20141026 11:57:00 redazione-IT
Un milione. O forse più. Lo dice dopo l’una anche l’organizzazione della Cgil. La stessa che fino a pochi minuti prima aveva confermato di non voler dare numeri. Ma il raggiungimento dell’asticella messa così in alto proprio da Matteo Renzi ieri è come una liberazione per il sindacato rosso. Che in forma anonima si lascia andare all’esultanza: «Ce l’abbiamo fatta», «esistiamo ancora» e soprattutto «Renzi deve fare i conti con noi». Il calcolo dei partecipanti è quasi impossibile. A chi era in una piazza San Giovanni, come dimostrano le foto dall’alto, piena come un uovo, andrebbero sommati i tantissimi che hanno desistito ad arrivarci.
All’una e un quarto — ben quattro ore dopo la partenza prevista — c’erano ancora persone che stavano lasciando piazza Esedra. Anche nell’altro corteo proveniente da Ostiense, e che arriva a piazza San Giovanni da sopra, tantissime persone decidono di non sottoporsi alla strettoia della strada, ridotta in larghezza per le transenne. Il tappo che si crea fa procedere tutti lentamente e arrivare in piazza per molti diventa una processione laica.
Il tutto è accaduto nonostante la giornata di ieri passerà alla storia sindacale per essere stata la prima in cui un corteo sia partito in largo anticipo. Davanti alla stazione Termini e nella vicina piazza Esedra la folla aveva già riempito tutto lo spazio possibile ben prima delle nove. L’organizzazione ha così deciso di far partire la testa del corteo guidata da Susanna Camusso con più di mezz’ora d’anticipo. Si scende per via Cavour di buon passo. Tanto che la Rete studenti medi — tantissimi, vera sorpresa della mattinata — devono rincorrere per prendersi la posizione a loro dedicata, appena dopo la testa del corteo. Mentre Camusso e Landini si spostano all’altro corteo, l’avanguardia arriva a piazza San Giovanni. Sono le dieci. Se le presenze non fossero «molto oltre le aspettative», a quest’ora di solito si doveva ancora partire.
L’infinito serpentone rosso è uno spettacolo per gli occhi. È animato da persone di tutte le età. Si va dai tre anni di Gabriel — che è venuto con mamma e i due fratelli Andrea (11 anni) e Giovanni (14) da Torritto, provincia di Bari — e del suo passeggino agli 86 di Rita, che da Frosinone a piazza San Giovanni è arrivata in tempo per sedersi su una delle panchine di marmo sul lato della chiesa. Lei fa parte dei tanti dello Spi, la macchina da guerra guidata da Carla Cantone, che ieri avevano deciso di sfilare con la pettorina «Largo ai giovani».
Il nome più gettonato però è quello di Marta. La mamma citata da Renzi nel video della piccata risposta alla Camusso che lo paragonava alla Thatcher è diventato proverbiale. Le magliette con il suo nome spopolano. Sono arancioni quelle delle studentesse medie, bianche quelle con l’hashtag #aidirittinonsicambiaverso, la stessa che Susanna Camusso sfoggerà per il suo discorso dal palco.
La «Marta» della Cgil aveva parlato un’ora prima. Non si trattava — anche se in verità non tutti l’hanno capito — della stessa ragazza citata da Renzi, ma di un’omonima con una storia simile. «Ciao Matteo sono Marta, so che sei impegnato alla Leopolda ma avrai 5 minuti per sentire la mia storia», attacca dal palco. Si chiama Marta Alfieri ed è una lavoratrice delle Poste, inizialmente — e questa è un’altra sorpresa — iscritta alla Cisl. Dopo diversi contratti precari, Marta fa ricorso alle Poste, grazie all’aiuto del sindacato, viene stabilizzata e ottiene i diritti che Renzi ora vorrebbe darle. «Il lavoro non deve essere merce. Ci sono battaglie che abbiamo l’obbligo di combattere fino in fondo».
