11334 ANALISI

20140927 14:25:00 red-emi

SEMBRA VERAMENTE DIFFICILE CHE SI POSSA RISOLVERE LA CRISI INTERVENENDO CON RIFORME NEI SINGOLI PAESI SENZA RIFORMARE LA STRUTTURA DELL’EUROZONA NEL SUO COMPLESSO.

– STIGLITZ, L’ETÀ DELLA DEPRESSIONE
La crisi dell’euro: cause e rimedi. La miscela esplosiva contemporanea: un modello che mescola declino economico e speculazioni della finanza, una produzione ridotta all’osso e controllata dalle grandi imprese, vecchi risparmi familiari che finanziano consumi impoveriti, una società disuguale, frammentata e disorientata
– LA CARICA DI JOSEPH STIGLITZ CONTRO L’AUSTERITY.
Un argomentato j’accuse contro le politiche di austerità che dominano la scena europea e non solo, quello che ieri Joseph Stiglitz ha svolto in un incontro alla Camera dei deputati
– DELORS E L’EUROPA SBAGLIATA
LA RILETTURA. RAPPORTO SULL’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA NELLA COMUNITÀ EUROPEA, 1989. L’unione economica e monetaria in Europa implicherà una completa libertà di movimento per le persone, i beni, i servizi, i capitali, oltre che tassi di cambi irrevocabilmente fissi tra le monete nazionali e, infine, la moneta unica

1.
– STIGLITZ, L’ETÀ DELLA DEPRESSIONE
La crisi dell’euro: cause e rimedi. La miscela esplosiva contemporanea: un modello che mescola declino economico e speculazioni della finanza, una produzione ridotta all’osso e controllata dalle grandi imprese, vecchi risparmi familiari che finanziano consumi impoveriti, una società disuguale, frammentata e disorientata
Non ho bisogno spiegare quanto sia drammatica la situazione economica in Europa, e in Italia in particolare. L’Europa è in quella che può definirsi una «TRIPLE DIPRECESSION», con il reddito che è caduto NON UNA, MA TRE VOLTE IN POCHI ANNI, una recessione veramente inusuale.
Così l’Europa ha perso la metà di un decennio: in molti paesi il livello del Pil pro capite è inferiore a quello del 2008, prima della crisi; se si estrapola la serie del Pil europeo sulla base del tasso di crescita dei decenni passati, oggi il Pil sarebbe del 17% più alto: l’Europa sta perdendo 2000 miliardi di dollari l’anno rispetto al proprio potenziale di crescita.
Oggi abbiamo a disposizione una grande quantità di dati sull’impatto delle politiche di austerità in Europa. I paesi che hanno adottato le misure più dure, ad esempio chi ha introdotto i maggiori tagli al proprio bilancio pubblico, hanno avuto le performance peggiori.
Non solo in termini di Pil, ma anche in termini di deficit e debito pubblico. Era un esito previsto e prevedibile: se il Pil decresce anche le entrate fiscali si riducono e questo non può far altro che peggiorare la posizione debitoria degli stati.
Tutto ciò avviene non perché questi paesi non abbiano realizzato politiche di austerità, ma proprio perché le hanno seguite. In molti paesi europei siamo di fronte non a una recessione, ma a una depressione.
Devo dirlo con molta franchezza: l’errore dell’Europa è stato l’euro. Ha contribuito a dividere e frammentare l’Europa Joseph Stiglitz
La Spagna, ad esempio, può essere descritta come un paese in depressione se si guardano gli impressionanti dati sulla disoccupazione giovanile di quel paese. La disoccupazione media è al 25% e non ci sono prospettive di miglioramento per il prossimo futuro (…).
QUALI SONO LE CAUSE? Devo dirlo con molta franchezza: l’errore dell’Europa è stato l’euro.
