11772 VENEZUELA

20150829 09:29:00 guglielmoz

1 – Viaggio nel piu’ grande impianto pubblico dove si producono telefoni cellulari, uno stabilimento moderno per la qualità dell vita dei lavoratori. Il direttore nominato da Chavez “ facciamo leva qui per modificare l’ambiente intorno”.
2 – L’INCONTRO – Esperienze e prospettive da tutto il mondo. Italia compresa. Potere dell’autogestione, oltre la resistenza
3 – «Non solo welfare, occorre un cambiamento strutturale delle dinamiche produttive e di potere» . Dal parassitismo petrolifero all’economia socialista (INTERVISTA – Rafael Enciso, economista colombiano )

VENEZUELA. – VENEZUELANADE TELECOMUNICACIONES C.A. Una fabbrica Vergataria – Venezuela, fabbrica e compasso.( di Geraldine Colotti)
VIAGGIO NEL PIU’ GRANDE IMPIANTO PUBLICO DOVE SI PRODUCONO TELEFONI CELLULARI, UNO STABILIMENTO MODERNO PER LA QUALITA’ DELL VITA DEI LAVORATORI. IL DIRETTORE NOMINATO DA CHAVEZ “ FACCIAMO LEVA QUI PER MODIFICARE L’AMBIENTE INTORNO”.
Un modello «integrato e sostenibile, gestito dai lavoratori». Così, Akram Makarem, presidente di Vtelca, riassume al manifesto la filosofia della Venezolana de Telecomunicacio-nes. Una fabbrica all’avanguardia nella costruzione di telefonia e cellulari, la più grande del Venezuela. Siamo a Punto Fijo, nella regione di Falcon, penisola di Paraguana. Il Consiglio di fabbrica di Vtelca è stato uno dei promotori del V Incontro internazionale sull’Economia dei lavoratori, che ha riunito rappresentanti di imprese recuperate e autogestite provenienti da ogni parte del mondo. C’era anche il manifesto, anche nella veste di impresa autogestita da gran tempo, e poi recuperata di recente dal collettivo di giornalisti e poligrafici che la produce. E tra i punti del documento finale, che ha sottolineato l’importanza dell’informazione autogestita nella lotta «al latifondo mediatico», si è espressa anche forte solidarietà al nostro giornale, accompagnato nell’incontro da altre due cooperative editoriali autogestite in Argentina, di cui parliamo in queste pagine.
Entriamo in una fabbrica che avanza nel futuro con lo sguardo voltato all’indie-tro, come l’Angelus Novus: l’angelo della storia, qui, suggerisce ancora che «anche la cuoca può dirigere lo stato». Camminiamo fra i reparti, gli operai salutano e spiegano. Akram interviene per fornire dati e cifre. E intanto risponde alle nostre domande. È un quarantenne energico di statura media. La sua famiglia è di origine libanese, «antimperialista da sempre e sempre dalla parte del popolo palestinese». L’8 marzo del 2010, l’allora presidente Chavez lo ha nominato direttore di Vtelca, la cui infrastruttura si estendeva su un perimetro di 4.200 metri quadrati e ora supera i 30mila. Un’impresa pubblica a cui partecipa capitale cinese per poco più del 15%: «Dipendiamo ancora da loro per la fornitura dei materiali – dice il direttore -ma in questa fase stiamo avanzando verso la piena autonomia».
Qui si produce il cellulare Vergatario, da un’espressione popolare che significa «uno in gamba». Riprende il direttore: «Sarebbe molto più economico continuare con le forniture esterne, ma dobbiamo affrancarci dalla storica dipendenza dal petrolio: non per seguire le orme dello sviluppo capitalista, ma per provvedere alle necessità effettive dell’essere umano. A partire dalla fabbrica integrata, che mette al centro la costruzione di nuove relazioni sociali, stiamo promuovendo una visione del mondo alternativa alla cosiddetta efficienza capitalista, basata sulla rapina e la distruzione delle risorse. Produciamo tecnologia sostenibile in base a quel che serve davvero alla comunità. La nostra concezione dello sviluppo non è la stessa che ha preso piede nel cosiddetto primo mondo: per preservare la specie, occorre esercitare un controllo sulla tecnica e sui mezzi per produrla. Per questo non pensiamo solo alla produzione materiale, ma a uno sviluppo integrale dell’essere umano, il più possibile in armonia con la natura».
