11067 BIOGRAFIA NON AUTORIZZATA DEI MINISTRI DEL GOVERNO RENZI. VICEMINISTRI E SOTTOSEGRETARI,

20140301 22:56:00 red-emi

[b]QUASI VECCHI, QUASI GIOVANI . NO/SI, sono giovani. [/b]

MATTEO RENZI. IL DISCEPOLO DÌ MACHIAVELLI . Quando ha capito di avere il potere a portata di mano, Renzi non ha perso tempo.
1 – PIERCARLO PADOAN 64 anni . Economia. Da poco nominato, ma mai insediato, all’Istat. È un “tecnico”, non un politico. È stato in commissione Affari Costituzionali del Senato, vice segretario generale (dal 2007) e capo economista (due anni dopo) dell’Ocse, direttore esecutivo per l’Italia al Fmi (tra il 2001 e il 2005). È professore di Economia all’Università La Sapienza di Roma e direttore della fondazione legata a Massimo D’Alema, “Italiani europei”. Ha avuto anche incarichi di consulente alla Banca Mondiale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea.

IL MINISTRO PADOAN OLTRE KEYNES. NEL ’75 /
Il neo ministro dell’Economia Piercarlo Padoan era ben presente nel dibattito economico della sinistra dei caldi anni ’70. Nel 1975 Critica marxista pubblicò una sua relazione dal titolo impegnativo, «Il fallimento del pensiero keynesiano», che riassumeva il lavoro di un gruppo di giovani economisti costituito presso l’Istituto Gramsci sul tema «Limiti del dirigismo e fondamenti teorici della politica delle riforme».
SI PUO’ SEMPRE CAMBIARE IDEA.

PIERCARLO PADOAN – L’UOMO CHE INSEGNO IL LIBERISMO A D’ALEMA, Ha detto: “ Il consolidamento fiscale sta producendo risultati. Il dolore sta producendo risultati”.

2 – FEDERICA GUIDI, 45 anni, Sviluppo economico. LA THATCHER IN SALSA EMILIANA. Ha detto: “Purtroppo in Italia c’è una certa idea di egualitarismo, secondo cui non vi possono essere diseguaglianze legittime”. Primo requisito: il merito. Parola di Federica Guidi, 45 anni, di professione industriale. Sin dalla nascita
3 – ROBERTA PINOTTI 52 anni Difesa – Qualcuno già la chiama «la ministra con l’elmetto». Roberta Pinotti, del resto, non si è mai preoccupata di nascondere la sua vicinanza agli interessi militari e industriali.
4 – ANDREA ORLANDO , 45 anni. Giustizia. Ha detto : “Per noi il cambiamento è un governo che provi a ottenere la maggioranza al Senato sulla base di un progetto”. Ecco chi dovrà rottamare la magistratura.
5 – GIAN LUCA GALLETTI, 53 anni, Ambiente UN NUCLEARISTA ALL’AMBIENTE, Ha detto: IO dico SI al nucleare. Altrimenti il Paese è destinato alla serie C ( meno male che il popolo è sovrano….ndr)
6 – DARIO FRANCESCHIN, 56 ANNI , Beni culturali “ ha detto: I Patrimonio d’arte e privati? Per me non c’è nessun tabù”.
7 – STEFANIA GIANNINI, 54 anni, Istruzione. IL RETTORE CHE AMAVA LA RIFORMA GELMINI.
8 – MARIA ELENA BOSCHI, 33 anni, Riforme costituzionali e Rapporti con il Parlamento. Ha dettto: “Al referendum sull’acqua nel 2011 ho votato NO”.
9 – MARIANNA MADIA, 39 anni. Semplificazione e P.a. Ha detto: “L’aborto è il fallimento della politica, un fallimento etico, economico, sociale e culturale
10 – ANGELINO ALFANO, 43 anni, Interno. Ha detto: “Della vicenda Shalabayeva non ero stato informato, non era stato informato nessuno del Governo”.
11 – MAURIZIO LUPI, (Ncd) 54 anni, Infrastrutture e Trasporti. Ha detto: “Ritengo personalmente, ovviamente, che il Ponte sullo Stretto sia e continui a essere un’opera fondamentale”.
12 – FEDERICA MOGHERINI (Pd) 40 anni Affari esteri – È la più giovane responsabile della Farnesina nella storia della Repubblica.
13 – BEATRICE LORENZIN (Ncd) Salute , 43 anni, nata a Roma, diploma di liceo classico.
14 – MAURIZIO MARTINA (Pd) Politiche agricole – Nato nel 1978 a Calcinate, nel bergamasco. Si è diplomato all’Istituto tecnico Agrario di Bergamo.
15 – GIULIANO POLETTI Lavoro e politiche sociali – 63 anni. È stato presidente nazionale di Legacoop e, da qualche mese, numero uno dell’Alleanza delle cooperative.