Quando faccio questa affermazione voglio dire che l’Euro è stato un progetto politico, un progetto voluto dalla politica. Robert Mundell, premio Nobel per l’economia, sosteneva fin dall’inizio che l’Europa non presentava le caratteristiche di un’«AREA VALUTARIA OTTIMALE», adatta all’introduzione di UN’UNICA MONETA PER PIÙ PAESI. Ma a livello politico si riteneva che la moneta unica avrebbe reso l’Europa più coesa, favorendo l’emergere delle caratteristiche proprie di un area valutaria ottimale. Que­sto non è successo; l’euro, al contrario, ha contribuito a dividere e frammentare l’Europa.
GLI ERRORI CONCETTUALI
Vediamo gli errori concettuali alla base del progetto dell’euro (…). Quando si crea un’area monetaria si vanno ad eliminare due meccanismi di aggiustamento, i tassi di cambio e i tassi di interesse.
GLI SHOCK SONO INEVITABILI E IN ASSENZA DI MECCANISMI DI AGGIUSTAMENTO SI VA INCONTRO A LUNGHI PERIODI DI DISOCCUPAZIONE.
I 50 stati federati degli Usa hanno un bilancio unitario a livello federale e due terzi della spesa pubblica negli Stati Uniti sono a livello federale. Quando uno stato come la California ha un problema, può contare ad esempio sull’assicurazione pubblica contro la disoccupazione, che è finanziata da fondi federali. Se una banca in California è in crisi, viene attivato un fondo di emergenza anch’esso dotato di risorse federali. Un’altra differenza di fondo tra gli stati che compongo gli Usa e quelli dell’Unione Europea è che nessuno negli Stati Uniti si preoccuperebbe per lo spopolamento del Sud Dakota a seguito di una crisi occupazionale, anzi, l’emigrazione è vista come un meccanismo fisiologico. Ma in Europa un’emigrazione come quella che ha caratterizzato la componente più giovane e istruita della popolazione del sud Europa — dove la disoccupazione giovanile è a livelli elevatissimi — ha effetti negativi di impoverimento di quei paesi, con tensioni sociali e frantumazione delle famiglie.
SONO COSTI SOCIALI CHE NON SONO CALCOLATI DAL PIL. TUTTO CIÒ ERA STATO IN QUALCHE MODO PREVISTO NEL MOMENTO IN CUI SI È DECISO DI INTRODURRE L’EURO (…).
Non c’è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai criteri di convergenza adottati in Europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei criteri fossero sbagliati
QUALI ALTRI ERRORI SONO STATI COMPIUTI?
Innanzi tutto l’idea che le cose si sarebbero risolte se i paesi avessero mantenuto un basso rapporto tra deficit o debito pubblico e Pil. È l’idea che sta dietro al Fiscal compact. Ma non c’è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai criteri di convergenza adottati in Europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei criteri fossero sbagliati: Spagna e Irlanda avevano un bilancio pubblico in avanzo prima del 2009, non avevano sprecato risorse. Eppure hanno avuto delle crisi gravissime. Il debito ed il disavanzo di questi paesi si sono creati successiva­mente, per effetto della crisi, e non viceversa. Il fatto di aver introdotto un Fiscal compact che impone vincoli ferrei al disavanzo e al debito non risolverà i problemi, né aiuterà a prevenire la prossima crisi.
Un altro elemento che non è stato valutato appieno è che quando un paese si indebita in euro, piuttosto che in una moneta emessa dal paese che contrae il debito, si creano automaticamente le condizioni per una crisi del debito sovrano. Il rapporto debito/Pil negli Stati Uniti è analogo a quello europeo ma gli Usa non avranno mai una crisi del debito sovrano come quella che ha investito l’Europa.
PERCHÉ?
Perché l’America si indebita in dollari, e quei dollari verranno sempre rimborsati perché il governo degli Stati Uniti può stampare i propri dollari.