Vtelca è un laboratorio di nuove relazioni sociali. Entriamo nel reparto riciclaggio. Qui tutti gli scarti e i materiali recuperati vengono trasformati in giocattoli per bambini, in biblioteche o banchi per le scuole, o strutture per i parchi pubblici: non si possono vendere, ma distribuire gratuitamente e l’occasione serve per moltiplicare i corsi su riciclaggio e per far conoscere il nuovo modello. Nella regione, vi è un grande parco eolico che produce energia alternativa.
«Quando ricicliamo – spiega il responsabile per le relazioni produttive, Nil Rodriguez – agiamo anche sul simbolico, creiamo la metafora di un mondo diverso. Inoltre, chiediamo sempre ai lavoratori se vogliono partecipare ai gruppi musicali, alla squadra sportiva, ai corsi di murales o di giornalismo comunitario». Durante l’orario di lavoro? Ma allora è vero quel che dice la destra, che la produzione crolla
quando le fabbriche sono gestite dai lavoratori? Akram Makarem sorride, mostra tabelle e grafici. «Abbiamo scelto di investire sulla qualità della vita, sulla dignità del lavoro e della persona – dice. Non si può star bene in fabbrica se ci sono problemi intorno. Cerchiamo di agire come un compasso: far leva su un punto e agire in circolo, per modificare l’ambiente intorno. Gli operai pianificano la produzione, che ogni anno aumenta. Lavoriamo otto ore al giorno dal lunedì al venerdì, ma se realizziamo la meta anzitempo, compensiamo con tempo libero. Per questo, non abbiamo paura di sospendere la produzione quando c’è una giornata di vendita di quaderni per i figli degli operai, o una vendita di alimenti, una giornata per la salute».
In questi giorni, c’è stata una giornata di autodifesa. La milizia popolare ha mostrato come resistere ai sabotaggi e agli attacchi destabilizzanti. «Stiamo soffrendo una guerra economica da parte delle grandi imprese private che provocano scarsità dei prodotti, ma qui abbiamo un Pdval, una delle catene di distribuzione alimentare del governo», dice il direttore.
Visitiamo anche il resto del complesso industriale. In questa zona c’è una delle cinque più grandi raffinerie di petrolio al mondo, la penisola di Paraguanà custodisce anche un enorme patrimonio in termini di biodiversità ed è una delle mete più frequentate dai turisti. Una Zona economica speciale (Zes) che si estende per 2.687,51 chilometri quadrati e comprende i comuni di Falcón, Los Taques e Carirubana.
Qui si possono comprare prodotti esentasse. Le stesse imprese – la cui partecipazione deve comunque rimanere minoritaria rispetto a quella statale – sono esonerate dalle imposte sulla rendita (Islr) al 100% : a condizione di adeguare il processo produttivo alle esigenze del mercato locale e alle esportazioni. Il secondo anno, se esportano il 70% della produzione, continuano a non pagare le tasse, altrimenti versano il 50% della Islr, e così via per 18 anni. Le compagnie straniere devono comunque lasciare i guadagni nella banca pubblica nazionale per almeno cinque anni e dar conto semestralmente delle attività.
L’anno scorso, sono state istituite altre Zes, una delle quali nel Tachira, alla frontiera con la Colombia, dove più lucroso per le mafie e devastante per l’economia venezuelana è il traffico di prodotti al mercato nero.
Il Venezuela volta pagina nel 2007. Dopo aver assunto il suo secondo mandato, Chavez spinge sul pedale delle nazionalizzazioni: dalla telefonia, al petrolio, dall’elettricità alla banca e alla finanza, dalla siderurgia ad alcune industrie di produzione di alimenti.