16 – MARIA CARMELA LANZETTA (Pd) 57 anni, è stata sindaco di Monasterace, in Calabria. Affari regionali – La sua passione è l’archeologia.

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SOTTOSEGRETARI, C’È POSTO PER TUTTI. NOMINE / Manuale Cencelli e biografie imbarazzanti. Renzi dimentica la retorica sulle quote rosa. Viceministro della giustizia l’autore delle leggi ad personam per Berlusconi. Alla cultura la «impresentabile» sarda.

QUASI VECCHI / Sì, sono giovani. E ci sono anche molte donne. Sono ambiziosi, certo. Sanno bene che «la differenza tra un sogno e un obiettivo è una sola: la data», come ha detto il nuovo premier. Ma come la pensano i ministri del governo Renzi I? Abbiamo scritto una biografia "non autorizzata" di 7 tra loro. Su altri quattro abbiamo raccolto alcune dichiarazioni emblematiche. Vi auguriamo una buona lettura, sperando di non cancellare in voi gli ultimi residui di speranza. Perché il quadro che ricaviamo da questo primo approfondimento del profilo dei ministri, non autorizza grande fiducia. Al Tesoro abbiamo un economista di lunga esperienza, uno dei più influenti del mondo. Peccato sia un difensore dell’austerity, convinto assertore di un’americanizzazione della Ue: liberalizzazioni, privatizzazioni, finanza, stretta fiscale. Uno secondo cui la crescita dei sentimenti antieuropei non deriva dalla disoccupazione ma da un problema di comunicazione. Abbiamo una ministra dell’Industria che di mestiere fa la manager nell’azienda del padre, che oppone merito a eguaglianza, che sopporta male i sindacati, che feso a spada tratta i diktat di Marchionne e vuole privatizzare «pezzi di Stato». La neoministra dell’Istruzione, che in passato ha sostenuto la riforma Gelmini e oggi propone il modello anglosassone: studenti indebitati per pagare l’impennata delle tasse universitarie. La ministra della Difesa che difende il programma degli F35 e da anni chiede una crescita delle spese militari. Il titolare della Cultura che, dal canto suo, propone di dare ai privati la gestione dei Beni culturali. Quella dei rapporti col Parlamento è una fautrice dell’acqua privata, quella della Pubblica amministrazione è contraria ad aborto e matrimoni gay. Non vi basta? Alle Infrastrutture resta un uomo che voleva costruire il Ponte sullo Stretto, al Vi-minale un politico che permette (o non si accorge, poco cambia) l’arresto di rifugiati politici per conto di dittatori stranieri. E all’Ambiente è finito un convinto nuclearista, nemico della cosiddetta sindrome nimby. Sembrano scelti apposta, per fare un dispetto agli elettori di sinistra. D’altronde il loro leader vuole superare Bobbio. Saranno giovani e belli, forti e ambiziosi. Ma non ci paiono esattamente nuovi. Per il resto, giudicherete voi.

0 – MATTEO RENZI. IL DISCEPOLO DÌ MACHIAVELLI o di Milton Friedman (ndr)?
Quando ha capito di avere il potere a portata di mano, Renzi non ha perso tempo. Ma potrebbe durare poco uomo che finora è stato sindaco di Firenze non ha bisogno di uscire dal palazzo dove ha lavorato negli ultimi quattro anni per trovarsi davanti il volto dell’autore di alcune frasi che definiscono alla perfezione il suo carattere impaziente. "Meglio essere impetuoso che rispettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedano. E però sem-pre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci e con più audacia la comandano".
Non scandalizzatevi per i toni pesantemente misogini. Sono parole scritte cinquecento anni fa, nel 1513, da Niccolò Machiavelli, che in quello che oggi si chiama Palazzo vecchio, e che all’epoca era la sede del governo della Repubblica di Firenze, aveva il suo ufficio. Le frasi tratte dal Principe descrivono l’attuale dramma della politica italiana e i suoi protagonisti: uno è Matteo Renzi, 39 anni, impaziente e ambizioso; l’altro è Enrico Letta, 47 anni, freddo e riservato; e poi c’è la Fortuna, sotto forma di donna, e l’opportunità di cui Renzi, lettore di Machiavelli, ha saputo approfittare.
Letta è rimasto in carica per dieci mesi, abbastanza per allontanare dalla scena Silvio Berlusconi, 77 anni, il presidente del consiglio più a lungo in carica degli ultimi vent’anni e allo stesso tempo l’uomo che si è preoccupato meno di tutti di governare il paese, concentrandosi invece sulla difesa dei suoi interessi e sui propri guai giudiziari. Cacciando Berlusconi, Letta ha
centrato l’obiettivo più difficile, ma non ha avuto tempo per cambiare l’Italia, ancora identica a se stessa.
QUASI IMPOSSIBILE.
