11306 40.Notizie dall’Italia e dal Mondo 12 Settembre 2014

20140912 17:02:00 red-emi

ITALIA – Italia-Russia, il pericoloso gioco delle sanzioni. Lettera degli imprenditori a Squinzi
EUROPA – O l’Europa o la Nato / FRANCIA. Attac: informare, discutere e agire A Parigi si è tenuta l’università estiva della più grande di tutte le reti internazionali di alternativa al neoliberismo emerse dal movimento altermondialista
MEDIO ORIENTE – TURCHIA Troppi morti sul lavoro. Dieci operai edili sono morti il 6 settembre a Istanbul nel crollo di un ascensore in un edificio in costruzione. / ISRAELE-PALESTINA – Scontri a Gerusalemme
AFRICA – MOZAMBICO. Fine delle ostilità / L’accordo di pace firmato il 5 settembre a Maputo /
ASIA & PACIFICO – India./ Varato il nuovo programma nucleare: ma c’è chi teme un’altra Fukushim. L’India procede spedita verso la riforma del nucleare: accordo con l’Australia, ma crescono i timori
AMERICA CENTROMERIDIONALE – Messico, paese della tortura. Rapporto shock di Amnesty international/ MESSICO. Tortura e impunità Il 4 settembre Amnesty international ha pubblicato un rapporto sulla tortura in Messico
AMERICA SETTENTRIONALE – USA. /California. Esperti temono un disastro nucleare peggiore di Fukushima Forum relativi alla notizia: USA, Nucleare, Fukushima, Giappone / "Il 4 settembre sono state arrestate decine di lavoratori dei fast food che in circa 150 città statunitensi.

ITALIA
ITALIA-RUSSIA, IL PERICOLOSO GIOCO DELLE SANZIONI. LETTERA DEGLI IMPRENDITORI A SQUINZI / Sullo scacchiere ucraino, mentre la Nato soffia sullo scontro armato (domani il vertice in Galles con la presenza di Obama) e l’Europa si perde in un complicato puzzle tenuto insieme dalle sanzioni, dall’Italia arriva il grido di allarme degli imprenditori italiani che hanno rapporti economici con la Russia: le sanzioni in atto porteranno un danno immediato di mezzo miliardo alle esportazioni nel solo settore alimentare. Autore: fabio sebastiani
Aggiungerne altre non sembra il caso. Il presidente di Confindustria Russia Ernesto Ferlenghi ha chiesto in una lettera al presidente di Confindustria Giorgio Squinzi di fare ”tutto il possibile” per ”convincere i nostri governanti ad un maggiore equilibrio e ad una piu’ marcata autonomia del nostro Paese” nella crisi ucraina nei confronti di Mosca, per evitare di ”distruggere decenni di lavoro e di investimenti”. Insomma, anche lo schema "europeo" della soluzione diplomatica attraverso il danno economico sembra avere un peso del tutto relativo. Anche perché, come viene fuori dalla lettera degli esportatori, la Russia di Putin sembra molto più attrezzata per una resistenza di lunga durata. Al contrario di paesi come l’Italia così fragili da un punto di vista economico, e che hanno nell’export una sorta di piccolo lumicino per la ripresa.
Inoltre, anche se l’Italia e’ il secondo esportare verso la Russia tra i Paesi Ue, 10,8 miliardi di euro nel 2013, Mosca porta avanti da tempo una politica di ricerca di nuovi partner commerciali e fornitori. "La Russia gia’ oggi importa molto da Kazakhistan e Bielorussia, nell’ambito dell’Unione doganale, e ora punterà sul rafforzamento della collaborazione con con i Brics e l’America Latina". Non solo: ‘perderemo le opportunita’ che i crescenti investimenti nel settore petrolifero garantiranno per i prossimi decenni ai numerosi contrattisti italiani che offrono servizi ed equipment alle numerose societa’ anche straniere che operano in Russia”. Inoltre, secondo la Confindustria Russia, ”l’adozione di misure di sanzionamento delle maggiori banche russe e l’impossibilità di ricorrere da parte di queste ultime a linee di finanziamento a lungo termine comporterà tra le altre cose la difficolta’ di molti nostri colleghi a vedere confermate le lettere di credito”. Secondo Ferlenghi, ”la posizione dell’Europa e, con nostro rammarico, del nostro Governo alimentera’ quel clima di sfiducia e diffidenza che portera’ a contrapposizioni da cui nessuno trarrà beneficiò’.
In base al meccanismo delle sanzioni, in Russia il settore piu’ colpito per ora e’ quello bancario, con grandi istituti di credito che non possono piu’ chiedere prestiti all’estero o emettere obbligazioni sui mercati esteri.
Idem per alcune grosse societa’, come il colosso petrolifero Rosneft, costretto a chiedere l’aiuto dello Stato per rimborsare il suo pesante debito di oltre 30 miliardi di euro. Anche il vice ministro delle finanze, Serghiei Storciak, ha ammesso che ”le sanzioni settoriali, in particolare nel campo delle relazioni finanziarie internazionali, cominciano sicuramente a farsi sentire e si faranno sentire”.