Un quadro contemplato dalla costituzione – che comunque tutela anche la proprietà privata – e inaugurato con l’espropriazione del grande latifondo. Un cambiamento che ha già provocato la reazione dei poteri forti e il colpo di stato del 2002, ma che non si è fermato. Un processo basato comunque più su compensazioni che su veri espropri. Nella Faglia dell’Orinoco – una zona di circa 55mila chilometri quadrati che custodisce le più grandi riserve di petrolio al mondo – quasi tutte le multinazionali hanno accettato le compensazioni o le nuove regole per restare sotto l’egida di Pdvsa, la petrolifera statale.
Solo la multinazionale Usa Exxon Mobil è scesa sul piede di guerra e continua il conflitto nei tribunali internazionali o nelle acque dell’Esequibo, una zona contesa tra Venezuela e Guyana. In molti casi, i lavoratori hanno spinto dal basso le decisioni di governo accelerando il processo, come nel caso della Sidor, nazionalizzata nel 2009.
Al contempo, si è andato consolidando un quadro normativo per la creazione di Comunas e Imprese di produzione sociale, e si è dato nuovo impulso alla partecipazione diretta dei lavoratori e delle lavoratrici nella gestione, nella pianificazione e nel controllo della produzione. Ma si apre il conflitto anche all’interno delle fabbriche di stato, dove i consigli operai più combattivi accusano alcuni gerenti di frenare la transizione al socialismo. «Qui assumiamo il dibattito e la contraddizione -dice Akram – ma con spirito costruttivo e senza settarismi».
Su questi temi, nel V incontro intemazionale di Punto Fijo, il dibattito teorico si è trasferito nel confronto diretto con le diverse esperienze concrete. «Da noi – spiega Jesus Gomez, del Movimento proletari uniti di Falcon – l’intento è quello di trasferire la gestione delle risorse direttamente nelle mani del popolo organizzato, per depotenziare dall’interno le strutture del vecchio stato borghese: perché il vecchio tarda a morire e il nuovo fa ancora fatica a nascere».
William Godeyo, argentino che fa parte del movimento popolare Patria grande, ha osservato dall’interno lo sviluppo delle Comunas. Per tre anni, una brigata di 45 compagni ha tenuto corsi in varie comunità, appoggiati dal ministero delle Comunas e da quello di Planificacion. «Si tratta di un processo di costruzione comunale dal basso – spiega – basato sulla federazione di diversi consigli comunali che, dopo essersi registrati, organizzano un proprio parlamento, decidono di cosa ha bisogno la comunità. Spesso tutto si mette in moto con l’occupazione di edifici o terreni abbandonati, che poi vengono recuperati dal governo e restituiti ai cittadini. Abbiamo partecipato a progetti di costruzione autogestita di case popolari, che prevedono anche lo sviluppo di unità produttive per garantire l’economia partecipata sul territorio».
Adesso siamo in una sala di Vtelca in cui troneggiano grandi manifesti e murales: da una parte i padri storici del marxismo, dall’altro quelli delle indipendenze latinoamericane e l’omaggio agli indigeni e ai primi schiavi ribelli che qui hanno costruito le prime «repubbliche libere». Akram mostra un’altra parte dei progetti dedicata ai bambini: un percorso ludico perché imparino a conoscere il lavoro in fabbrica fin da piccoli «e a impadronirsi della tecnologia».
Un’operaia sale sul palco, spiega il percorso di conoscenza che ha portato la fabbrica a questo livello. «Crediamo nel pensiero di genere e nel ruolo propulsivo della donna nel socialismo boliviariano», approva il direttore. E cede la parola all’operaio Pacheco, che arriva sorretto da un bastone. A Vetelca, i diversamente abili dicono la loro «e parte della tecnologia prodotta viene modificata per rendere più agevole la loro condizione». Poi, si canta e si balla con le canzoni di Ali Primera, a cui la zona ha dato i natali.

