11069 IL MANCATO MINISTRO e GENTILE E’ FUORI

20140304 14:25:00 red-emi

IIL MANCATO MINISTRO – NO A GRATTERI, SCONFITTA PER TUTTI
Il Fatto Quotidiano ha già espresso rammarico per il fatto che la nomina di Nicola Gratteri a ministro alla Giustizia sia, all’ultimo minuto, caduta. Ha anche illustrato che ciò non è in applicazione di un principio che impedisce il passaggio dalla magistratura al ministero, perché tale principio per ora non esiste e in passato passaggi analoghi non sono stati fermati. Il fermo sembra proprio sul nome di Nicola Gratteri.

Lettera
GENTILE È FUORI, L’AUTOGOL DI RENZI – Signor Presidente del Consiglio, mi trovo a scriverle, anche se non credo che risponderà a questa mia lettera, perché da alcuni giorni mi tormenta una vicenda che riguarda il governo da lei appena formato e di cui molto si sta parlando.

Forse non è inutile riflettere sulle presumibili ragioni di tale scelta e sul perché quella nomina sarebbe stata di grande significato. Gratteri è un procuratore aggiunto presso la Dda di Reggio Calabria e da molti anni si batte con grande coraggio, indipendenza e competenza contro la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente del mondo, forse non a caso radicata nella regione più povera d’Europa, e che è il nemico numero uno dell’Italia civile, insieme alla corruzione diffusa, che è anche strumentale alla diffusione delle mafie. Oggi Gratteri è probabilmente il maggiore conoscitore mondiale della ‘ndrangheta e delle sue ramificazioni internazionali. Le sue azioni e i suoi risultati sono sotto gli occhi di tutti. Il suo pensiero, limpido, lucido, concreto e basato sui fatti, è documentato in due libri di grande interesse: Malapianta (2010), La giustizia è una cosa seria (2011), entrambi scritti con Antonio Nicaso, storico delle organizzazioni criminali, con il quale ha scritto anche Fratelli di Sangue(2009). In questi libri ci sono le risposte al quesito dal quale ho preso le mosse:

GRATTERI conosce a fondo la potenza economica della ‘ndrangheta ed il suo fortissimo radicamento nel Nord. Fu uno dei primi a lanciare l’allarme venti e più anni fa quando autorevoli esponenti del Nord negavano il fenomeno. Di conseguenza sa che la lotta alla criminalità organizzata non è questione morale, come tante anime belle continuano a ripetere, ma è questione centrale del funzionamento dell’economia e della democrazia: “Se il problema delle mafie non verrà risolto non riusciremo mai a essere competitivi rispetto ad altri paesi industrializzati; per prima cosa bisogna prendere coscienza dei rischi che le mafie rappresentano. Sono concreti e crescenti pericoli che condizionano la vita delle persone e minacciano la democrazia stessa”.

GRATTERI sa che la corruzione diffusa è l’altra faccia della stessa medaglia. È attraverso la corruzione che la malavita conquista potere, penetrando nelle amministrazioni locali, nei partiti, nelle banche, nei ceti professionali che, con la corruzione, diventano suoi alleati. Gratteri sa che, in questa grande lotta, occorrono oltre a delle guide competenti, un forte contrasto della magistratura, una forte polizia giudiziaria (che Gratteri giudica, al di là di singoli episodi negativi “per competenza, passione e impegno tra le migliori del mondo”) anche dei leader, delle bandiere, delle persone che sappiano suscitare consapevolezza del pericolo e consenso e impegno nella popolazione, che possano spiegare, come lui fa, che l’omertà nel Nord è oggi più forte che in Sicilia, che la posizione delle associazioni imprenditoriali del Nord è totalmente inadeguata, che l’Europa deve svegliarsi serrando le fila contro un nemico comune, che “sarebbe importante che la Chiesa facesse di più”. E questo lo può fare un ministro, non un consulente. Gratteri sa che la riforma della giustizia, per la quale ha tante proposte pratiche e utili, deve essere indirizzata in modo da rendere più efficace questa battaglia. Sono questi, a mio personale giudizio ovviamente, i motivi principali per i quali Gratteri è stato fermato, ed al posto di un Cassius Clay è stato messo un peso piuma. Cinque anni fa, in un’intervista in tv, alla domanda cosa si può fare per debellare i clan della ‘ndrangheta, Gratteri rispose, e ripete oggi: “Basterebbe fare, con semplicità, tutto il contrario di quanto fatto finora o, almeno negli ultimi venti anni, dai governi di destra e di sinistra”.
Il silenzio assordante del presidente del Consiglio su questi temi (rotto solo dalla recentissima risposta giornalistica a Saviano, con la “grande” trovata del commissario per la corruzione, misura puerile e già penosamente sperimentata), la sua scelta di un peso piuma alla Giustizia affiancato da due viceministri guardie del corpo, dal curriculum parlamentare non equivoco, ci dice che la partita anche questa volta non verrà seriamente giocata. (di Marco Vitale)