Tantissimi anche i lavoratori migranti. Specie quelli stagionali dell’agricoltura e quelli della logistica. Gjoka è albanese e sfila di fianco a Kumar, che è indiano. Entrambi lavorano nei magazzini di Piacenza, vera capitale della logistica in Italia, da Amazon in giù. «Eravamo quasi tutti pagati in nero e sfruttati. Assieme all’Usb, la Cgil ci ha aiutato e abbiamo portato avanti uno sciopero con picchetto di un mese», racconta Gjoka che dei due se la cava meglio con l’italiano. «L’azienda ha dovuto riconoscerci il contratto nazionale e se prima guadagnavamo 900 euro al mese, ora arriviamo anche a 1.400. Lavoriamo fino a 45 ore a settimana, ma abbiamo ferie e malattie assicurate. Insomma, grazie al sindacato siamo garantiti. Io dell’articolo 18 ho capito questo: il padrone non mi può licenziare se mi comporto bene. Mi sembra una cosa normale, non vedo perché dovrebbero eliminarlo», dice con faccia sorpresa.
Poco dopo arriva in piazza San Giovanni anche la delegazione di Imola, terra di quel Giuliano Poletti che ora è ministro del Lavoro, inventore del decreto che ha liberalizzato i contratti a termine e che dovrà scrivere formalmente la delega in bianco del Jobs act. Basta proferire il nome Giuliano e la reazione è istantanea. «A uno che ti ha dato da mangiare e mangia con te da 30 anni non puoi volergli male», racconta Andrea, 52enne lavoratore edile che di romagnolo ha anche l’aria sbarazzina. «Per noi Poletti rimane sempre una persona speciale, però è anche vero che proprio per questo non dovrebbe trattarci così: toglierci quei diritti che in qualche modo lui stesso ci ha fatto godere, assicurandoci un lavoro sicuro», spiega tenendo lo striscione della Fillea Imola.
La vera star dei cortei è indiscutibilmente Maurizio Landini. Quasi a volersi distinguere, il leader dei metallurgici della Cgil questa volta ha optato per la felpa nera griffata Fiom. A chi gli fa notare la cosa, risponde che «la scritta è rossa e comunque io sono rosso 365 giorni l’anno». Viene scortato dal servizio d’ordine ma non riesce a fare più di dieci metri senza essere fermato. Chi gli stringe la mano, chi vuole fare una foto con lui. La pazienza è una dote acquisita per il reggiano Landini. Si ferma, sorride e non dice mai di no. Alla fine chi gli sta vicino stima in 150 le foto e almeno 300 le strette di mano. Fra queste non ci sarà Celeste, 64 anni da Vercelli che si è fatta fare una maglietta rossa personalizzata: “Io sto con Landini”. «Mi è costata 10 euro e l’ho fatto perché lui è l’unica persona seria rimasta». Le foto più sentite sono con gli operai della Ast di Terni, per Stefano che ha parlato dal palco: con loro indossa anche il caschetto azzurro dell’acciaieria di proprietà Thyssen.
I sorrisi però lasciano poi spazio alla preoccupazione per quella che sta diventando «una nuova Pomigliano»: l’azienda guidata dalla tagliatrice di teste Lucia Morselli — che l’altra notte si è presentata al presidio «provocando per farsi menare, ma noi siamo stati più intelligenti e ce ne siamo andati» — propone 80mila euro per andarsene e molti stanno accettando, lasciando i colleghi a lottare senza armi contro la dismissione.
Lasciati i suoi operai, Landini abbraccia Sergio Cofferati. Il siparietto diventa comico quando i due si intrattengono con la delegazione Ig Metall in visita in Italia, ospite della Fiom Emilia Romagna: «Pensa, un cinese che parla con dei tedeschi, è il futuro del mondo», dice Landini fra le risate. La discussione si fa seria quando si parla di sciopero dei metalmeccanici: «Se Renzi non ci ascolta sarà ad inizio dicembre», spiega a Cofferati che annuisce.
Per l’annuncio di quello dell’intera Cgil basterà attendere le parole di Susanna Camusso. Il suo comizio è tenuto con tutto il gruppo drigente — una quarantina fra segretari confederali, di categoria e regionali — sul palco. Landini è in disparte sulla sinistra. Ma applaude convinto. La Cgil c’è ed è unita. Ed è una buona notizia.
