deriva libe­ri­sta della più grande forza di centrosinistra.

Ora si va verso lo scio­pero gene­rale. Invo­cato dalla piazza che ha alzato il volume dell’applausometro quando la segre­ta­ria Camusso lo ha evo­cato, insieme alla richie­sta di una patri­mo­niale per gli inve­sti­menti pub­blici. E di fronte all’abbraccio tra Camusso e Lan­dini, di fronte al “par­tito di lotta” che uni­sce tutta la sini­stra del lavoro, Renzi com­met­te­rebbe un grave errore se pen­sasse di cavar­sela con un twit­ter o una bat­tuta. Farebbe meglio a pren­dere atto che ieri, improv­vi­sa­mente — ma non troppo — la parola sini­stra, irrisa e desueta, ha ripreso vita e si è fatta largo in modo pro­rom­pente ricon­qui­stando lo spa­zio sociale, poli­tico, cul­tu­rale che qual­cuno vor­rebbe negarle. Pos­siamo sba­gliarci, ma ven­dendo il cor­teo ci siamo con­vinti che una sini­stra di popolo, con­sa­pe­vole, for­ti­fi­cata dalla capa­cità di resi­stere alla duris­sima prova della crisi, ha ripreso pie­na­mente il suo diritto di cittadinanza.

Fonte: Il Manifesto del 26 ottobre 2014

 

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