Cambiare è la principale ambizione di Renzi in questo momento. Il sindaco di Firenze non è un deputato, non ha un mandato elettorale né una maggioranza parlamentare, ma può contare sul fatto di essere diventato il leader del Partito democratico vincendo le primarie aperte. L’impazienza l’ha spinto ad abbattere il governo con l’idea di conquistare in seguito una maggioranza solida, superando l’impossibile geometria attuale di alleanze e accordi trasversali. Renzi ha scelto un approccio tipicamente machiavellico: avrebbe potuto aspettare di ottenere il consenso elettorale per governare il paese, ma ha capito di avere il potere a portata di mano e che bastava dare una spinta in più per afferrarlo. Quello del leader del Pd sarà il terzo tentativo di questo tipo dopo la catastrofe: Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi, ognuno più giovane del suo predecessore e tutti e tre politici di qualità se paragonati al vecchio caimano, che intanto continua ad aggirarsi per i corridoi del potere nel tentativo di condizionare la vita politica italiana.
Considerando i precedenti, viene da dire che Renzi sarà solo un altro anello della catena di instabilità e immobilismo, e cadrà con la stessa rapidità con cui ha conquistato la vetta.
Se vuole evitare questo destino e fare davvero la differenza, dovrà portare a termine un compito quasi impossibile: guidare un governo stabile e duraturo che sia allo stesso tempo capace di riformare il paese. (Lluis Bassets è il director adjunto del quotidiano spagnolo El Pais)

1- PIERCARLO PADOAN – IL MINISTRO PADOAN OLTRE KEYNES. NEL ’75 / Il neo ministro dell’Economia Piercarlo Padoan era ben presente nel dibattito economico della sinistra dei caldi anni ’70. Nel 1975 Critica marxista pubblicò una sua relazione dal titolo impegnativo, «Il fallimento del pensiero keynesiano», che riassumeva il lavoro di un gruppo di giovani economisti costituito presso l’Istituto Gramsci sul tema «Limiti del dirigismo e fondamenti teorici della politica delle riforme». Anche il manifesto aveva dedicato grande attenzione al tema già col dibattito «Spazio e ruolo del riformismo» pubblicato come volume nel 1973. Un numero successivo di Critica Marxista ospitò una nota critica di Giancarlo De Vivo, un acuto economista della scuola di SRAFFA e GAREGNANI, e la replica dello stesso Padoan.
La relazione di Padoan ripercorre gli elementi della teoria di Keynes e delle successive interpretazioni, sia quelle volte a ricondurlo nell’alveo della teoria tradizionale, che quelle più radicali. Le conclusioni circa il perdurare del successo delle politiche keynesiane a fronte delle turbolenze degli anni ’70 sono però piuttosto negative. Sebbene si riconosce l’efficacia delle politiche di sostegno alla domanda aggregata per la piena occupazione, ottenute in particolare attraverso aumenti salariali, la relazione afferma che all’aumento della domanda «non corrisponde però sempre un adeguamento della struttura produttiva (una volta raggiunto il tetto della capacità produttiva esistente, oppure anche prima, se si tiene conto di strozzature dovute alla presenza di monopoli o di posizioni di rendita) e si hanno così dei persistenti fenomeni inflazionistici». Portato della piena occupazione, si aggiunge, è una «situazione di conflittualità» che produrrà «continue tensioni dovute alle risposte delle imprese alle rivendicazioni operaie per tentare di ricostituire i margini di profitto tramite aumenti di prezzo alimentando ulteriormente il processo inflazionistico». Avendo la disponibilità di mercati garantiti dal sostegno della domanda da parte della spesa pubblica, le imprese rispondono «non con aumenti della produttività tramite innovazioni ed investimenti tesi ad aumen­tare l’offerta, ma con l’aumento dei prezzi …L’inflazione quindi, oltre che come potente strumento redistributivo, si poneva come drammatica elusione dell’esigenza di un allargamento della capacità produttiva …che la lotta della classe operaia per una migliore soddisfazione dei bisogni andava sempre più affermando». Padoan sembra pessimista circa la possibilità di regolare il conflitto attraverso la politica dei redditi evocando le tesi di Kalecki (citato nel corpo della relazione) secondo cui solo un’elevata disoccupazione è in grado di disciplinare e regolare il conflitto sociale. Più che in direzione di una prospettiva socialdemocratica, le conclusioni di Padoan puntano così a un «superamento dell’ordinamento capitalistico». Infatti le politiche keynesiane di piena occupazione condurrebbero a «delle tensioni insostenibili per il sistema capitalistico» incompatibili «con il quadro democratico». Quindi non resta che fuoriuscire dalla «logica keynesiana (cioè borghese)». Accanto a un’eco kaleckiana qualcuno potrebbe anche leg­gerne una amendoliana nel ritenere le lotte operaie in fondo sovversive dell’ordinamento capitalista e democratico e l’inflazione come anticamera del fascismo. La prospettiva amendoliana, si badi, è stata in Italia spesso confusa col riformismo (socialdemocratico) il quale, al contrario, riteneva gli avanzamenti dei lavoratori perfettamente compatibili con un’economia di mercato regolata (sui temi del mancato riformismo in del Pci rin­vio al magistrale Paggi e D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo, Einaudi 1986). Padoan e compagni non sembrano tuttavia indicare come via d’uscita l’accettazione delle compatibilità che portò di lì a poco alla svolta dell’Eur, ma un’uscita più di sinistra, anche se solo genericamente evocata. La prospettiva di un riformismo forte è comunque assente.