2 – L’INCONTRO – ESPERIENZE E PROSPETTIVE DA TUTTO IL MONDO. ITALIA COMPRESA. POTERE DELL’AUTOGESTIONE, OLTRE LA RESISTENZA (Ge. Co.)

Operai, giornalisti, accademici, movimenti sociali… Tante le voci a confronto nel V Incontro internazionale dell’Economia delle lavoratrici e dei lavoratori, che si è svolto a Punto Fijo, in Venezuela, a fine luglio. Per cinque giorni, in uno spazio aperto e plurale, completamente autogestito e autofinanziato, donne e uomini provenienti dai cinque continenti hanno raccontato la loro esperienza: sfide, analisi e risposte alla crisi strutturale del capitalismo. Brendan Martin è arrivato da Chicago, dove gli operai hanno recuperato una fabbrica di porte e finestre, trasformata nella cooperativa autogestita New Era Windows: con la loro tenacia e anche grazie al supporto internazionale della Ong The Working World, che aiuta le imprese recuperate a reperire fondi.
Rappresentanti delle università autonome di alcune città del Messico, hanno parlato di nuove forme di sindacalismo e della lotta degli studenti, pagata a caro prezzo. E hanno ricevuto la solidarietà dei partecipanti, espressa nel documento finale. «Un testo aperto che risponde allo spirito dell’incontro, unitario ma non dogmatico, e mette le basi per il prossimo confronto interazionale, fra due anni», spiega l’antropologo argentino Andres Ruggeri. Si deve al lavoro del programma che dirige alla Facoltà Aperta di Buenos Aires l’idea di questo ciclo di incontri interazionali, iniziato in Venezuela su invito di Hugo Chavez, nel 2005.
«Abbiamo cominciato a lavorare con le imprese recuperate dopo la grande crisi del 2001 – dice ancora Ruggeri – con una visione più politica che accademica. Vogliamo capire come può l’economia dei lavoratori autogestita essere un’alternativa vera al sistema capitalistico». Pur rimanendone all’interno e senza cambiamenti di sostanza nella struttura dello stato? «Questa, appunto, è la grande discussione. All’inizio, occupare è stata una strategia di sopravvivenza alla crisi. Ora, c’è chi pensa, insieme a una parte del governo, che le cooperative possono trasformarsi in imprese ed essere assorbite dal sistema, diventarne funzionali. Bisogna guardarsi dalle astrazioni inutili. La realtà è quella del sistema di accumulazione capitalista, che a un certo punto può arrivare a distruggere queste nuove esperienze. Ma, intanto, si crea una nuova coscienza, si prefigurano nuove forme economiche. Dall’esperienza pratica si produce anche teoria. L’idea base dell’incontro è questa: riflettere su quel che sta nascendo e non sui massimi sistemi. Non a caso, la proporzione fra accademici e operai, che prima era di 80 a 20, ora si è invertita».
Fra i temi dell’incontro, anche quello del lavoro precario, informale o servile. Un’alternativa concreta la sta costruendo la rete Cestara, in Argentina, che federa cooperative e piccole imprese augogestite, composte da figure che non hanno rappresentanza sindacale né un vero statuto amministrativo. Per loro, ha parlato Rodolfo, raccontando anche l’esperienza di un bar alternativo chiamato «Lo de Nestor»: Ne-stor che sta per Nestor Kirchner, «il presidente che, per primo, ci ha dato una grossa mano e ha lasciato la sua impronta indelebile nel paese»
Dall’Italia, hanno partecipato rappresentanti della fabbrica recuperata di Milano RiMaflow e delle Officine Zero di Roma. Ma sono arrivati a Punto Fijo anche dalla Francia, dalla Spagna, dall’Olanda. Dalla Grecia non ce l’hanno fatta, ma alla resistenza del popolo greco e a quella dei kur-di, il documento finale ha espresso solidarietà. Solidarietà anche alla piccola ciurma del manifesto, che ha condiviso il tavolo sull’informazione alternativa con due esperienze di media autogestiti in Argentina: La Musa, di Rosario, raccontata da Manolo Robles, e El Diario del Centro del Pais, a Cordoba, diventato Diario de Villa Maria dopo la piccola-grande avventura del recupero della testata a opera dei suoi lavoratori. Con precisione e poesia, Sergio Staccherò, giornalista e documentarista, ha raccontato l’esperienza nel film El barquito de papel, che ha già ricevuto premi e menzioni in America latina.

3 – «NON SOLO WELFARE, OCCORRE UN CAMBIAMENTO STRUTTURALE DELLE DINAMICHE PRODUTTIVE E DI POTERE» . DAL PARASSITISMO PETROLIFERO ALL’ECONOMIA SOCIALISTA (INTERVISTA – Rafael Enciso, economista colombiano )