EUROPA
O L’EUROPA O LA NATO / «LA MAGGIORANZA DEI MEMBRI DELLA COMMISSIONE UE NON CAPISCE NULLA DI QUESTIONI MONDIALI. VEDI IL TENTATIVO DI FAR ENTRARE NELLA UE L’UCRAINAÈ megalomania… hanno posto a Kiev la scelta o Ue o Est…ci vuole una rivolta del Parlamento europeo contro gli eurocrati di Bruxelles, così si rischia la terza guerra mondiale»: (prima di quelle di Bergoglio) sono le parole allarmate dell’ex cancelliere tedesco Schmidt in un’intervista alla Bild di tre mesi fa che non parla ancora di ingresso esplosivo di Kiev. Pericolo sul quale, con tentativo non riuscito di influenzare le scelte di Obama che invece rilancia il riarmo atlantico sulla base del presunto sconfinamento-invasione russa dell’Ucraina, si sono pronunciati gli ex segretari di Stato Usa Kissinger e Brzezinski e perfino l’ex capo del Pentagono dell’amministrazione Obama, Robert Gates che nel suo libro di memorie ha scritto: «L’allargamento così rapido della Nato a est è un errore e serve solo ad umiliare la Russia, fino a provocare una guerra». Non è servito a nulla a quanto pare.
Lamentano i governi europei che è in gioco l’unità territoriale dell’Ucraina e Federica Mogherini, Mrs Pesc in pectore davanti al Parlamento europeo, per farsi perdonare di essere considerata filorussa dati gli interessi dell’Eni, ha la faccia tosta di accusare: «È colpa di Putin». Se gli stava veramente a cuore l’unità territoriale dell’Ucraina, perché i governi europei insieme alla Nato e agli Usa con tanto di capo della Cia John Brennan, senatori repubblicani guidati da McCain e segretario di stato Kerry tutti su quella piazza, hanno alimentato e sostenuto dalla fine del 2013 fino al maggio 2014 la rivolta, spesso violenta e di estrema destra, di Piazza Majdan che ha rimesso di fatto in discussione l’unità territoriale del Paese. Mentre l’ambasciatrice Usa mandava affan… l’Europa. Era colpa di Putin anche la rivolta di piazza Majdan? Magari perché aveva soccorso, pronta cassa, le richieste di Kiev quando l’Ue se ne lavava le mani in preda alla sua crisi?
E come dimenticare che quella rivolta è stata nazionalista ucraina e anti­russa, non solo anti-Putin, ma contraria ai diritti delle popolazioni dell’est che avevano sostenuto ed eletto Yanukovitch — certo corrotto, ma non meno dell’attuale Poroshenko e del premier dimissionario Yatsenyuk. La rivolta di Majdan è stata nazionalista anti­russa, contro gli interessi politici e sociali delle popolazioni dell’est, di lingua russa all’80%, quando non pro­prio russe e comunque filo­russe, legate alla Russia per appatenenze storiche, religiose e culturali e per legame economico imprescindibile e complementare alla propria sopravvivenza, tutt’altro che garantita dall’associazione delle regioni dell’ovest all’Ue.
È lì, in quel sostegno strumentale e ideologico, come se fosse un nuovo ’89, dato dall’Occidente europeo ed americano che si è consumata l’unità dell’Ucraina che a quel punto si è associata all’Ue solo a metà. Ora accade che il governo di Kiev dimissionato pochi giorni fa dal presidente Poroshenko annunci, di fronte alla presunta invasione — è il quarto allarme in due mesi — la richiesta di adesione all’Alleanza atlantica. «Il governo ha sottoposto al parlamento un progetto di legge per annullare lo status fuori dei blocchi dell’Ucraina e tornare sulla via dell’adesione alla Nato» ha dichiarato quasi in fuga il premier uscente, già leader di Majdan, Yatseniuk. E subito il segretario della Nato Ander Fogh Rasmussen, ha ammiccato: «Ogni paese ha diritto di scegliere da sé le proprie alleanze». Tanto più che la decisione sembra andare incontro alle ultime parole di Obama che, ormai incapace di uscire dal «militarismo umanitario» degli Stati uniti, sciorina per fermare l’orso russo (quel Putin che gli ha impedito di impelagarsi ancora di più nella guerra in Siria) la «nuova» agenda del riarmo americano e Nato nell’Europa dell’est, dalla Polonia, ai Paesi baltici — andrà in Estonia per questo domani — e alle finora neutrali Finlandia e Svezia. Altro che nuova agenda: è la scellerata strategia della Nato in atto da più di venti anni a partire dalle guerre nei Balcani, con relativa redistribuzione di costi per la difesa sullo scacchiere europeo, tra gli stessi paesi ora alle prese con la lacerante crisi economica. Una strategia che in questi venti anni ha visto l’ingresso di tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia nella Nato, commissioni in guerre alleate, a partire dall’ex Jugoslavia (dove, a specchio capovolto della storia, i raid Nato hanno aiutato i ribelli dell’Uck — criminali, dice ora l’indagine della stessa commissione Ue Eulex — ad otte­nere l’indipendenza) e ancora tante basi, strutture d’intelligence, siti missilistici, ogive nucleari, scudi spaziali tutti quanti ai confini russi. Senza l’allargamento a est della Nato non ci troveremmo sull’orlo di un conflitto spaventoso in Ucraina, né ci sarebbe stata la sceneggiata arrogante di una leadership di oligarchi volta­gabbana che ha destabilizzato l’Ucraina con la violenza della piazza «buona» perché sedicente filoeuropea, e che ora cavalca la repressione sanguinosa della piazza «cattiva» perché filorussa. Senza la Nato esisterebbero una politica estera e di difesa dell’Ue. Intanto in queste ore nell’est ucraino si combatte, Kiev è all’offensiva. Secondo l’Onu i morti, tanti i civili, in quattro mesi sono più di 2.600
Se dal vertice Nato che si apre domani a Cardiff, in Galles, arrivasse un sì alla richiesta incendiaria di Kiev e se si avvia, come accade, lo schieramento di forze militari Nato in dichiarate esercitazioni anti-Russia o ai confini russi, come ha chiesto l’irresponsabile Cameron, è l’inizio della fine. Cioè la separazione delle regioni dell’est con l’intervento, stavolta vero, della Russia nella guerra, a quel punto motivata a difendere dalle truppe occidentali le popolazioni russo-ucraine, lo status proclamato dagli insorti filo-russi ma anche lo stesso territorio russo. Quando invece è chiaro che l’Ucraina resterà unita finché non apparterrà ad alcun blocco militare e se ci sarà un tavolo negoziale per una federalizzazione del paese capace di garantire l’autonomia sostanziale dell’est. È quello che chiede anche Putin quando dichiara: «Devono essere immediatamente avviati negoziati sostanziali non su questioni tecniche, ma sull’organizzazione politica della società e sul sistema statale nel sud-est dell’Ucraina allo scopo di garantire incondizionatamente gli interessi delle persone che vivono lì», ma le sue parole sono tradotte in modo propagandistico dai media velinari: «Voglio uno Stato nell’est». È la stessa richiesta che formula, inascoltato, sul Corriere della Sera, Sergio Romano, tra i pochi ad intendersi di Russia. Federale e neutrale sono le due parole chiave garanzia di pace anche per l’Ue, e certo non aiuta l’elezione a presidente dell’Unione del polacco Tusk, leader della Polonia che vanta un contenzioso storico su una parte della terra ucraina considerata ancora «polacca». Altrimenti sarà, e non a pezzetti, la terza guerra mondiale in piena Europa. E siamo a cento anni fa. È il nuovo che avanza, la «nuova generazione» alla guida europea tanto cara a Renzi. Ora la Mrs Pesc Mogherini, anche se è stata commissariata da un vice-Pesc tedesco, ha l’occasione di dimostrarsi per una volta europea e non schiacciata sull’Alleanza atlantica e sugli Stati uniti. Qualcosa ci dice che non saremo ascoltati.

SVEZIA
REINFELD AL CAPOLINEA
"Il governo perduto di Fredrik Reinfeldt", è il titolo di copertina scelto da Fokus per raccontare gli ultimi giorni di campagna elettorale in Svezia, dove il 14 settembre si svolgono le elezioni politiche. La sua coalizione di centrodestra, al potere dal 2006, nei sondaggi è data al 36,9 per cento contro il 48 del blocco di centrosinistra. Secondo il settimanale, Reinfeldt ha fatto il gravissimo errore di non negoziare per tempo un accordo con gli ambientalisti del Miljòpartiet. Questi, spiega Fokus, hanno deciso quindi di avvicinarsi all’opposizione, e la scelta avrà conseguenze importanti sulle dinamiche ‘ politiche del paese. Con l’appoggio dei verdi, ormai il terzo partito di Svezia e al 10 per cento nei sondaggi, la coalizione guidata dal Partito moderato di Reinfeldt avrebbe potuto garantirsi un altro mandato di governo. Nella situazione attuale, invece, il blocco guidato dal leader socialdemocratico Stefan Lòfven (che oltre agli ambientalisti comprende anche il Partito della sinistra) sembra poter ottenere la maggioranza. Secondo un sondaggio pubblicato da Dagens Nyheter, un’altra forza che avrà un peso significativo nel prossimo parlamento è 1 estrema destra xenofoba dei Democratici svedesi, mentre per la prima volta potrebbe conquistare seggi anche il partito femminista Feministiskt initiativ.

GERMANIA
IL GIGANTE VACILLA Der Spiegel, Germania "I tedeschi vedono il loro paese come una fabbrica di posti di lavoro e un esempio di riforme per l’intera Europa", ma la realtà è meno idilliaca di quello che sembra, scrive Der Spiegel. Il settimanale cita gli studi dell’economista Marcel Fratzscher, direttore del Deutsche Institut fùr Wirtschaftsforschung, uno degli istituti di ricerca economica più autorevoli del paese. Secondo Fratzscher, da anni la Germania ha smesso di investire sul futuro, mettendo a rischio il benessere creato grazie alle riforme introdotte negli anni novanta con l’Agenda 2010, voluta dal cancelliere dell’epoca, il socialdemocratico Gerhard Schròder. I segni sono evidenti in tutto il paese: molte aziende cominciano a investire all’estero; le infrastrutture – come strade ed edifici pubblici – sono in pessime condizioni; sono diminuiti gli investimenti nell’istruzione. Fratzscher ritiene che oggi alla Germania serva un’altra Agenda 2010. Bisogna realizzare un piano di investimenti nelle grandi infrastrutture, che dovrebbe essere finanziato con 1 grandi patrimoni accumulati dall’economia privata tedesca

GB
POVERTÀ, NELLA "RICCA" GRAN BRETAGNA I BAMBINI SONO LE VERE VITTIME DELLA CRISI
Secondo le ultime statistiche raccolte dall’associazione di volontariato e beneficenza Banardo’s, una delle piu’ importanti e diffuse nel Paese, nel Regno Unito 1,6 milioni di piccoli stanno crescendo in case troppo fredde, dove mancano i soldi per il riscaldamento in inverno. Ancora, il 41% dei bambini delle zone definite "povere" vive in famiglie che non si possono permettere di riparare o sostituire un elettrodomestico rotto, mentre per un quarto delle famiglie britanniche e’ praticamente impossibile riuscire a portare i figli in vacanza.
L’associazione – che recentemente ha dichiarato che il taglio al welfare del governo di coalizione fra Tory e libdem potrebbe far scivolare un altro milione di minorenni nella poverta’ – ha inoltre fornito alcuni dati sul rendimento scolastico di questi bimbi poveri (per i quali, comunque, gia’ esiste un programma per i pasti gratuiti, che si basa sul reddito ma che finora non e’ riuscito a coprire tutte le esigenze): solo il 48% dei bambini che hanno o avrebbero diritto ai pasti gratuiti riesce ad avere risultati scolastici definiti "soddisfacenti", contro quasi il 65% del resto dei piccoli. Chi vive in famiglie sotto le diecimila sterline di reddito annuo ha inoltre tre volte di piu’ la possibilita’ di ammalarsi di una malattia cronica, rispetto ai bambini che provengono da famiglie con piu’ di 52mila sterline di reddito annuo. La mortalità infantile, fra i gruppi disagiati, e’ piu’ alta del 10%.
| Autore: fabrizio salvatori
GB
ANCORA UNA SETTIMANA
La crescita nei sondaggi dei sostenitori del sì al referendum sull’indipendenza della Scozia preoccupa sempre di più Londra. Come spiega il Guardian, "i leader dei tre principali partiti britannici (tory, laburisti e liberaldemocratici) stanno mettendo da parte le divisioni per cercare di frenare l’emorragia di voti verso gli indipendentisti". Il io settembre, a una settimana dal voto, David Cameron, David Miliband e Nick Clegg hanno lanciato dalla Scozia, dove negli ultimi mesi non si erano fatti vedere spesso, un ultimo appello all’unità. Il leader indipendentista Alex Salmond ha definito la mossa "il più grave errore della campagna degli unionisti".