Nel suo commento critico De Vivo attacca Padoan soprattutto per la lettura riduttiva di Keynes che lo accumunerebbe alla teoria neoclassica dominante in uno snodo fondamentale: “Secondo la relazione, uno degli «elementi fondamentali della ‘visione’ keynesiana» sarebbe «l’incompatibilità tra consumo e accumulazione, per cui se si vuole consumare si deve rinunciare ad accumulare e viceversa”. Per rompere le ambiguità di Keynes in merito, De Vivo propugna la proposta di Garegnani di liberare Keynes dai «lacci e lacciuoli» neoclassici in una direzione che spieghi pienamente i livelli di produzione sulla base della domanda affettiva guidata da salari e consumi pubblici sia nel breve che nel lungo periodo. La replica di Padoan è su linee molto tradizionali. Egli riafferma la tesi marginalista che «nel lungo periodo la disponibilità di risparmio (cioè di ricchezza sottratta al consumo) diventa rilevante al fine delle possibilità di crescita del sistema economico.» E aggiunge che in quel frangente storico in cui l’industria italiana necessitava di una ristrutturazione qualitativa, i risparmi rivestivano un ruolo particolarmente essenziale. L’incompatibilità delle lotte operaie che aveva sopra assunto un’eco marxista e kaleckiana appare qui molto più tradizionalmente riferita alla teoria dominante (il che potrebbe avvalorare una contiguità con l’anima amendoliana). Comunque, Padoan nuovamente conclude ribadendo la «prospettiva di una fuoriuscita dal capitalismo» (non estranea peraltro all’amendolismo sebbene rimandata a data da destinarsi).
Quello che emerge da queste pagine, qui frettolosamente richiamate, sono le apo­rie in cui si sono dibattuti il Pci e le sue successive metamorfosi e i suoi intellettuali di spicco, fra una Nvoglia di socialismo, sempre più affievolitasi sino a scomparire, e un fondamentale riconoscersi nelle compatibilità della teoria economica dominante, con qualche molto pallido (quasi invisibile) spunto keynesiano. Questo modo di porsi è molto lontano da quello di Myrdal e degli intellettuali nordici che hanno visto nel conflitto sociale ben regolato l’humus del progresso. È vero pure che la borghesia italiana, da Bava Beccaris a Berlusconi passando per Piazza Fontana ha sempre ostacolato un processo di maturazione della sinistra italiana nel senso di un vero riformismo (di nuovo v. Paggi e D’Angelillo).
Una traccia di quelle aporie sono probabilmente riconoscibili anche nel Padoan dell’oggi che, se da un lato non si esime dal recitare il mantra sulla necessità del riaggiustamento dei conti pubblici e delle «riforme strutturali», dall’altro più realisticamente (e da buon economista) sa che i problemi sono di domanda aggregata e scrive che più inflazione nei paesi europei in surplus commerciale sarebbe auspicabile – si vede che anche lui ama qualche volta sognare. Buona fortuna, comunque. (di Sergio Cesaratto – il Manifesto – Da Critica marxista a Renzi)

SI PUO’ SEMPRE CAMBIARE IDEA.