——————–
[b]Il capitale della sinistra[/b]
[i]di Norma Rangeri[/i]
Tutta mia la città. Forse è questa la bella sensazione che hanno provato le centinaia di migliaia di persone arrivate ieri nella capitale da ogni dove d’Italia. Perché c’erano loro, con i canti, gli slogan, i sorrisi, i balli, le parole d’ordine, i “cordoni”, i megafoni. E intorno il silenzio di una città serena, anche “complice”. Non diremo che è stata una bellissima giornata di sole, né che Roma ha ricevuto come se niente fosse un popolo immenso. Questo lo sanno già tutti perché persino le tv più filo-renziane hanno dovuto arrendersi di fronte all’evidenza dei fatti: una manifestazione sindacale, di ragazze e di nonni, di studenti e di precari, di lavoratori e di militanti, di immigrati e partite Iva che ha invaso gioiosamente, pacificamente le strade romane.
Vediamo invece che cosa la piazza della Cgil ha messo davanti agli occhi di tutti gli italiani.
In primo luogo la ricchezza della rappresentanza. Mille realtà e infiniti volti del lavoro raccontati dai cartelli delle categorie, a indicare la presenza del sindacato anche dove non te lo saresti aspettato (guardie gialle, penitenziarie…). Una conferma, confortante, del radicamento sociale del sindacato contro il luogo comune che lo dipinge come la casta dei burocrati.
Perché si è mobilitato il lavoro vivo. Vero. E se doveva essere una prova di forza, l’esito di questo 25 ottobre ci dice che è pienamente riuscita. Nonostante le critiche, talvolta giustificate, di vetero sindacalismo, di incapacità di includere i più giovani e i meno garantiti, di non avere gli strumenti per coagulare intorno a se un’opinione forte e in grado di oltrepassare gli steccati sindacali, ebbene ieri la Cgil ha dimostrato che questi limiti non hanno modificato i sentimenti più profondi e più forti del sindacato italiano.
Ma quella breve distanza che divide Roma da Firenze, ieri è diventata abissale. Perché mentre Renzi rivendicava a sé e alla Leopolda la forza di creare lavoro (e stendiamo un velo su chi ha fatto da contorno alla corte del giovane premier che ama gli yesman), ieri a piazza San Giovanni c’era la gente che lavora sul serio, e tanta altra gente che il lavoro lo vorrebbe concretamente, non solo nei programmi e nelle promesse. Perché mentre a Firenze lo sponsor (e finanziatore) di Renzi, il finanziere Serra, sosteneva che andrebbe vietato lo sciopero nel pubblico impiego (ma non si vergogna un po’ il segretario del partito democratico — ripeto: partito democratico — ad avere simili supporter?), qui a Roma sfilavano donne e uomini che reclamavano la tutela di un diritto costituzionale.
E’ possibile che tra i sostenitori (compresi parlamentari e ministri) molti non condividano i valori rappresentati ieri da quella massa enorme di cittadini italiani. Ed è altrettanto probabile che il distacco tra i due mondi (assai poco virtuale) non venga colmato, se non in parte, da quei politici della sinistra Pd che a fatica cercano di tamponare la deriva liberista della più grande forza di centrosinistra.
Ora si va verso lo sciopero generale. Invocato dalla piazza che ha alzato il volume dell’applausometro quando la segretaria Camusso lo ha evocato, insieme alla richiesta di una patrimoniale per gli investimenti pubblici. E di fronte all’abbraccio tra Camusso e Landini, di fronte al “partito di lotta” che unisce tutta la sinistra del lavoro, Renzi commetterebbe un grave errore se pensasse di cavarsela con un twitter o una battuta. Farebbe meglio a prendere atto che ieri, improvvisamente — ma non troppo — la parola sinistra, irrisa e desueta, ha ripreso vita e si è fatta largo in modo prorompente riconquistando lo spazio sociale, politico, culturale che qualcuno vorrebbe negarle. Possiamo sbagliarci, ma vendendo il corteo ci siamo convinti che una sinistra di popolo, consapevole, fortificata dalla capacità di resistere alla durissima prova della crisi, ha ripreso pienamente il suo diritto di cittadinanza.
Fonte: Il Manifesto del 26 ottobre 2014
Views: 9
Lascia un commento