SCOZIA
INDIPENDENZA DELLA SCOZIA, CONTINUA VERSO L’ALTO IL TREND DEI SECESSIONISTI
Avanza l’indipendentismo in Scozia e a Londra gli unionisti tremano. Per la prima volta un sondaggio, pubblicato a meno di due settimane dal referendum del 18 settembre, da’ infatti in vantaggio i sì alla secessione dalla Gran Bretagna. La rilevazione – realizzata da You Gov per il Sunday Times e dilagata in apertura su tutti i media britannici – attribuisce ora agli indipendentisti un 51% contro il 49% di coloro che vogliono difendere il legame con l’Inghilterra e con tutto il Regno Unito. | Autore: fabrizio salvatori
SCOZIA
In base al margine di errore statistico si tratta di un pareggio virtuale, ma il dato conferma il trend sempre in ascesa. dei sostenitori del divorzio, partiti piuttosto indietro all’inizio della campagna. Nell’ultimo mese i secessionisti hanno guadagnato infatti piu’ di 10 punti. Ed e’ in particolare fra gli elettori laburisti che si sta assistendo a una repentina svolta: i favorevoli all’indipendenza sono passati in poche settimane dal 18% a oltre il 30%."Ho sempre pensato che potessimo vincere, i sondaggi sono molto incoraggianti", ha dichiarato d’altronde questa settimana il first minister Alex Salmond, capo del governo di Edimburgo e portabandiera del vessillo scozzese con la croce di Sant’Andrea.
"Il nostro atteggiamento non cambia, conta il voto nel referendum", ha continuato a ripetere come in una sorta di mantra il premier britannico David Cameron, assicurando di non essere intenzionato a dimettersi neanche in caso di sconfitta, ma gli ultimi dati scuotono ormai molti ambienti dell’establishment, a cominciare dalla City. Al governo Cameron non pochi imputano in effetti di aver dato fin troppo per scontata la vittoria e di non avere pronto un piano b nel momento in cui la Scozia scommettesse alla fine davvero sulla separazione. I punti su cui eventualmente servirà concordare una separazione ‘amichevole’ tra Londra ed Edimburgo sono tanti: dal destino della sterlina in Scozia a tutti i dossier economico-finanziari, fino ai sottomarini nucleari nelle basi scozzesi.

FRANCIA
ATTAC: INFORMARE, DISCUTERE E AGIRE
A PARIGI SI È TENUTA L’UNIVERSITÀ ESTIVA DELLA PIÙ GRANDE DI TUTTE LE RETI INTERNAZIONALI DI ALTERNATIVA AL NEOLIBERISMO EMERSE DAL MOVIMENTO ALTERMONDIALISTA| Fonte: sbilanciamoci | Autore: Thomas
Dal 19 al 23 agosto, al grido di «informare, discutere, agire», si è tenuta a Parigi la consueta università estiva europea dei movimenti sociali promossa dalla rete Attac. Per chi non lo sapesse, Attac – presente in oltre 40 paesi in Europa, Africa ed America Latina – è probabilmente la più grande di tutte le reti internazionali di opposizione e di alternativa al neoliberismo che sono emerse dal movimento altermondialista che si è sviluppato tra la fine degli anni novanta e i primi anni zero.
Non a caso, l’organizzazione nasce proprio nel 2001, l’anno in cui quel movimento raggiunse il suo apice, per poi essere brutalmente stroncato nelle strade di Genova. Il risultato (voluto) della sanguinosa strategia repressiva di quei giorni fu quello di frantumare un movimento forte, unitario ed internazionalista – un movimento che univa la critica alle multinazionali alla difesa dei beni comuni, l’ecologia alla democrazia partecipativa, l’analisi lucida delle trasformazioni globali in corso alle battaglie locali (o «glocali», come si diceva al tempo), un movimento che quando marciava era sempre un fiume in piena (molti al tempo furono i paragoni con il movimento del ’68) – in una miriade di rivoli localistici segnati dalla paura, dal disincanto e dalla consapevolezza che forse, in fondo, un altro mondo non è possibile. Questo è senz’altro vero per l’Italia, ma non solo, e gli effetti si sentono ancora oggi. Eppure, per chi era a Parigi nelle giornate del forum, la sensazione sorprendente era quella di essere tornati indietro di quindici anni.
Merito in buona parte di Attac (e degli innumerevoli gruppi che ad esso fanno riferimento), che in questi anni ha tenuto vivo – soprattutto in Francia, patria dell’organizzazione – lo spirito e le battaglie dell’altermondialismo, e in particolar modo la capacità di quel movimento di unire le battaglie sui singoli temi a una critica profonda, radicale e sistemica dell’attuale modello economico e sociale. Rispondendo chiaramente a un bisogno che oggi come ieri continua ad essere presente nella società, come dimostra la straordinaria risposta della gente: più di 2,000 gli attivisti discesi su Parigi da tutta Europa (molti anche gli invitati dall’Africa, dall’Asia e dalle Americhe) per l’evento.
Quindi non solo crisi e austerity al centro dei dibattiti, ma anche: cambiamento climatico, democrazia diretta, riconversione ecologica, trasformazione dei modelli produttivi e di consumo, trattati commerciali (a partire ovviamente dal Ttip, il famigerato accordo di libero scambio Europa-Usa), sovranità alimentare, finanza, geopolitica e imperialismo, primavere arabe, l’ascesa dell’estrema destra in Europa, e tanto altro. Della crisi sociale, economica e politica provocata dalle politiche della troika, del futuro dell’euro e delle alternative possibili hanno discusso per tre giorni, nell’aula magna stracolma dell’Università di Parigi VII-Diderot sulle rive della Senna: Trevor Evans (Euro Memo), Mariana Mortagua (Bloco de Esquerda, Portogallo), Dominique Plihon (Economistes Atterrés, Francia), Mario Pianta (Sbilanciamoci!), Cristina Asensi (Attac Spagna), Thilo Bolde (Greenpeace Germania), Aris Chatzistefanou (regista di Debtocracy ) e altri.
Numerosi e variegati i toni degli interventi: cognizione dei rischi che un’eventuale disgregazione della zona euro comporterebbe per l’Europa (e in particolare per le economie più deboli del continente) ma anche crescente scetticismo sulla capacità di rompere la gabbia dell’ austerity all’interno del processo «democratico» ed istituzionale europeo; consapevolezza della probabile necessità di un’insubordinazione, di una forzatura o rottura nazionale delle regole europee (che non vuol dire necessariamente uscire dall’euro ma semmai usare questo come strumento di pressione o ricatto nei confronti dell’ establishment conservatore), ma anche del fatto che tutta la differenza la fa se questo avviene "da sinistra" (come si sta tentando di fare in Grecia, in Spagna e in Portogallo) o piuttosto «de destra», come sta avvenendo in Francia, dove è il Front national di Marine Le Pen a intercettare il crescente anti-europeismo dei francesi. Consapevolezza anche del fatto che forse uno dei problemi principali è che i movimenti sociali non hanno ancora un’alternativa chiara da proporre, e quindi che è solo continuando a incontrarsi, a discutere e a scambiarsi idee, lotte ed esperienze che si riuscirà ad uscire insieme dalla crisi in corso. Cruciali a tal proposito i prossimi appuntamenti dell’agenda dei movimenti sociali europei, tra cui la grande manifestazione indetta da Blockupy in occasione dell’inaugurazione del nuovo edificio della Bce a Francoforte, a inizio 2015, ma soprattutto la 21esima conferenza mondiale sul clima, che si terrà a Parigi alla fine dell’anno prossimo.