PIERCARLO PADOAN – L’UOMO CHE INSEGNO IL LIBERISMO A D’ALEMA. Ha detto: “ Il consolidamento fiscale sta producendo risultati. Il dolore sta producendo risultati”. Pier Carlo Padoan, nuovo ministro dell’Economia, è un volto poco noto al grande pubblico. Ma non per chi frequenta le stanze dei bottoni. Già consigliere economico della presidenza del Consiglio con D’Alema e Amato, poi direttore della fondazione Italiani europei, presieduta da questi ultimi, dal 2001 al 2005 è stato direttore per l’Italia del Fini e, dal 2007, VICESEGRETARIO DELL’OCSE, per diventarne due anni più tardi capo economista Nelle vesti di "consigliere del principe", Padoan è stato, insieme a Nicola Rossi e Pietro Ichino, uno dei principali artefici del lento ma inesorabile approdo liberista della sinistra ex comunista. A testimoniarlo sono i suoi scritti sulla rivista Italiani europei. Nel 2003, commentando la Strategia di Lisbona, Padoan si mostra invidioso della poderosa crescita Usa: «L’America cresce di più – scrive – non perché ha avuto a disposizione le nuove tecnologie dell’informazione» ma «grazie a mercati, istituzioni e regole che ne hanno permesso di sfruttare le grandi potenzialità». A solo tre anni dallo scoppio della bolla delle dot.com Padoan non teme l’azzardo: se i mercati funzionano bene, allora è lo Stato che deve dimagrire. Per questo non si può trascurare il monito della Commissione Ue per la quale «UNA POLITICA DI TAGLI DELLA SPESA PUBBLICA, SE CREDIBILE E DI NATURA PERMANENTE, POTREBBE DARE VITA A EFFETTI ESPANSIVI, migliorando il grado di fiducia del settore privato grazie alla prospettiva di tagli permanenti di imposte». Guardare alla voce Irlanda Nel 2004 Padoan torna a scrivere su Italiani europei, stavolta di Argentina. E da uomo del Fmi non può che trovarsi dalla parte dell’austero ministro Cavallo, che nel 2001 ha «salvato la patria», dice Padoan, attraverso il piano "deficit zero" (il pareggio di bilancio, quello che oggi abbiamo anche noi in Costituzione): «Si potrebbe sostenere – sottolinea – che l’austerità fiscale avrebbe peggiorato, e non migliorato, le prospettive di crescita, aggravando ulteriormente l’andamento del rapporto debito/prodotto». Sì certo, è quello che diceva Keynes e che dicono tutti i libri di economia, ma Padoan la pensa diversamente: «E piano di Cavallo aveva una sua logica». Questa: l’austerità «avrebbe cambiato il sentimento dei mercati», producendo «un graduale abbassamento dei tassi di interesse, liberando risorse, pubbliche e private, per una ripresa della domanda». È la stessa strategia che viene venduta dalla Germania ai Paesi periferici dell’eurozona, basata sulla favola della "fata fiducia": i sacrifici verranno un giorno ampiamente compensati dai mercati. Sempre nel 2004, e sempre su Italiani europei, Padoan scrive a proposito del ritardo europeo: «DEVE ESSERE ACCRESCIUTA LA LIBERALIZZAZIONE DEI SERVIZI E DELLE UTILITIES* (acqua, energia, trasporti). L’economista ribadisce ancora la sua fiducia nell’efficienza dei mercati finanziari, «la cui integrazione in Europa è ancora lontana dall’essere raggiunta e dove si contrappongono il modello banco-centrico continentale a quello market-based anglosassone che meglio del primo sostiene l’innovazione». Lo stesso modello che sarebbe fragorosamente crollato nel 2007. Nel 2005 Padoan ritorna sulla Strategia di Lisbona, denunciando i ritardi della sua applicazione. Ma lo fa a partire da studi alquanto discutibili, secondo i quali «a seguito dell’integrazione finanziaria, il Pil europeo potrebbe aumentare fino al 10%, con benefici maggiori per quei Paesi, come l’Italia, i cui mercati, finanziari sono più distanti dal livello ottimale». Peccato che la vicenda europea mostri semmai un’eccessiva integrazione dei mercati, con movimenti di capitali dal "centro" (Germania e suoi satelliti) attratti dalle bolle immobiliari nella periferia (Spagna e Irlanda). Non contento della liberalizzazione della finanza, Padoan invoca anche quella di merci e lavoro: le simulazioni del Fmi «INDICANO CHE MISURE DI LIBERALIZZAZIONE POTREBBERO AUMENTARE IL PIL EUROPEO DI DIVERSI PUNTI PERCENTUALI». Per non parlare poi dei «benefici che si potrebbero ottenere da una deregolamentazione dei mercati dei prodotti in Europa I guadagni di crescita potrebbero raggiungere il 7% e quelli in termini di produttività il 3». E, anche qui, andrebbe ricordato che proprio la libertà di movimenti delle merci (oltre che dei capitali) è all’origine dell’indebitamento estero, che è la vera causa della crisi dell’eurozona Dopo tante parole spese a favore dei mercati Padoan, nel 2008, a seguito della crisi dei subprime, prende atto che qualcosa non è andata per 0 verso giusto. Di chi sarà la colpa? Della deregulation finanziaria? Della distribuzione ineguale del reddito? No, la