L’ economista colombiano Rafael Enciso ha appena finito il suo intervento e accetta di rispondere alle nostre domande. Del suo paese conosce bene l’esperienza del Sector Cooperativo Agropecuario, in particolare il lavoro organizzato delle cooperative del caffè. Come studioso e militante di vari movimenti, ha accompagnato per 25 anni i tentativi – sempre naufragati – di portare a soluzione il conflitto armato che dura da oltre 50 anni. Dopo il fallimento dei dialoghi di pace, nel 2002, ha dovuto lasciare la Colombia -paese altamente pericoloso per l’opposizione sociale – e vive da nove anni in Venezuela. Adesso è consulente al ministero del Lavoro e si occupa di imprese recuperate. In uno dei suoi saggi analizza «Gli insegnamenti del modo di produzione sovietico per il socialismo del secolo XXI in Venezuela». L’alternativa alla crisi sistemica del capitalismo – lei scrive – implica una rottura profonda, un nuovo ordine internazionale a carattere multipolare e un nuovo modello produttivo basato sul controllo operaio e comunitario. Come si può costruire questa alternativa in un’economia ancora così basata sulla rendita petrolifera come quella venezuelana? In questa fase di transizione, in cui l’impalcatura dello stato borghese continua a esistere, occorre articolare un sistema di contrappesi per poterlo trasformare dal basso sotto la spinta del potere popolare. Penso si possa sviluppare un modello di gestione multipla e socialista determinato dalla partecipazione dei diversi soggetti organizzati. La prima è quella dei lavoratori organizzati in consigli, nelle imprese e nelle istituzioni; la seconda è quella dei consigli comunali e delle comuni, e riguarda la costruzione del governo nei territori; la terza è quella dei consigli dei produttori e distributori di materia prima -pescatori, contadini -, che non sono salariati ma si possono organizzare e partecipare alla gestione della società. E poi c’è lo stato, che deve adeguarsi, trasformarsi e agire come un attore in più, come fattore di coordinamento e di articolazione, non di centralizzazione egemonica. Questo meccanismo di controllo serve a impedire che una parte prevalga sull’altra, che si sviluppino interessi parassitari e burocratici, ma si impieghino le energie per pianificare un’economia del bene comune basata sugli interessi collettivi.
Uno degli ostacoli principali è l’assenza di ima cultura del lavoro, determinata dal poco sviluppo industriale, produttivo e agricolo. Per tutto il corso del XX secolo, i governi hanno puntato sull’estrazione e l’esportazione del petrolio. Durante gli anni del neoliberismo selvaggio (tra gli ’80 e il ’90), anche quei settori dell’economia che avevano raggiunto un certo sviluppo sono stati distrutti. Quando Cha-vez vince le elezioni, nel 1998, trova un paese in ginocchio in cui, a fronte degli elevati indici di povertà estrema si è sviluppata un’economia formale di sussistenza. Da un altro lato, proliferano forme di delinquenza endemica e di criminalità organizzata legata al narcotraffico, foraggiato dagli Usa a partire dalla fine degli anni’70. L’incidenza del paramilita-rismo colombiano e del terrorismo di stato imperante nel mio paese è sempre stata forte. In Venezuela vivono circa 5 milioni di colombiani. Con l’arrivo del socialismo abbiamo avuto accesso ai servizi e alle coperture sociali, di cui hanno approfittato le organizzazioni criminali. Quando Alvaro Uribe va al governo in Colombia, aumenta in modo massiccio la presenza dei paramilitari in Venezuela, che cercano di appropriarsi della ricchezza del paese, in modo diretto o indiretto. Nel 2006, ogni persona poteva inviare all’estero 300 dollari al mese, anche a un parente alla lontana. In molti si sono trasferiti qui per fare questo tipo di traffici. L’imperialismo cerca con ogni mezzo di «balcanizzare» il Venezuela per distruggere il cambiamento. La guerra economica si alimenta però anche di una catena pervasiva di corruzione e prebende. I Consigli operai o quelli comunali si trovano a volte di ftonte gruppi di potere o burocrati che hanno accesso al controllo delle risorse e vedono minacciati i propri interessi. D’altro canto, manca la consapevolezza politica che il socialismo non è solo welfare, non basta ridistribuire meglio la ricchezza come si è fatto in Italia per un periodo, occorre un cambiamento strutturale nelle dinamiche produttive e di potere. E il potere non si trasferisce, si costruisce. Non possiamo idealizzare la figura dell’operaio, del proletario, né cercare lo schema a tutti i costi. Ma non possiamo neppure ignorare che, nella gestione dello stato, esistono gruppi il cui modo di pensare – al di là della loro estrazione sociale – è legato a quello della piccola borghesia e che esercitano il potere in funzione degli interessi che rappresentano. Con loro, a un certo punto, bisognerà essere chiari; o accettano il potere dal basso oppure se ne devono andare.

 

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