SPAGNA
È UN VIGILE DEL FUOCO L’EROE DELLA LOTTA CONTRO GLI SFRATTI
Il suo nome Roberto Rivas a molti, soprattutto in Italia, non dirà nulla. Ma lui, che di mestiere fa il vigile del fuoco è diventato un simbolo della lotta agli sfratti nel suo paese, la Spagna (Autore: fabio sebastiani)
Più di un anno fa, precisamente il 18 febbraio del 2013, si rifiutò di spezzare la catena che chiudeva la porta di casa di Aurelia Rey, affinché la donna di 85 anni non venisse sfrattata dal suo appartamento, in cui viveva da oltre trent’anni. Grazie al gesto, l’anziana signora riuscì a rimanere altri due mesi in casa prima di trasferirsi in un appartamento più economico.
Così è cominciato il processo a suo carico e proprio nel tribunale della sua città, Coruna, in Galizia. E’ stato accusato di "provocare reazioni che potrebbero alterare la sicurezza cittadina". Per quel gesto del 18 febbraio è stato condannato a pagare una multa e lui ha fatto ricorso.
Rivas è diventato un simbolo della lotta per la casa in Spagna: spesso è stato fotografato in prima linea alle manifestazione per il diritto all’abitare e con in mano striscioni e cartelli con scritto "no agli sfratti". "Non è stato un atto premeditato", ha detto l’altro giorno in tribunale, volendo sottolineare la reazione istintiva di fronte a un grande atto di palese ingiustizia. Nel 2013, nel pieno della crisi economica, quasi 50mila famiglie hanno perso la casa perchè non potevano pagare l’affitto o le rate del mutuo, in quella che in Spagna era diventata una vera e propria emergenza sociale

ANDORRA
Un paradiso in crisi
"Ad Andorra niente è più come una volta", scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Il
piccolo stato sui Pirenei, incastonato tra la Spagna e la Francia, non è più "il paradiso fiscale che attira discreti banchieri, ma una sorta di duty free che, grazie all’iva al 4 per cento, alimenta un flusso di visitatori in cerca di alcol, sigarette, profumi ed elettrodomestici a basso costo". Negli ultimi anni il governo di Andorra ha dovuto cedere alle pressioni dell’Unione europea e abolire il segreto bancario, adeguando il suo sistema finanziario alle regole del resto d’Europa. "I grandi investitori e i clienti più ricchi, però, hanno subito portato via i loro soldi". E la misura non colpisce solo gli stranieri, ma anche gli andorrani, che hanno perso molti privilegi. Ora Andorra ha deciso di rilanciare la sua economia puntando sul turismo, sui servizi finanziari compatibili con le nuove regole e sull’agricoltura.

PAESI BASSI
UN RAPPORTO MOPLTO PRUDENTE
Il 9 settembre le autorità olandesi hanno pubblicato il primo rapporto sul volo MH17, precipitato il 17 luglio in un’area dell’Ucraina controllata dai filorussi mentre era in volo da Amsterdam a Kuala Lumpur. Nell’incidente sono morte 298 persone. L’indagine non individua cause precise, ma sostiene che l’aereo è stato abbattuto da "oggetti esterni ad alta potenza". Il rapporto, scrive Der Tagesspiegel, "è scritto in modo prudente per non mettere a rischio la tregua in corso in Ucraina. Se non ci sono prove certe, non è il momento per puntare il dito".

POLONIA
II 9 settembre il primo ministro Donald Tusk si è dimesso per assumere l’incarico di presidente del consiglio europeo. Sarà sostituito da Ewa Kopacz, attuale presidente della camera bassa del parlamento.

RUSSIA-ESTONIA
II 5 settembre il governo estone ha accusato le forze di sicurezza russe di aver varcato il confine tra i due paesi per rapire un poliziotto estone, che poi è stato accusato di spionaggio. Le tensioni tra la Russia e i paesi baltici sono in aumento a causa della crisi in Ucraina

UE
LA SQUADRA DI JUNKER
Il francese Pierre Moscovici agli affari economici, l’irlandese Phil Hogan all’agricoltura, la svedese Cecilia Malmstrom al commercio, il britannico Jonathan Hill alla stabilità finanziaria e il greco Dimitris Avramopoulos al nuovo portafoglio dell’immigrazione. Sono alcune delle figure che faranno parte della nuova Commissione europea annunciata il 10 settembre dal presidente Jean-Claude Juncker. L’esecutivo comunitario sarà composto da 19 uomini e 9 donne, come quello uscente guidato da José Manuel Barroso, e avrà sette vicepresidenti, tra cui Federica Mogherini, alta responsabile per la politica estera, e l’ex premier finlandese Jyrki Katainen, che si occuperà anche di occupazione e crescita. Tredici commissari sono del Partito popolare, mentre i socialisti sono otto e i liberali cinque. Come spiega Le Monde, "l’accordo è stato raggiunto dopo trattative lunghe e complesse, ma il risultato è una commissione più forte e più politica di quella di Bar-roso". Inoltre, commenta il quotidiano, "molte delle figure scelte sono di primo piano, e questa volta nessuno può accusare Bruxelles di riciclare politici ormai indesiderati nei loro paesi".

MEDIO ORIENTE
TURCHIA
TROPPI MORTI SUL LAVORO / DIECI OPERAI EDILI SONO MORTI IL 6 SETTEMBRE A ISTANBUL NEL CROLLO DI UN ASCENSORE IN UN EDIFICIO IN COSTRUZIONE. La tragedia ha scatenato le proteste di centinaia di persone (nella foto) che sono scese in piazza per denunciare la mancanza di sicurezza sul lavoro, gridando slogan come "Questo non è un incidente, è un omicidio". "A maggio", scrive Hùrriyet, "i responsabili della miniera di Soma, dove hanno perso la vita 301 minatori, hanno cercato di spiegarci che tutto era in regola e che si è trattato solo di un incidente. Oggi succede qualcosa di simile. Quando ci si preoccupa più dei profitti che della giustizia, le vittime diventano un fatto normale. Ogni incidente sul lavoro che non viene punito con pene seve re è un una ‘licenza di uccidere’ che causerà altri morti".

ISRAELE-PALESTINA
Scontri a Gerusalemme
Almeno cinquanta palestinesi sono rimasti feriti nelle violenze del 7 settembre a Gerusalemme tra i soldati israeliani e le persone che partecipavano al funerale di Mohamed Abdul Majid Sunuqrut, 16 anni, morto per le ferite riportate negli scontri con le forze di sicurezza israeliane una settimana prima. Ha’aretz scrive che il 10 settembre i militari israeliani hanno ucciso un altro giovane palestinese, Issa Kha-led al Qatri, 22 anni, nel campo profughi Al Amari, vicino a Ramallah. I militari avevano fatto irruzione nel campo per arrestare un militante di Hamas facendo scoppiare una rivolta. Sostengono di aver sparato a Qatri perché il ragazzo gli stava lanciando contro un ordigno esplosivo. Secondo l’Olp, dal 13 giugno al 28 agosto 32 palestinesi sono stati uccisi e 1.753 sono stati arrestati dalle forze israeliane in Cisgiordania.
SIRIA
Almeno 28 capi del gruppo ribelle islamico Ahrar al Sham, tra cui il leader Hassan Abbud, sono morti il 9 settembre in un attentato nella provincia di Idlib, nel nordovest del paese.

AFRICA
MOZAMBICO
FINE DELLE OSTILITÀ / L’accordo di pace firmato il 5 settembre a Maputo dal presidente Armando Guebuza (a sinistra nella foto), del partito Frelimo, e dal leader ribelle Afonso Dhlakama {a destra), del movimento Renamo, ha messo fine a due anni di conflitto. La firma arriva a poche settimane dalle elezioni del 15 ottobre, a cui Guebuza non potrà ricandidarsi, scrive il Mail & Guardian. Al momento della firma Dhlakama ha espresso il desiderio che "l’accordo metta fine al governo del partito unico" (il Frelimo governa dall’indipendenza, nel 1-975) Secondo l’accordo i combattenti della Renamo saranno integrati nell’esercito

SUDAN
Chiusura sospetta / Il 2 settembre a Khartoum è stato chiuso il più importante centro culturale iraniano. Secondo il ministero degli esteri sudanese, promuovendo l’islam sciita, il centro minacciava "la stabilità sociale e intellettuale del paese". Le relazioni tra Iran e Sudan sono sempre state buone, osserva Middle East Eye: la chiusura del centro rifletterebbe quindi nuove pressioni esterne, in particolare quelle dei sauditi. Pochi giorni dopo, la Libia ha espulso un diplomatico sudanese accusando Khartoum di "fornire armi ai terroristi

YEMEN
CLIMA TESO NELLA CAPITALE / Il 9 settembre la polizia yemenita ha sparato contro la folla che voleva occupare gli uffici del governo a Sana’a, uccidendo sette attivisti sciiti houthi. Dalla metà di agosto nella capitale il clima è teso perché decine di migliaia di manifestanti provenienti dal nord del paese, vicini alla ribellione degli houthi, si sono accampati nei quartieri periferici chiedendo le dimissioni del governo e il ripristino dei sussidi sul carburante, scrive Al Jazeera. Il 7 settembre tredici ribelli erano morti nei bombardamenti governativi sulla provincia settentrionale di Al Jawf.