colpa è dei Paesi Brics, che investono il lo- : ro surplus commerciale causando «il i simmetrico peggioramento del deficit -corrente degli Stati Uniti». Se fosse co- : sì, allora protezionismo e controllo dei movimenti di capitali potrebbero essere una soluzione. E invece Padoan invoca più liberalizzazioni: «Il sostanziale fallimento del Doha Round (il nuovo accordo del Wto, ndf) è un fatto molto negativo per l’economia mondiale e rischia di mettere in discussione gli scenari di sviluppo assai più che gli squilibri macroeconomici». Nello stesso anno Padoan si preoccupa dell’abbandono dell’euro da parte dell’Italia. «Le conseguenze di una simile decisione si concretizzerebbero in un salto all’indietro di almeno dieci anni». Ma c’è di peggio: «Una simile decisione avrebbe conseguenze assai pesanti sui tassi di interesse, che potrebbero portarci alla bancarotta». Purtroppo Padoan sembra dimenticare una verità banale: è proprio il non avere una banca centrale che garantisca il nostro debito che causa alti tassi di interesse e può portarci al default. E arriviamo ai giorni nostri. L’Ocse di Padoan è molto diversa dal Fmi di Olivier Blanchard. Mentre quest’ultimo è impegnato in una revisione della macro -economia mainstream introducendo concetti keynesiani, l’Ocse marcia in direzione opposta. In un’intervista di aprile al Wall Street Journal Padoan afferma che la sfiducia verso l’austerity è un problema di comunicazione. Bisogna convincere la gente che «STIAMO OTTENENDO RISULTATI… IL RISANAMENTO FISCALE È EFFICACE, IL DOLORE È EFFICACE». Parole che hanno suscitato l’ira del Nobel Paul Krugman: «A volte gli economisti in posizioni ufficiali danno cattivi consigli; a volte danno consigli molto, molto cattivi; e talvolta lavorano presso l’Ocse». I peggiori, insomma. (di Guido lodice)

2 – FEDERICA GUIDI, 45 anni, Sviluppo economico. LA THATCHER in salsa emiliana. Ha detto: “Purtroppo in Italia c’è una certa idea di egualitarismo, secondo cui non vi possono essere diseguaglianze legittime – Per rendere più fluida la vita delle imprese serve un "contratto ad PERSONAM". La rampolla della ducati non entrerà mai in politica, nonostante le avance del cavaliere, che la vorrebbe in forza Italia e poi ministro “non è un caso, probabilmente, che proprio lei, dentro il governo, abbia la delega alle telecomunicazioni” – La vicenda della Fiat di Pomigliano ci porta un orizzonte di speranza, leggi Marchionne).
PRIMO REQUISITO: il merito. Parola di Federica Guidi, 45 anni, di professione industriale. Sin dalla nascita. Perché far carriera è facile se tuo padre si chiama Guidalberto ed è il padrone della Ducati energia. «Questa è una fabbrica del padre, comanda il padre e la figlia è un po’ succube del padre»: a parlare è Paolo Gianna-si, delegato della Fiom, una vita passata a lavorare alla Ducati energia, l’azienda di proprietà di Guidalberto Guidi, genitore dell’attuale ministro dello Sviluppo economico. Nella sua fabbrica – uno dei fiori all’occhiello della metalmeccanica bolognese con i suoi 147 milioni di fatturato l’anno – il «clima non è sereno», tutto viene influenzato dagli umori del capo. Ma a dolersene sono sempre in meno: LA DUCATI ENERGIA NEGLI ANNI OTTANTA AVEVA 600 LAVORATORI, IN GRAN PARTE OPERAI. TVENT’ANNI DOPO I DIPENDENTI SONO IN 200, in larga parte impiegati e tecnici, mentre gli operai sono solo 60. Eppure l’azienda è cresciuta, e molto. Com’è possibile? Semplice. IN ITALIA NON CI SONO PIÙ LE LINEE PRODUTTIVE: QUELLE GUIDALBERTO LE HA SPOSTATE, POCO PER VOLTA, IN ROMANIA, CROAZIA E INDIA. Nulla di traumatico, ricorda Giannasi. Anzi: le delocalizzazioni sono spesso dettate dalle condizioni di mercato. La Ducati energia, infatti, lavorava molto nell’indotto della Motor valley: produceva sistemi di accensione per moto. Quando il settore è entrato in crisi Guidi ha guardato verso altri mercati. Adesso l’azienda ha una produzione differenziata, dai veicoli elettrici alle macchine per biglietti. E molte commesse pubbliche (che per la neoministra Federica significano "conflitti di interesse"). Il tutto viene progettato a Bologna, ma prodotto all’estero. È in questa fabbrica – il cui proprietario ama definirsi «padrone e non datore di lavoro», come ricorda Giannasi – che fa il suo ingresso la giovane Federica. «Ha girato tutti gli uffici – ricorda l’impiegato – forse per farsi un po’ un’idea di che cos’era una fabbrica». Di fatto, secondo Giannasi, «è sempre stata sotto l’ala protettrice del padre». E sotto quell’ala è facile volare: a 32 anni Federica è direttore generale dell’azienda, a 39 presidente dei Giovani imprenditori di Confìndustria, poi vicepresidente dell’associazione. A farle la campagna elettorale, secondo quanto si narra nel mondo degli imprenditori, è proprio il potente padre Guidalberto.