LA CRISI CHE HA COLPITO i debiti sovrani di numerosi paesi europei egli ultimi anni è simile a quanto ho visto molte volte quando ero capo economista della Banca Mondiale: paesi come l’Argentina o l’Indonesia hanno vissuto profonde crisi causate proprio dal fatto che si erano indebitati in valute che non potevano controllare. Quando questo avviene c’è sempre il rischio di una crisi del debito, e in Europa le condizioni per questo tipo di crisi sono state create con l’introduzione dell’euro. L’unica soluzione possibile nell’attuale situazione europea è piuttosto semplice e si chiama Euro­bond. Tuttavia, sembrano esserci ostacoli politici a questa soluzione che la rendono impraticabile, ma questa sembra l’unica via d’uscita logica.
Inoltre, con l’euro si è creato un sistema fondamentalmente instabile. L’obiettivo iniziale era quello di favorire la convergenza tra gli stati europei, attraverso la disciplina fiscale dei paesi membri. Il sistema che è stato creato in realtà produce divergenza. Il mercato unico, la libera circolazione dei capitali in Europa sembrava essere la strada verso una maggiore efficienza economica.
MA NON CI SI RESE CONTO DEL FATTO CHE I MERCATI NON SONO PERFETTI.
Negli anni ottanta c’erano alcuni economisti convinti del perfetto funzionamento dei mercati, mentre oggi siamo consapevoli delle innumerevoli imperfezioni che li caratterizzano. Ci sono imperfezioni da lato della concorrenza, imperfezioni sul versante del rischio e dell’informazione. I mercati non sono quelli descritti dai modelli economici semplificati (…).
L’INSISTENZA SULLE RIFORME STRUTTURALI
Oggi si insiste molto sulle riforme strutturali che i singoli stati dovrebbero introdurre (…) Quando si sente la parola riforma si è portati a pensare a qualcosa dagli esisti sicuramente positivi, ma sotto quest’etichetta possono nascondersi misure dagli esiti profondamente negativi. Le riforme strutturali in realtà sono quasi tutte viste dal lato dell’offerta, con obiettivi come l’aumento dell’offerta o della produttività. Ma, è realmente questo il problema dell’Europa e dell’economia globale?
NO.
I problemi oggi sono legati a una debolezza della domanda, non dell’offerta. Le riforme strutturali sbagliate aggraveranno, attraverso la riduzione dei salari o l’indebolimento degli ammortizzatori sociali, la debolezza della domanda aggregata, con ovvie conseguenze su disoccupazione e dinamica macroeconomica.
E’ necessario anche riflettere sul momento in cui si possono adottare tali riforme.
Senza scendere nel merito delle riforme del mercato del lavoro nei diversi paesi europei, vorrei farvi notare che i paesi caratterizzati da un mercato del lavoro fortemente flessibile non hanno evitato le gravi conseguenze della crisi. Gli Stati uniti erano apparentemente il paese con il mercato del lavoro più flessibile, ma hanno avuto una disoccupazione al 10%. E anche oggi, quando viene propagandata la grande ripresa dell’economia statunitense, con una disoccupazione ridotta al 6%, bisogna pensare che c’è una fetta della popolazione americana sfiduciata al punto tale da aver smesso di cercare un’occupazione. Il tasso di disoccupazione reale degli Stati Uniti è attorno al 10% (…).
Quello che l’Europa non deve fare è sottoscrivere il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). Un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi molto negativo
CHE COSA DOVREBBE DUNQUE FARE L’EUROPA?
Sembra veramente difficile che si possa risolvere la crisi intervenendo con riforme nei singoli paesi senza riformare la struttura dell’eurozona nel suo complesso. Su alcuni di questi interventi strutturali sembrerebbe esserci un discreto consenso.
In primo luogo, una vera Unione bancaria, fatta di vigilanza e di assicurazione comune sui depositi, faciliterebbe la risoluzione congiunta delle crisi. Si tratta di misure urgenti, e l’urgenza è data dai numerosi fallimenti di imprese e banche, che possono danneggiare seriamente le prospettive di crescita future.