NIGERIA
BOKO HARAM IN CAMERUN
HOW SHEKAU WENT WILD, STARTED BEHEADING VICTIMS’ 7 Alla fine di agosto i terroristi di Boko haram hanno lanciato una grande offensiva nel nord della Nigeria e ormai controllano sei località: Gwoza (la città di zoomila abitanti dove il 24 agosto è stato proclamato il "califfato"), Gamboru-Ngala e Banki, nello stato di Borno; Michika e Gulak, in quello di Adamawa; Buni-Yadi, in quello di Yobe. Le città di Bama e Damboa sono state riconquistate dall’esercito nigeriano, mentre l’8 e il 9 settembre i combattimenti tra esercito e miliziani si concentravano a Mubi, scrive Vanguard. La minaccia di Boko haram si estende anche oltre il confine con il Camerun, fa notare Jeune Afrique. Negli ultimi mesi nell’estremo nord del paese è stata denunciata la scomparsa di molti giovani – almeno tremila, secondo un giornalista del posto – che sarebbero stati reclutati dalla setta islamica. Le autorità di Abuja hanno chiesto aiuto alla comunità internazionale perché l’esercito nigeriano non è in grado di fermare l’avanzata dei terroristi. Oltre ad aver causato quattromila morti nel 2014, il conflitto ha costretto migliaia di nigeriani a scappare in Camerun, in Ciad e in Niger (Vanguard, Nigeria)

BURUNDI
II 9 settembre la polizia ha annunciato l’arresto del presunto assassino di tre suore italiane in un convento alla periferia di Bujumbura. Le vittime sono Lucia Pulici, Olga Raschietti e Bernardetta Boggian.

TUNISIA
II 6 settembre il partito islamico moderato Ennahda ha annunciato che non presenterà un candidato alle elezioni presidenziali del 23 novembre per favorire la formazione di un governo che rappresenti tutti i tunisini. Ennahda è il partito favorito alle elezioni legislative del 26 ottobre.

ASIA & PACIFICO
AUSRALIA
Nato. L’Australia diventa partner di primo piano dell’alleanza / L’Australia diventerà un partner ‘enhanced’ (di primo piano) della Nato: l’intesa verrà firmata dai ministri degli Esteri Julie Bishop e della Difesa David Johnston al vertice dei leader dell’alleanza questa settimana in Galles.
Lo ha confermato Bishop, che ha definito l’invito “un raro onore per l’Australia e per le forze di difesa australiane”. L’Australia manterrà la propria autonomia sulle dimensioni e il carattere della partecipazione ad operazioni a guida Nato, ha precisato il ministro. Pur non facendo parte dell’Alleanza Atlantica, il coinvolgimento dell’Australia è cresciuto nell’ ultimo decennio, partecipando al coinvolgimento più lungo della Nato, la missione Isaf in Afghanistan.
NUOVA CALEDONIA
VOGLIA DI INDIPENDENZA
"Quando l’esploratore James Cook il 4 settembre del 1774 vide per la prima volta l’isola melanesiana di Grande Terre, le sue montagne gli ricordarono le highlands scozzesi, così decise di chiamare quel posto Nuova Caledonia (il nome latino dell’odierna Scozia)", 1 scrive Inside Story. "Oggi la Nuova ,——Caledonia e quella vecchia sono unite da un elemento comune: in entrambi i territori è in corso un dibattito sull’indipendenza". Come gli scozzesi, che il 18 settembre voteranno per decidere se rimanere nel Regno Unito, entro il 2018 gli abitanti dell’isola nel Pacifico terranno un referendum sull’indipendenza dalla Francia. Nel 1998 un accordo mise fine alle violenze tra le autorità e gli indipendentisti scoppiate negli anni ottanta e decreto 1 inizio del periodo di transizione che porterà al referendum entro il 2018. La disuguaglianza economica tra gli abitanti di origine europea, che vivono nella ricca regione meridionale e sono un terzo del totale, e il resto della popolazione è sempre stata fonte di tensioni II riconoscimento di una maggiore autonomia al territorio d oltremare annesso dalla Francia nel 1853 ha cercato di attenuarle. (Inside Story, Australia )

FIJI
ALLE URNE DOPO OTTO ANNI
Il 17 settembre alle Fiji si terranno le prime elezioni in otto anni e Fiji first, il partito del primo ministro Frank Bainimarama, l’ex comandante militare che nel 2006 ha preso il potere, sembra essere in vantaggio, scrive il New Zealand Herald. Gli attivisti a favore della democrazia nell’arcipelago temono per la trasparenza delle operazioni di voto, in particolare dopo che la commissione elettorale è stata accusata di corruzione per aver stampato 700mila schede mentre gli elettori registrati sono 59omila. Inoltre, lamenta l’opposizione, il governo ha usato soldi pubblici per la campagna elettorale di Fiji first.

GIAPPONE
II 10 settembre l’autorità giapponese per l’energia nucleare ha dato il via libera tecnico alla riapertura di due reattori della centrale di Sendai. Al momento nessuno dei 48 reattori del paese è in funzione.

MALESIA
ABOLIRE IL REATO DI SEDIZIONE

Nel 2012 l’annuncio che il primo ministro Najib Razak aveva intenzione di abolire il reato di sedizione, un retaggio dell’era coloniale britannica, colse tutti di sorpresa e suscitò grandi aspettative per una maggiore libertà nel paese. A distanza di due anni, però, nulla è cambiato e in nome della legge antisedizione molte persone (cinque solo nell’ultimo mese) sono indagate e rischiano fino a tre anni di carcere, scrive The Diplomat. "La legge dà un’interpretazione ampia del termine sedizione, in modo da comprendere qualsiasi forma di dissenso", spiega il presidente dell’associazione nazionale dei giovani avvocati, Syah-redzan Johan, che il 4 settembre ha lanciato una campagna per l’abolizione della legge. Un movimento di sensibilizzazione simile è stato lanciato anche da un centinaio di ong che nelle scuole terranno lezioni sull’argomento. Il governo ha risposto annunciando che nel 2015 presenterà al parlamento una serie di disegni di legge sostitutivi.

AFGHANISTAN
L’8 settembre Abdullah Abdullah ha nuovamente rivendicato la vittoria nelle elezioni presidenziali del 14 giugno. È in corso un riconteggio dei voti del secondo turno con la supervisione delle Nazioni Unite.

PAKISTAN
Almeno 24 persone sono morte il 9 settembre nel crollo di una moschea a Lahore.
KARACI
MANIFESTANTI PAGATI
Centinaia di manifestanti che nelle ultime settimane hanno presidiato le sedi amministrative a Islamabad sarebbero stati pagati dal partito di Tahirul Qadri, il religioso a capo del movimento anticorruzione Pakistan awami tehrik. Lo rivela la Bbc dopo aver raccolto le testimonianze di diversi studenti che hanno raccontato di essere stati reclutati con un compenso pari a 46 euro e obbligati a rimanere sul luogo del presidio. Alle donne che avessero portato con sé dei bambini era stato promesso un compenso più alto.

CINA
DESERTO INQUINATO
Nonostante le inchieste giornalistiche che nel 2012 avevano messo in luce il problema dell’inquinamento nella Mongolia Interna, le industrie locali continuano a scaricare le acque reflue nel deserto del Tengger. Responsabili dell’inquinamento, che mette a repentaglio le falde acquifere, sono alcune industrie chimiche del parco industriale di Tengri, scrive Beijing News. Secondo la testimonianza di un funzionario locale, nel 2012 erano stati chiusi quindici impianti, ma successivamente i controlli sono diminuiti permettendo agli stabilimenti di continuare a inquinare. Inoltre i residenti denunciano la presenza di guardie assoldate dalle fabbriche per tenere lontana la gente dagli stagni maleodoranti.

INDIA.
VARATO IL NUOVO PROGRAMMA NUCLEARE: MA C’È CHI TEME UN’ALTRA FUKUSHIM. L’India procede spedita verso la riforma del nucleare: accordo con l’Australia, ma crescono i timori
L’India vara il nuovo programma nucleare: ma c’è chi teme un’altra Fukushima 03/09/2014 – L’India fa sul serio con il nucleare: in tal senso sono iniziati gli incontro bilaterali con il Governo australiano la firma di un accordo per aprire alla società giapponese Tepco, la stessa di Fukushima, la possibilità di costruire diverse centrali nucleari in India da 90.000 milioni. La Tepco è tristemente famosa per il disastro nucleare di Fukushima . Il timore adesso in India è il ripetersi di un disastro simile a quello che ha messo in ginocchio il Giappone. “La sicurezza nucleare è una preoccupazione pressante in questo paese- ha detto il professore di Jawaharlal Nehru University Happymon Jacob – e l’India insiste sul fatto che il suo programma è abbastanza sicuro, ma la mia tesi è che abbiamo bisogno di approfondire l’argomento e poi vediamo che il regolamento in materia nucleare è nelle mani del governo e non un regolatore completamente indipendente”. Per molti l’India non ha quegli standard di sicurezza tali da rendere sicuro un programma nucleare. Anche se la lezione del disastro nucleare di Fukushima è servita ad imparare molti errori, si teme che in India possa ripetersi un disastro del genere. Vedremo se gli investimenti proseguiranno comunque: l’Australia intravede molte potenzialità e TEPCO mira a ricostruire la propria immagine.