Nulla di anormale – l’80 per cento degli iscritti ai giovani di Confindustria sono "figli di". E nel caso di Federica, il padre è un pezzo grosso dentro viale dell’Astronomia. Guidalberto in Confindustria è un falco. Nei primi anni Duemila affianca il presidente dell’associazione Antonio D’Amato, con la carica di responsabile delle Relazioni industriali. È il vero numero due di Confindustria, durante il durissimo scontro -perduto – con la Cgil di Sergio Cofferati sull’articolo 18.
Federica eredita dal padre anche i buoni rapporti con Silvio Berlusconi. LA RAMPOLLA DELLA DUCATI NON ENTRERÀ MAI IN POLITICA, NONOSTANTE LE AVANCE DEL CAVALIERE, CHE LA VORREBBE IN FORZA ITALIA E POI MINISTRO (non è un caso, probabilmente, che proprio lei, dentro il governo, abbia la delega alle telecomunicazioni). D’altronde la sua posizione, nel mondo Confindustriale, sta a destra All’estrema destra. Federica è una thatcheriana di ferro. Nel 2008, appena eletta alla guida dei giovani ereditieri della Confindustria italiana, stupisce tutti, durante il meeting di Santa Margherita Ligure. Mentre Emma Marcegaglia prova a trattare un nuovo modello contrattuale coi sindacati, lei taglia corto: via i contratti collettivi di lavoro. Ogni lavoratore tratti direttamente, e da solo, col suo padrone. Leggere per credere: «IL CONTRATTO DI LAVORO DEVE ESSERE SEMPRE MENO COLLETTIVO E SEMPRE PIÙ TAILOR MADE, FATTO SU MISURA, TAGLIATO ATTORNO AL SINGOLO INDIVIDUO», proprio come un tailleur. «Bisogna superare questo modello triadico fatto di sindacati, associazioni delle imprese e governo, per ridare a ogni singolo soggetto il pieno controllo del proprio lavoro e della propria esistenza». È l’idea di un «contratto ad personam», capace di «rendere più fluida la vita delle imprese, facendo riscoprire il gusto del contratto, del pluralismo, dei rapporti fra lavoratori e imprese». Per la Guidi bisogna considerare il la-voratore «un soggetto attivo, pronto a far pesare le proprie competenze sulla bilancia negoziale, com’è giusto tra partner, in quelle grandi avventure umane che le imprese da sempre sono». E se tra i due contraenti c’è disparità di forza, chissenefrega. D’altronde la società non esiste, esistono solo gli individui e i lavoratori altro non sono che imprenditori del proprio lavoro. I sindacati vanno su tutte le furie, e anche Emma non gradisce. Le dure donne d’acciaio dell’industria italiana torneranno a scontrarsi qualche anno dopo, quando Federica difenderà le banche dagli attacchi di Emma che le accusa di non concedere abbastanza credito alle aziende: «LE BANCHE SONO IMPRESE E COME LE ALTRE, HANNO L’ESIGENZA DI FARE BILANCIO, E NON VANNO IMBRIGLIATE ECCESSIVAMENTE», dichiara Federica. Il mercato, ca va sans dire, viene prima di tutto. Funziona così, nel mondo di Federica Guidi: «La concorrenza è una gara, nella quale c’è chi vince e c’è chi perde. Le regole devono essere eque, ma l’arbitro non deve riscrivere la classifica, una volta che si è tagliato il traguardo. Purtroppo in Italia è penetrata a fondo una certa idea di egualitarismo, che porta a sostenere che non vi possono essere diseguaglianze legittime». Il merito, dice Federica, è la prima cosa. Lei ne è esperta: «UNA CERTA IDEA DI EGUAGLIANZA SERVE SOLTANTO A FAR SÌ CHE ALCUNI POSSANO VINCERE SENZA MERITO, MENTRE TANTI CHE MERITANO, NELLE GRADUATORIE DI CONCORSO PIUTTOSTO CHE ALTROVE, NON POSSANO VINCERE MAI». Il darwinismo sociale della neoministra – in un governo guidato dal segretario del primo partito della sinistra italiana – è incontenibile. Pensa a tutto il mercato, chi resta indietro "se lo merita". Per questo lo Stato va tenuto a freno: serve a fare le "regole" del e per il MERCATO. Per il resto, crea solo danni: «OCCORRE AGIRE SUL PERIME¬TRO DELLO STATO. UNA DRASTICA RIDUZIONE DELLA SPESA È OTTENIBILE SOLO ATTRAVERSO I TAGLI ALLA SPESA COR¬RENTE, CIOÈ DIMINUZIONE DELLA SPESA PER IL PERSONALE E PER I TRASFERIMENTI SOCIALI. BISOGNA AVERE IL CORAGGIO DI FARE LE DUE COSE ASSIEME: VENDERE PEZZI DI STATO E AFFIDARE ALLA GESTIONE PRIVATA LE COMPETENZE E LE PROFESSIONALITÀ CHE QUEI PEZZI DI STATO FANNO FUNZIONARE».