IN SECONDO LUOGO, è necessario un meccanismo federale di bilancio in Europa che potrebbe prendere, ad esempio, la forma degli Euro­bond, una soluzione pratica e facile che consentirebbe all’Europa di utilizzare il debito in funzione anticiclica, come hanno fatto gli Stati Uniti in questi anni. Se l’Europa potesse indebitarsi a tassi di interesse negativi come stanno facendo gli Stati Uniti potrebbe stimolare molti investimenti utili, rafforzare l’economia e creare occupazione. E i soldi che oggi vengono spesi per il servizio del debito dei singoli paesi potrebbero essere utilizzati per politiche di stimolo alla crescita.
IN TERZO LUOGO, l’austerità va abbandonata e va adottata una strategia articolata di crescita. I paesi europei sono molto diversi tra loro, ad esempio in termini di produttività. Sono dunque necessarie politiche industriali che favoriscano la crescita della produttività nei paesi più deboli, ma tali politiche sono precluse dai vincoli di bilancio imposti agli stati membri. Un ostacolo ulteriore è rappresentato dalla politica monetaria. Negli Stati Uniti la Federal Reserve ha un mandato articolato su quattro obiettivi: OCCUPAZIONE, INFLAZIONE, CRESCITA E STABILITÀ FINANZIARIA. Oggi il principale obiettivo della Federal Reserve è l’occupazione, non l’inflazione. Al contrario la Banca Centrale Europea ha come unico mandato l’inflazione, si concentra unicamente sull’inflazione. Questo viene da un’idea che era molto di moda, benché non comprovata da alcuna teoria economica, quando lo Statuto della BCE è stato redatto.
L’idea consisteva nel considerare la bassa inflazione come l’elemento di traino fondamentale e quasi esclusivo per la crescita economica. Nemmeno il Fondo Monetario Internazionale condivide più questa convinzione, ma l’Europa non sembra in grado di abbandonarla. Questa politica monetaria sbagliata, può produrre e sta producendo conseguenze economiche gravi. Se gli Stati Uniti mantengono bassi i loro tassi di interesse per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, mentre in Europa i tassi continuano a mantenersi più elevati, in una logica anti-inflazionistica, questo favorisce l’afflusso di capitali e l’apprezzamento dell’euro. E questo, ovviamente, rende ancora più difficile esportare le merci europee con un evidente impatto negativo sulla crescita. Quando gli Stati uniti hanno cominciato ad adottare un politica monetaria fortemente espansiva ricorrendo al «Quantitative easing», l’esito positivo di questa politica è stato facilitato dal fatto che l’Europa non ha fatto lo stesso.
PATOLOGIE USA E UE
Se l’Europa avesse abbassato i propri tassi di interesse nello stesso modo in cui l’ha fatto la Federal Reserve, la ripresa negli Stati Uniti sarebbe arrivata molto più lentamente.
IL PARADOSSO, DUNQUE, È CHE GLI STATI UNITI DOVREBBERO RINGRAZIARE L’EUROPA PER AVER AIUTATO LA RIPRESA AMERICANA TRAMITE LE SUE POLITICHE MONETARIE SBAGLIATE.
Ci sono altri aspetti da considerare. Viviamo oggi in un economia fortemente legata all’innovazione tecnologica e alla conoscenza. Ma per favorire l’innovazione sono necessari investimenti costanti e di grandi dimensioni in comparti come L’ISTRUZIONE e le INFRASTRUTTURE. Si tende a pensare agli Stati Uniti come a un’economia innovativa. Questo è vero, ma è necessario ricordare negli Stati Uniti le innovazioni più importanti, come Internet ad esempio, sono state sostenute e finanziate attivamente dal governo. C’è stata una politica attiva dell’innovazione. Quando ero a capo del Gruppo dei consiglieri economici della Casa bianca, verificammo che i benefici degli investimenti pubblici in innovazione erano superiori a quelli prodotti dagli investimenti privati. Si tratta di esempi di politiche attive per la crescita che avrebbero effetti molto positivi e che vanno in una direzione opposta a quella del rigore che sta strangolando l’Europa.