AMERICA CENTRO-MERIDIONALE
MESSICO
TORTURA E IMPUNITÀ
IL 4 SETTEMBRE AMNESTY INTERNATIONAL HA PUBBLICATO UN RAPPORTO SULLA TORTURA IN MESSICO. Anche se il fenomeno non è nuovo nel paese, i dati sono allarmanti: "Tra il 2010 e il 2013 la Commissione nazionale per i diritti umani del Messico ha ricevuto più di settemila denunce per casi di tortura, detenzioni arbitrarie e altri maltrattamenti. Ma nessuna di queste denunce si è conclusa con una condanna penale", scrive Animai Politico. La tortura durante gli interrogatori è usata spesso dalla polizia e dai militari, e l’impunità per chi commette questi abusi è quasi totale. La giustizia non indaga e non punisce. Numero di denunce per tortura e altri maltrattamenti ricevute dalla Commissione nazionale per i diritti umani del Messico
2003 219
2004 273
2010 I.524
2011 2.021
2012 2.114
2013 1505

VENEZUELA
RIMPASTO IN TONO MINORE / "Il 2 settembre il presidente del Venezuela, Nicolàs Maduro, ha annunciato un rimpasto di governo per affrontare i cambiamenti necessari a superare la crisi economica", scrive El Nacional. Su Prodavinci Margarita Lopez Maya sostiene che "il rimpasto è più un riequilibrio di poteri interno al chavismo che una risposta alla crisi economica. Da quando ha vinto le elezioni, Maduro ha sempre dovuto dimostrare di essere in grado di guidare il chavismo senza Chàvez. L’economia non è certo una sua priorità".

BRASILE
CONFESSIONI PERICOLOSE
LE RIVELAZIONI DI PAULO ROBERTO COSTA, dirigente dell’azienda petrolifera statale brasiliana Petrobras dal 2004 al 2012, hanno scosso la già accesa campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 5 ottobre. Il settimanale conservatore Veja riferisce che Costa, arrestato a marzo del 2013 con l’accusa di riciclaggio di denaro e di occultamento delle prove, avrebbe accettato di collaborare con la giustizia rivelando i nomi di quaranta politici coinvolti in operazioni illegali con l’azienda. Tra questi ci sarebbero l’attuale presidente del senato Renan Calheiros, il candidato alla presidenza dei socialisti Eduardo Campos, morto il 13 agosto in un incidente aereo, e vari deputati e ministri del Partito dei lavoratori di Dilma Rousseff. Secondo Costa, prendevano una commissione del 3 per cento sui contratti firmati con la Petrobras. Molti giornali sostengono che le rivelazioni di Costa, da confermare, potrebbero mettere in difficoltà la presidente Rousseff, candidata a un nuovo mandato (Veja, Brasile)

BOLIVIA
LA PAZ
IL FORO BOLIVIANO: DIALOGO A SINISTRA
Dal 24 al 29 Agosto si è tenuto il 20° Incontro del Foro di Sao Paulo a La Paz, capitale della Bolivia. L’evento ha riunito quasi 200 delegati di partiti ed organizzazioni della sinistra latinoamericana e dei Caraibi, con la presenza tra gli altri di una nutrita delegazione di invitati europei. Autore: Marco Consolo Impegnativo il programma: “Per l’Agenda della Patria Grande: sconfiggere la povertà e la contro-offensiva imperialista. Conquistare la pace, l’integrazione ed il Vivir bien nella nostra America”. Il filo conduttore è stato il bilancio dell’esperienza dei governi progressisti e di sinistra di vario conio e soprattutto un’analisi della contro-offensiva imperiale che si fa sentire in molti dei Paesi della regione. Basti pensare al Venezuela, a Cuba , ed alla “guerra finanziaria dei “fondi avvoltoi” contro il governo dell’Argentina. Questa volta è stata massiccia la presenza delle organizzazioni sociali boliviane, mobilitate per seguire i lavori del Foro, che per la prima volta si è riunito nella capitale boliviana. Un’occasione ghiotta che i movimenti non si sono fatti sfuggire. Le aule ed i corridoi nel nuovo centro fieristico di La Paz, erano colorati dalle “wipala”, dai cappelli e dai vestiti tradizionali delle donne boliviane, espressione tangibile delle 34 nazionalità, riconosciute costituzionalmente dallo Stato Plurinazionale della Bolivia.
Impossibile riassumere 5 giorni di discussioni a tutto campo. Tra le altre attività, durante l’incontro si è tenuta una Scuola di Formazione Politica sulla crisi del capitalismo, riunioni dei giovani, delle donne, degli afro-discendenti, dei parlamentari, degli eletti locali, un incontro tra le Fondazioni e gli Istituti di ricerca, così come una riunione dedicata alla “diplomazia dei popoli” Tra i più seguiti un interessante seminario sui governi progressisti della regione e le sfide da affrontare.
Affollati anche i 13 seminari tematici dedicati all’attualità continentale ed alle alternative al modello di sviluppo, in particolare il “vivir bien” in armonia con la madre terra, la “pacha mama” nella cosmovisione dei popoli originari di “Abya Yala”, il nome pre-colombino del continente. Di fronte al rischio di “ri-primarizzazione dell’economia” e di estrattivismo selvaggio in molti Paesi della regione la discussione verte su un possibile modello di un’economia plurale, in un continente che vuole approfondire la sua integrazione. Dopo il Venezuela, anche Ecuador e Bolivia si accingono ad entrare nel Mercosur.
Per l’Italia da molti anni anche Rifondazione Comunista partecipa come invitato ai suoi lavori ed ha salutato nella plenaria questa importante riunione. Anche in questa occasione si è avanzato nei rapporti con il resto dei partiti e movimenti sociali della regione, intercambiando esperienze di vittorie, di sconfitte, di lavoro e di buone pratiche. L’obiettivo politico è quello di rafforzare una agenda comune di riflessione e mobilitazioni che si è costruita negli anni, anche insieme al resto del Partito della Sinistra Europea.
IL CAMMINO PERCORSO
Molta acqua è passata da quando, nel 1990, il Foro di Sao Paulo fu fondato nell’omonima città brasiliana, su invito del Partito dei Lavoratori (PT) allora diretto dal lider sindacale Luiz Inácio Lula da Silva, in seguito eletto presidente del gigante latino-americano. L’obiettivo iniziale era quello di discutere il nuovo scenario internazionale dopo il crollo dell’Unione Sovietica e del muro di Berlino, l’impatto dei governi neo-liberisti nella regione e la necessità di una alternativa popolare e democratica all’onda lunga del neoliberismo, ancora egemone a livello mondiale. A quel primo incontro parteciparono 48 partiti ed organizzazioni che rappresentavano le diverse matrici politico-ideologiche della regione, tutte all’opposizione. L’unica forza di sinistra al governo era il Partito Comunista di Cuba.
NACQUE COSÌ L’IDEA DI UNA MAGGIORE INTEGRAZIONE CONTINENTALE ATTRAVERSO L’INTERCAMBIO DI ESPERIENZE, LA DISCUSSIONE DELLE DIFFERENZE E LA RICERCA DI CONSENSO PER LE AZIONI DELLA SINISTRA REGIONALE.
Oggi, 24 anni dopo, molti dei partecipanti sono al governo o si consolidano come le principali forze dell’opposizione. Dopo il primo incontro del Foro del 1990, il primo a vincere nel 1998 fu Hugo Chavez con il primo governo di sinistra nel continente dopo decenni. Poi, nel 2002, fu la volta di Lula in Brasile alla testa di una coalizione di centro-sinistra. Seguirono poi Tabaré Vázquez del Frente Amplio in Uruguay nel 2004, Evo Morales con il Movimento al Socialismo in Bolivia nel 2005 e via via gli altri. L’ultimo in ordine di tempo è stato El Salvador dove nel giugno scorso si è insediato il Presidente Salvador Sanchez Ceren, ex-comandante guerrigliero del Frente Farabundo Martì (FMLN).
OGGI SONO PIÙ DI 10 I PAESI GOVERNATI DA PARTITI DEL FORO, DA FORZE PROGRESSISTE, RIVOLUZIONARIE E DI SINISTRA, CON ESPERIENZE DIVERSE, MA CON UNA AGENDA DI INTEGRAZIONE CONTINENTALE IN PARTE COMUNE.
Negli anni ’90 dello “tsunami” neo-liberista hanno resistito, poi sono passati all’offensiva e infine hanno affrontato la prova del governo.
Non c’è dubbio che la resistenza è stato fattore di unità dal basso nelle mobilitazioni sociali ed il nuovo blocco sociale si è costruito nel conflitto.
GARCÍA LINERA: APPROFONDIRE LA DEMOCRAZIA VERSO IL SOCIALISMO
Tra gli interventi più significativi, quello di Álvaro García Linera, Vice-Presidente della Stato Plurinazionale della Bolivia. Citando Antonio Gramsci più volte nel suo intervento, Garcìa Linera ha esaminato la fase continentale, passando per la Bolivia, ed ha concluso indicando 5 compiti per il futuro prossimo.
“Solo 15 anni fa il neo-liberismo era la Bibbia, oggi lo stiamo gettando nella spazzatura della storia, da dove non sarebbe mai dovuto uscire”, ha detto García Linera. “Oggi il mondo è un altro. La storia continua, l’ideologia e la falsa narrazione della fine della storia sono crollate con il sorgere delle lotte, di progetti e di ribellioni che si sono allargati a tutta L’america Latina”.
Secondo García Linera il primo obiettivo raggiunto è la democrazia come metodo per approfondire i processi rivoluzionari. “Nel passato avevamo assunto la democrazia come una tappa sospettosa, precedente alla rivoluzione, e ci eravamo preparati per questo. Le dittature ci avevano fatto visualizzare questa tappa previa a un processo che chiamavamo Rivoluzione” ha continuato García Linera. “Oggi in Bolivia abbiamo un governo dei movimenti sociali, grazie alla resistenza dei movimenti negli anni bui del’attacco neo-liberista”.