Lettera

GENTILE È FUORI, L’AUTOGOL DI RENZI.
Signor Presidente del Consiglio, mi trovo a scriverle, anche se non credo che risponderà a questa mia lettera, perché da alcuni giorni mi tormenta una vicenda che riguarda il governo da lei appena formato e di cui molto si sta parlando. Mi permetta prima di presentarmi. Vivo a Cosenza e in Calabria faccio il giudice da oltre vent’anni. Il mio lavoro non mi ha mai impedito di partecipare al dibattito pubblico sulle questioni di maggiore attualità, essendo fra quanti ritengono che un magistrato non sia un “eunuco sociale” e che, anzi, conoscere quanto accade fuori dalle aule di giustizia e sentirsene coinvolto ne accresca le capacità di giudizio e la professionalità. Le scrivo, però, in quanto calabrese, un calabrese che da anni avrebbe potuto trasferirsi in una tranquilla città del centro o nord Italia, ma non lo ha fatto e che adesso comincia a non ricordare bene il perché. Perché ha deciso di restare in questa terra disgraziata.
Qui, molto più che altrove, le cose cambiano per non cambiare mai. Qui, molto più che altrove, ci si sente sudditi e non cittadini. Qui, molto più che altrove, bellezza e speranza sono bottino di guerra e la dignità non è altro che una parola. Eppure, ostinatamente e a dispetto di tutto, ci sono calabresi che rimangono e cercano di fare la loro parte. Come farebbero a Modena, per dire, o nella sua Firenze. Calabresi che guardano i mafiosi negli occhi, denunciano i loro soprusi e occupano i loro beni. Che coltivano la memoria e difendono la bellezza. Calabresi che raccontano – e qui ci vuol coraggio per farlo – il volto più impresentabile e maleodorante del potere.
Partiamo dai fatti che non si possono smentire. Qualche settimana fa, il direttore generale dell’Azienda Sanitaria di Cosenza, la più grande della regione, è stato raggiunto da un provvedimento del giudice delle indagini preliminari che lo ha sospeso dalla carica per gravi reati. Il 18 febbraio si diffonde la notizia che il figlio di un importante senatore cittadino sarebbe coinvolto nell’indagine. Il 19 febbraio il quotidiano L’Ora della Calabria non si trova nelle edicole. Il giorno successivo quel quotidiano esce con grandi titoli che denunciano che la mancata messa in stampa sarebbe dipesa dal rifiuto del suo direttore, Luciano Regolo, di acconsentire alle richieste di non pubblicare la notizia relativa al coinvolgimento nell’indagine del figlio di quel senatore. Da allora, quel giornale pubblica ogni giorno articoli ed editoriali che informano sulla vicenda e la vicenda, per come emerge da tali articoli, è sconvolgente persino per un calabrese. Lo stampatore – ex presidente di Confindustria regionale e attualmente presidente della società finanziaria della Regione – avrebbe telefonato all’editore del giornale, affermando di parlare a nome di quel senatore e del fratello del medesimo, anche lui importante uomo politico e assessore regionale alle infrastrutture, chiedendogli di non pubblicare, il giorno dopo, quella notizia. Al mancato accoglimento della richiesta sarebbe seguito l’arresto delle rotative. Alcune delle telefonate sarebbero state registrate e il testo integrale è stato pubblicato e si può anche ascoltare in Internet. È un ascolto che lascia annichiliti: la richiesta è perentoria e l’ipocrita tono paterno che la drappeggia è quello con cui, da queste parti, si condiscono le minacce peggiori.
Nelle sedi giudiziarie competenti ci si occuperà delle svariate e “ponderose” querele, che molti dei protagonisti hanno annunciato, ma certo è che quel giorno la notizia non è uscita, anzi che non è proprio uscito il giornale.
L’accaduto è talmente enorme che in città si dava per scontato che avrebbe compromesso la nomina a sottosegretario di quel senatore, da tempo pronosticata. Persino fra noi disincantati, rassegnati, delusi cittadini calabresi, l’opinione prevalente era che, questa volta, la politica non avrebbe avuto bisogno di aspettare la magistratura per sottrarre il governo a una simile ombra.
Così non è stato, come è ormai noto. La nomina a sottosegretario (poco cambia che Gentile, ieri, si sia dimesso) puntualmente è arrivata e ha vanificato in un attimo la sua ansia d’apparire diverso, rivelandola tristemente uguale.
Se la dignità delle persone si fonda, come io credo, su libertà e diritti, se fra le libertà, come sancisce la nostra Costituzione, quella d’informare è una delle più importanti, da queste parti, signor Presidente, siamo oggi ancora meno liberi e degni. Penso a questo, mentre passeggio col mio cane fra le montagne di spazzatura che, da mesi, assediano il bel centro storico della mia città e l’intera regione e penso alla definizione che della libertà di stampa ha dato lo stampatore in quella telefonata, replicando all’editore, che timidamente provava a spiegare perché non avrebbe potuto bloccare l’uscita della notizia: “Ma ti vuoi rovinare per un prurito di culo”?
di Emilio Sirianni
Consigliere della Corte d’Appello di Catanzaro

 

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