Infine, dobbiamo renderci conto che sia l’economia europea che quella statunitense erano affette da un patologia ancor prima dell’esplosione della crisi. Fino al 2008 l’economia europea e quella americana erano sostenute da una bolla speculativa che interessava principalmente il settore immobiliare. In assenza di quella bolla si sarebbero visti tassi di disoccupazione molto più elevati. Ovviamente non vogliamo tornare a una crescita fondata su bolle speculative (…). È necessario comprendere, dunque, quali sono i problemi di fondo che colpivano le nostre economie già prima della crisi e che, oltre a non essere stati affrontati sino ad oggi, sono peggiorati durante la recessione.
IL PRIMO PROBLEMA sono le disuguaglianze crescenti nelle nostre società. La crisi ha contribuito ad aumentarle ovunque, negli Stati uniti i benefici della ripresa sono andati quasi completamente all’1% più ricco della popolazione. Negli Usa il valore del reddito mediano (quello che vede metà degli americani con redditi più alti e l’altra metà con redditi inferiori) al netto dell’inflazione è oggi più basso di 25 anni fa. Questo fa si che la famiglia americana media non abbia soldi da spendere e, di conseguenza, la domanda aggregata rimane debole.
IL SECONDO ELEMENTO è legato alla necessità di una trasformazione strutturale verso l’economia della conoscenza. Una trasformazione che i mercati NON SONO IN GRADO di gestire. Il ruolo di guida e di stimolo di tali trasformazioni dev’essere esercitato dei governi i quali, a causa della crisi attuale, non hanno in alcun modo svolto que­sto compito (…)
LA POLITICA INDUSTRIALE sarà senz’altro uno degli strumenti fondamentali per uscire da questa situazione. È necessario un Fondo europeo per la disoccupazione e un Fondo europeo per le piccole imprese, investimenti che vadano molto oltre quello che fa oggi la Banca euro­pea degli investimenti.
Oltre alle cose che andrebbero fatte vi sono, però, anche cose che non vanno fatte. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, ho già detto che maggiore flessibilità non aiuterà a risolvere i problemi attuali, anzi li aggraverà aumentando le disuguaglianze e deprimendo ulteriormente la domanda. La situazione italiana, ad esempio, vede già presente un elevato grado di flessibilità; aumentarla ancora indebolirebbe l’economia senza portare vantaggi. Bisogna essere molto cauti.
COSA NON BISOGNA FARE
Un’altra cosa che l’Europa non deve fare è sottoscrivere il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip).
UN ACCORDO DI QUESTO TIPO POTREBBE RIVELARSI MOLTO NEGATIVO PER L’EUROPA.
Gli Stati Uniti, in realtà, non vogliono un accordo di libero scambio, vogliono un accordo di gestione del commercio che favorisca alcuni specifici interessi economici. Il Dipartimento del Commercio sta negoziando in assoluta segretezza senza informare nemmeno i membri del Congresso americano. La posta in gioco non sono le tariffe sulle importazioni tra Europa e Stati uniti, che sono già molto basse. La vera posta in gioco sono le norme per la sicurezza alimentare, per la tutela dell’ambiente e dei consumatori in genere. Ciò che si vuole ottenere con questo accordo non è un miglioramento del sistema di regole e di scambi positivo per i cittadini americani ed europei, ma si vuole garantire campo libero a imprese protagoniste di attività economiche nocive per l’ambiente e per la salute umana. La Philip Morris ha fatto causa contro l’Uruguay perché l’Uruguay vuol difendere i propri cittadini dalle sigarette tossiche. La Philip Morris nel tentativo di contrastare le misure adottate in Uruguay per tutelare i minori o i malati dai rischi del fumo si è appellata proprio ai quei principi di libero scambio che si vorrebbero introdurre con il Ttip. Sottoscrivendo un accordo simile l’Europa perderebbe la possibilità di proteggere i propri cittadini. Questo tipo di accordi, inoltre aggravano le disuguaglianze e, in una situa­zione come quella europea, rischierebbero di approfondire la recessione.