NELLE SUE CONCLUSIONI, IL VICEPRESIDENTE BOLIVIANO HA PARLATO DI 5 COMPITI PER LA SINISTRA CONTINENTALE:
Innanzitutto difendere ed ampliare i risultati ottenuti in quello che ha definito come “Post-neoliberismo”. Difendere e approfondire quello che si è ottenuto fin qui, prendendo in considerazione i rapporti di forza reali, per poter ampliare a tutti i benefici delle trasformazioni in atto.
Secondo, migliorare i risultati economici e raggiungere un modello di sviluppo sovrano ed indipendente a livello nazionale. A partire dalle proprie peculiarità, costruire un modello di sviluppo complementare e plurale, basato sulla cooperazione per l’integrazione. Garantire crescita economica e ridistribuzione a favore dei più poveri ed oppresi.

TERZO, approfondire la democrazia, ampliando la partecipazione popolare, istallando e rafforzando i canali istituzionali per l’inclusione, per la costruzione di una nuova società, sempre più democratica, verso il socialismo. Non sarà un processo facile, nè lineare. Dobbiamo promuovere la creazione di reti produttive partecipative, potenziando la tendenza socialista nelle mani dei settori produttivi. Partecipazione e produzione devono esere al servizio di tutti, dello “stato integrale” di gramsciana memoria.
QUARTO, occorre saper affrontare le contraddizioni inevitabili e le tensioni emergenti all’interno di processi democratici: la costruzione dell’egemonia è fatta di autorità morale, consolidando il nucleo fondamentale ed incorporando le tendenze sociali più avanzate alle idee di cambiamento. Sapendo sommare ed ampliare la base sociale ad altri settori.
Il punto centrale del suo discorso è stata la consapevolezza delle tensioni tra Stato e movimenti sociali e della dialettica necessaria per avanzare; in sintesi essere capaci di costruire il “nuovo blocco sociale del cambiamento”, dando potere al popolo e democratizzando l’apparato statale.
QUINTO ed ultimo compito, quello di approfondire l’integrazione regionale, costruendo la complementarietà produttiva. La sua base materiale è l’integrazione economica. La sfida è passare dalle riunioni e dai discorsi, all’integrazione economica reale. «Mentre abbiamo difficoltà sul versante dell’integrazione económica, l’integrazione continentale mostrerà i suoi limiti. E’ necessario basare l’integrazione politica, ideologica e culturale su quella economica, materiale e tecnologica», ha insistito Linera.
L’INCONTRO CON LA SINISTRA EUROPEA
Non c’è dubbio che oggi il Foro di Sao Paulo è l’articolazione politica più importante del continente. Al suo interno convivono tutte le anime della sinistra latino-americana ed anno dopo anno, nuove organizzazioni chiedono l’affiliazione. Ad oggi sono più di 100 i partiti che ne fanno parte.
Da tempo il Foro è un’interlocutore prioritario per la sinistra alternativa europea e questa volta alla riunione tra il Partito della Sinistra Europea ed il Foro di Sao Paulo erano presenti ben 18 partiti.
Tra i punti di forte attenzione vi è la crisi europea, soprattutto per i suoi contraccolpi sul continente. Secondo un’ analisi condivisa, l’Unione Europea sta attraversando una fase di “austerità” del tutto simile a quella dei famigerati “Piani di Aggiustamento Strutturale” del cosiddetto “Consenso di Washington”, che in passato tanti danni ha provocato in America latina e nei Caraibi.
Nei rapporti tra l’Unione Europea ed i governi del continente, figurano in primo piano i Trattati di Libero Commercio (mascherati da “Accordi di Associazione”) su cui le lobby padronali di Bruxelles stanno lavorando da tempo per scaricare i costi della crisi verso altri lidi. Insieme a quello firmato con il Centroamerica (CAFTA) e quelli bilaterali con Colombia, Perù e recentemente l’Ecuador, la UE è ancora in fase negoziale con il Mercosur. Tra i nodi, quello sulla proprietà intellettuale, la protezione degli investimenti esteri e la possibilità per le grandi imprese europee di entrare nelle commesse pubbliche in condizioni di evidente asimmetria. Non a caso, percentuali importanti dei profitti delle multinazionali “europee” dell’energia, della finanza, delle telecomunicazioni, vengono proprio da qui.
Tra i temi di una agenda comune di mobilitazioni necessarie, oltre al tema delle multinazionali, anche il debito estero, le migrazioni e la lotta per la pace.
Il prossimo appuntamento del Foro è a Città del Messico nel 2015.

MESSICO
PAESE DELLA TORTURA. RAPPORTO SHOCK DI AMNESTY INTERNATIONAL
SECONDO UN RAPPORTO DI AMNESTY INTERNATIONAL, IN MESSICO NEGLI ULTIMI 10 ANNI I CASI DI TORTURA E MALTRATTAMENTI SONO AUMENTATI DEL 600 PER CENTO. L’ORGANIZZAZIONE PER I DIRITTI UMANI HA CHIESTO AL GOVERNO MESSICANO DI AGIRE PER FERMARE IL MASSICCIO E COSTANTE USO DELLA TORTURA DA PARTE DELLE FORZE DI POLIZIA E DELL’ESERCITO. | Autore: fabrizio salvatori
Il rapporto, intitolato “Fuori controllo: torture e maltrattamenti in Messico” – il primo di una serie di cinque rapporti prodotti nell’ambito della campagna globale “Stop alla tortura” di Amnesty International – descrive il grave aumento del fenomeno e la dominante cultura di accondiscendenza e impunità che lo alimenta. I responsabili di tortura condannati dalle corti federali sono solo sette e il numero di quelli condannati dalle corti statali è ancora più basso.
“Le autorità non possono continuare a chiudere un occhio nei riguardi della tortura. La continua mancata applicazione delle garanzie per prevenire la tortura e i maltrattamenti e l’inadeguatezza delle indagini sulle denunce, dicono che il governo sta venendo meno al dovere di proteggere i diritti umani” – ha dichiarato Erika Guevara Rosas, direttrice del Programma Americhe di Amnesty International.
“Il drammatico aumento della tortura in Messico significa che ogni cittadino è a rischio. Un sondaggio di Amnesty International ha rivelato che il 64 per cento dei messicani teme di venir torturato in caso d’arresto” – ha proseguito Guevara Rosas.
Il rapporto di Amnesty International segnala che, tra il 2010 e la fine del 2013, la Commissione nazionale per i diritti umani ha ricevuto oltre 7000 denunce di tortura e maltrattamenti. Nel 2014 il numero è diminuito ma risulta sempre maggiore rispetto a 10 anni prima.
Vittime di varie zone del paese hanno riferito ad Amnesty International di essere state sottoposte a pestaggi, minacce di morte, violenza sessuale, scariche elettriche e semi-soffocamento da agenti di polizia o militari, spesso per estorcere “confessioni” o per incriminare altre persone in gravi reati.
Angel Amílcar Colón Quevedo, un honduregno nero, ha subito torture da parte della polizia e dell’esercito a causa della sua condizione di migrante e della sua origine etnica. È stato picchiato, soffocato con una busta di plastica, costretto ad atti umilianti e sottoposti a offese razziste. Si trova in carcere, sulla base di dichiarazioni che gli sono state estorte con la tortura. Nel corso dell’anno, Amnesty International lo ha dichiarato prigioniero di coscienza.
Il rapporto di Amnesty International descrive oltre 20 casi analoghi a quello di Angel Amílcar Colón Quevedo