SI PUÒ ANCORA ASPETTARE?
L’EUROPA PUÒ ANCORA PERMETTERSI DI ASPETTARE?
Se non si cambia la struttura dell’eurozona, se l’Europa continua sulla strada attuale, si candida a perdere un quarto di secolo, dovete esserne consapevoli. Quando eravamo nel mezzo della Grande Depressione degli anni trenta, non si sapeva quanto sarebbe durata, ed è finita solo con la seconda guerra mondiale e la massiccia spesa pub­blica che l’ha accompagnata. Non dobbiamo augurarci che l’attuale crisi venga risolta allo stesso modo, ma oggi l’Europa ha le mani legate.
Infine, la questione della democrazia.
C’È UN DEFICIT DI DEMOCRAZIA CREATO DALL’INTRODUZIONE DELL’EURO. Gli elettori votano a favore di un cambiamento delle politiche, poi arriva un nuovo governo che dice «HO LE MANI LEGATE, DEVO SEGUIRE LE STESSE POLITICHE EUROPEE». Questo compromette la fiducia nella democrazia. Oltre alle argomentazioni economiche che rendono necessario un cambiamento c’è questa disaffezione nei confronti della politica, che porta al rafforzamento delle forze estremiste. Non è soltanto l’economia che è in gioco, la posta in gioco è la natura delle società europee.

2.
– LA CARICA DI JOSEPH STIGLITZ CONTRO L’AUSTERITY.
Un argomentato j’accuse contro le politiche di austerità che dominano la scena europea e non solo, quello che ieri Joseph Stiglitz ha svolto in un incontro alla Camera dei deputati. Indice puntato dunque contro il dogma della economia fondata sull’offerta e non sulla domanda, perché se non c’è una inversione di rotta, le già allarmanti disuguaglianze sociali rischiano di essere esplosive. Per fare tutto questo, occorre una riforma radicale dell’Unione europea.
Joseph Stiglitz ha archiviato da anni la sua esperienza alla Banca mondiale, organizzazione abbandonata per dissensi sulla «DOPPIA MORALE» lì dominante che consentiva AI PAESI FORTI DI FARE COSE IMPEDITE AI PAESI NEL SUD DEL MONDO. Premio Nobel per l’economia del 2001 ha scritto volumi assunti dai liberal statunitensi come una sorta di bibbia nella critica al neoliberismo, mentre al di fuori dei confini nazionali sono stati invece assunti da parte delle sinistre cosiddette radicali e ambientaliste come testi imprescindibili nell’analisi del capitalismo contemporaneo. Strano destino per un economista che radicale proprio non si può definire. Sta di fatto, però, che nella lectio magistralis ha svolto il ruolo del riformista radicale che chiede un’inversione di rotta all’Unione europea, mentre molti dei discussant non sono riusciti ad accogliere fino in fondo le «provocazioni» dell’economista, lamentando la distanza esistente tra le teorie critiche dell’austerità e le politiche dell’Unione europea che vedono una sostanziale convergenza tra il centro destra e il centro sinistra.
Eppure le persone chiamate a discutere con Stiglitz, in particolare i deputati, i sentori e la stessa presidente della Camera, sono spesso considerati «fuori­linea» rispetto ai propri partiti. Coinciso Giorgio Airaudo di Sel che è partito dalla crescente disoccupazione per ricordare che in Italia non esiste una politica industriale, senza la quale sarà difficile vedere una luce in fondo al tunnel della crisi, che ha portato i redditi individuali e delle famiglie ai livelli di 25 anni fa. Airaudo ha preferito parlare di manifattura, argomento assente nel discorso di Stiglitz, che auspicava il fatto che i paesi europei percorrano l’ultimo miglio che li separa dall’economia della conoscenza.
Fuori fuoco l’intervento di Francesco Boccia (pd), che ha ricordato le compatibilità dettate dalla troika europea. Proprio quelle compatibilità che Stiglitz invitava se non a rompere, almeno a forzare. Boccia però a messo involontariamente al centro la subalternità della politica all’economia. Una subalternità che rischia di accentuare gli effetti autolesionisti dell’austerity. Per uscirne fuori la presidente della Camera Laura Boldrini vede necessario il ripristino dell’autorevolezza del sistema politico nel definire regole e convenzioni sociali condivise. Ma se il sovrano ha perso lo scettro, non è detto che possa ritrovarlo in una generica riforma della politica, come auspicato da Laura Castelli del Movimento Cinque Stelle: l’unico intervento interrotto da un applauso.
Se Stiglitz può passare, suo malgrado, come un riformista radicale, una sponda alle sue tesi non è certo venuta dal riformismo «timido» e «perbene» di Stefano Fassina (pd), che ha più volte lamentato il fatto che la politica ha le mani legate e che forse spetta agli accademici di proporre una vision alternativa a quella dominante . Strano approdo per un politicy maker che vorrebbe la ripresa di autonomia della politica, ma poi ne affida le sorti a un accademico.
L’unico esponente politico a suo agio è Giulio Tremonti, che cita come funesta l’idea dominante che ha formato l’Unione Europa: quello di uno sviluppo lineare, progressivo dell’economia europea. A Bruxelles e a Strasburgo la crisi economica è piombata come un evento inatteso, trovando le istituzioni comunitarie impreparate. E ancora adesso c’è una certa difficoltà a fare i conti con players globali come la Cina o i fondi di investimento.
Quando la parola ritorna agli studiosi, sembra di scendere dalle stelle alla terra. Tutto diventa chiaro. La spirale distruttiva del neoliberismo (Giovanni Dosi), la necessità di ridurre le disuguaglianze sociali (Mauro Gallegati), le nuove politiche economiche e industriali (Mario Pianta) danno misura di quel movimento di ridiscesa sulla terra invocato da Goethe nel «Faust» che il sistema politico non sembra riuscire a fare. ( Fonte: il manifesto | Autore: Benedetto Vecchi)

3
– DELORS E L’EUROPA SBAGLIATA
LA RILETTURA. RAPPORTO SULL’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA NELLA COMUNITÀ EUROPEA, 1989
L’UNIONE ECONOMICA E MONETARIA IN EUROPA IMPLICHERÀ UNA COMPLETA LIBERTÀ DI MOVIMENTO PER LE PERSONE, I BENI, I SERVIZI, I CAPITALI, OLTRE CHE TASSI DI CAMBI IRREVOCABILMENTE FISSI TRA LE MONETE NAZIONALI E, INFINE, LA MONETA UNICA.
Questo, inoltre, implicherà una politica monetaria comune e richiederà un alto grado di compatibilità delle politiche economiche e di coerenza in diversi altri ambiti delle politiche, specie in campo fiscale (p.13). Si è deciso che otto paesi membri liberalizzeranno completamente i movimenti di capitale entro il 1 luglio 1990 e che gli altri paesi membri seguiranno dopo un periodo di transizione (…) Il processo d’integrazione così richiede un coordinamento delle politiche più intenso ed efficace anche nel quadro degli attuali accordi di cambio, non solo in campo monetario, ma anche nei campi della gestione economica nazionale che influenzano la domanda aggregata, i prezzi e i costi di produzione” (p.10–11).
La flessibilità salariale e la mobilità del lavoro sono necessarie per eliminare le differenze di competitività tra diverse regioni e paesi della Comunità. In caso contrario ci potranno essere forti riduzioni nella produzione e occupazione nelle aree con minor produttività (p.19).
(Commissione per lo studio dell’unione economica e monetaria presieduta da Jacques Delors, Rapporto sull’unione economica e monetaria nella Comunità europea, Commissione Europea, 17 aprile 1989)

 

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