GOLFO DEL MESSICO,
È LA BP, SECONDO UN GIUDICE FEDERALE, LA MAGGIORE RESPONSABILE. Multe miliardarie British petroleum, la multinazionale dell’energia, ancora nei guai per la marea nera del 2010 nel Golfo del Messico. Secondo alcune anticipazioni di una sentenza di un giudice federale Usa la compagnia ha agito con negligenza, una "grave negligenza", e’ stata spericolata, non ha preso e non ha voluto prendere le misure di sicurezza necessarie. E per questo e’ responsabile per il 67% della marea nera del 2010 nel Golfo del Messico. Il giudice Carl Barbier, punta il dito contro la societa’ petrolifera, scagionando in parte Transocean e Halliburton, e apre la strada a multe anocra piu’ salate per Bp, fino a 18 miliardi di dollari. Ma British Petroleum non intende mollare e annuncia che ricorrera’ in appello: la societa’ "contesta con forza" la sentenza e, mentre la esamina nel dettaglio, fa sapere che fara’ ricorso. "La legge e’ chiara. Essere colpevoli di negligenza grave risponde a criteri rigidi" che non sono stati dimostrati in questo caso: "Bp ritiene che una visione imparziale del dossier non coincida con le conclusioni sbagliate della corte". La conclusione a cui e’ giunto Barbier, ovvero la negligenza grave e in qualche modo deliberata, espone Bp al piu’ alto livello di sanzioni, ovvero 4.300 dollari al barile, in base al Clear Water Act, la legge anti inquinamento. Il governo americano stima che in mare siano finiti 4,2 milioni di barili, ma il giudice non ha ancora deliberato al riguardo. La quantita’ di barili finiti in mare sara’ determinante per stabilire quanto Bp dovra’ pagare, e una decisione in merito e’ attesa a gennaio. La compagnia petrolifera nel 2012 ha riconosciuto la propria responsabilita’ penale per il disastro accettando di pagare 4,5 miliardi di dollari in multe e rimborsi danni. La decisione della giustizia americana arriva come una doccia fredda per Bp, che cede in Borsa fino al 4%. La societa’ ha accantonato 3,5 miliardi di dollari per far fronte alle multe del Clean Water Act e sanzioni maggiori andrebbero a intaccare i suoi profitti.
Transocean e Halliburton, le altre due societa’ che si trovano a far fronte ad azioni legali per il disastro della marea nera, sono state ritenute negligenti ma non in modo altrettanto spregiudicato. Su Transocean ricade, infatti, il 30% della responsabilita’ e su Halliburton il 3%

CILE
UN ATTENTATO SORPRENDE SANTIAGO. L’8 settembre una bomba è esplosa in pieno giorno in un centro commerciale vicino alla fermata della metro Escuela militar, a Santiago del Cile. Quattordici persone sono rimaste ferite. La presidente Michelle Bachelet ha condannato l’attentato, uno dei più violenti dal ritorno della democrazia nel 1990, ma ha assicurato che "il Cile è ancora un paese sicuro". Finora non ci sono state rivendicazioni.

EL SALVADOR
II 5 settembre l’ex presidente Francisco Flores {nella foto), al potere dal 1999 al 2004, si è consegnato alla polizia. È accusato di corruzione.

PERÙ
L’8 settembre le autorità peruviane hanno annunciato che quattro indigeni ashaninka, impegnati nella lotta contro il disboscamento illegale, sono stati uccisi a Saweto, al confine con il Brasile.

AMERICA SETTENTRIONALE
STATI UNITI
II presidente Barack Obama ha annunciato il 6 settembre un rinvio della riforma dell’immigrazione almeno fino alle elezioni legislative del 4 novembre.

CALIFORNIA
ESPERTI TEMONO UN DISASTRO NUCLEARE PEGGIORE DI FUKUSHIMA FORUM RELATIVI ALLA NOTIZIA: USA, Nucleare, Fukushima, Giappone. Esperti avvisano che la centrale nucleare statunitense gestita dalla Diablo Canyon, potrebbe sconvolgere il Paese, con una Fukushima americano California, esperti temono un disastro nucleare peggiore di Fukushima Michael Peck, ispettore federale…
STATI UNITI.
CHICAGO, LAS VEGAS, DETROIT, NEW YORK, LITTLE ROCK.
FAST FOOD, 500 ARRESTI ALLA PROTESTA DEI PRECARI . I LAVORATORI SI BATTONO PER UNA PAGA ORARIA DI 15 DOLLARI. Nei mesi scorsi si era espresso a loro favore anche il presidente Barack Obama

Quasi 500 manifestanti arrestati in tutta America, fra cui un parlamentare del Wisconsin, Gwen Moore. È il bilancio della sesta giornata di mobilitazione per i salari nei fast food in America. La protesta, che ha preso la forma di sit-in davanti ai franchise di Chicago, Las Vegas, Detroit, New York, Little Rock e 150 altre città americane, è stata coordinata dal sindacato Seiu, che ha organizzato le azioni di disubbidienza civile per sensibilizzare l’opinione pubblica su una delle categorie emblema della dilagante sottoccupazione e del lavoro precario su cui in larga parte è predicata la ripresa americana. Come molti ipermercati big box (e fino a qualche anno fa l’industria del credito trash responsabile della bolla immobiliare e della recessione globale), i fast food estraggono utili giganteschi dallo stesso target di neo-poveri da cui assumono i propri impiegati, e come accade con alcune corporation come Wal-Mart, sono rigorosamente non sindacalizzati, con i prevedibili abusi salariali. La vertenza sui fast-food è cominciata un paio di anni fa a New York ed è diventata un movimento nazionale per l’aumento della paga sindacale di cui è fautore anche Obama. All’atto pratico le normative sui salari minimi dipendono però dalle amministrazioni locali (Washington ha giurisdizione unicamente su quelli degli statali). In seguito alle proteste, alcune municipalità, come Seattle, hanno recentemente istituito una paga minima di 15 dollari l’ora, una simile proposta è all’esame a San Francisco. Agli aumenti sono fortemente contrarie invece le associazioni degli esercenti, di solito piccoli imprenditori che gestiscono le filiali in franchising per conto delle corporation . La McDonald’s è stata particolarmente attiva nell’opposizione al movimento. In una nota rilasciata questa settimana il gigante di Oak Brook, Illinois, ribadisce che pur nel «rispetto di una vita dignitosa per i nostri lavoratori, deve essere la concorrenza di mercato a determinare i salari». In realtà le grandi corporation dei panini sono contrarie a ogni tentativo di sindacalizzazione dei lavoratori che hanno ogni interesse a mantenere come vasto bacino di manovalanza a buon mercato. Il salario medio di un lavoratore di fast food in America è da soglia di povertà: 9 dollari l’ora, ma può scendere fino ad appena 7,50. Gli impieghi nel settore sono tradizionalmente considerati fonte di occupazione per addetti entry level , con l’accesso ad impieghi part-time ad esempio per adolescenti e studenti. NELLA REALTÀ, SPECIE QUELLA DETERMINATA DAL «RIALLINEAMENTO VERSO IL BASSO» CAUSA CRISI, LA GRANDE MAGGIORANZA DEI FAST FOOD OGGI IMPIEGA ADULTI, CAPI FAMIGLIA, DONNE E IMMIGRATI CHE STENTANO A SOPRAVVIVERE CON LE MISERE PAGHE, E SONO COSTRETTI AL DOPPIO E TRIPLO LAVORO PER SBARCARE IL LUNARIO. L’entrata in campo al loro fianco di un sindacato come la Seiu, che rappresenta milioni di alberghieri e lavoratori sanitari in tutto il paese, ha ridato vigore al movimento dei precari simbolo dell’economia della new poverty , caratterizzata da sotto lavoro e disuguaglianza Autore: Luca Celada

STATI UNITI
Lavoratori arrestati
"Il 4 settembre sono state arrestate decine di lavoratori dei fast food che in circa 150 città statunitensi chiedevano un aumento salariale (fino a 15 dollari all’ora) attraverso scioperi, cortei e azioni di disobbedienza civile", scrive il Los Angeles Times. "A San Diego undici lavoratori sono finiti in manette per aver bloccato il traffico. A Los Angeles, durante un sit in davanti a un ristorante McDonald’s, sono state arrestate dieci persone. A New York sono stati fermati 19 lavoratori, a Detroit 42 e a Chicago 23".

(Le fonti di questo numero:
Fokus Svezia, NYC Time USA, Washington Post, Time GB, Guardian The Observer, GB, The Irish Times, Das Magazin A, Der Spiegel D, Veja, Brasile, Folha de Sào Paulo B, Pais, Carta Capital, Clarin Ar, Le Monde, Le Monde Diplomatique ,Gazeta, Pravda, Tokyo Shimbun, Global Time, Nuovo Paese , L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi e INFORM, AISE, AGI, AgenParle , RAI News e 9COLONNE".)

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