Non tutta l’austerity viene per nuoce-re. Federica non ne ha paura: «Per ri-portare ordine nelle finanze pubbliche, ci vorranno anni di risanamento e non mancheranno ripercussioni sul modello di Stato sociale europeo, accentuate dall’invecchiamento della popolazione», afferma nel 2010 tra gli applausi dei giovani industriali. Dura, diretta, scontrosa. Guidi "figlia" non le manda a dire. Nello scontro tra Confindustria e Marchionne, non ha dubbi: sta col secondo. «L’esperienza di Pomigliano ha avviato un confronto che porta in sé un orizzonte di speranza. La speranza nel ritorno del buon senso. Ci auguriamo che, quanto prima, anche il mondo sindacale partecipi a questo cambiamento», afferma nel 2010. Nonostante l’ad di Fiat abbia annunciato l’uscita dall’associazione di cui lei, Federica, è una delle massime dirigenti. Ora la vedremo gestire i 160 tavoli di crisi aperti, trattare coi sindacati a cui voleva negare il potere contrattuale, firmare la cassa integrazione che vorrebbe abolire, costruire le politiche industriali di uno Stato che vorrebbe minimo, difendere l’industria italiana dalle delocalizzazioni che lei stessa ha attuato nella sua azienda. Buona fortuna A lei e anche, un po’, a tutti noi. (di Manuele Bonaccorsi e Riccardo Tagliati)

3 – ROBERTA PINOTTI 52 anni, Difesa – Qualcuno già la chiama «la ministra con l’elmetto». ROBERTA PINOTTI, del resto, non si è mai preoccupata di nascondere la sua VICINANZA AGLI INTERESSI MILITARI E INDUSTRIALI. Ha detto : “Il mio primo impegno come sotto-segretario alla Difesa sarà per Fincantieri”, ha dichiarato subito dopo la sua nomina nel governo Letta. E puntualmente nella successiva legge di stabilità sono spuntati 5,8 miliardi di euro per la cantieristica militare (dieci navi in 20 anni). Genovese, 52 anni, due figlie, ex insegnante di italiano ed esponente locale del Pci-Pds-Pd, Pinotti è passata senza colpo ferire dalle marce per la pace alle parate delle Forze armate. Ben vista dai vertici militari, ha una carriera fulminante: eletta presidente della commissione Difesa della Camera nel 2006, otto anni dopo siede già sullo scranno più alto di Palazzo Baracchini. In mezzo è stata ministra ombra, responsabile del Forum Difesa Pd e sottosegretaria Sempre segnando il record di "prima donna" in un mondo dominato da divise e stellette. «UNA DONNA DALLE AMBIZIONI SFRENATE», ha detto di lei l’ex sindaco di Genova Marta Vincenzi. Certo, tra le due signore non corre buon sangue. Nel febbraio 2012 si sono sfidate alle primarie per la prima poltrona di Genova, uscendone sconfitte entrambe: vinse l’outsider Marco Doria con il 46 per cento dei voti (Pinotti arrivò terza col 23,6). Una vicenda che lasciò la senatrice molto amareggiata, tanto da adombrare una sua uscita dalla politica: «Credevo di essere utile a Genova come sindaco ma se dopo questa esperienza nessuno richiederà il mio impegno, valuterò se continuare. Ora comi ora è più l’amarezza che la voglia di an dare avanti». Allarme subito rientrato La sua nomina a ministro della Difesi pesta decisamente i piedi al fronte chi vuole ridurre la spesa militare. Anche perché dal 2006 a oggi Roberta Pinot ti si è sempre fatta notare per le continue richieste di fondi. Persino quando era all’opposizione, fino ad accusa re l’allora ministro della Difesa La Russa di aver fatto solo «tagli e propaganda». Tutte le volte che si è trovata al le prese con lo scottante capitolo de gli F35 ROBERTA PINOTTI È STATA INAMOVIBILE: «DAL PROGRAMMA NON si esce». Pur senza escludere una riduzione del numero dei caccia, non vuole
rinunciare all’investimento già fatto (quasi 3 miliardi di euro) e al ritorno legato all’impianto di Cameri (che molti esperti mettono in dubbio). Il rischio da evitare. dice, è la disputa ideologica Di certo lei "ideologica" non è. Tra le sue dichiarazioni spiccano infatti boutade come quella a favore della Santanchè («Personalmente non avrei problemi a eleggerla» vicepresidente della Camera) o il suo endorsement alla battaglia Sì Tav del senatore Esposito. Come quasi tutti gli esponenti di Area Dem (la corrente di Franceschini), alla vigilia delle primarie dell’8 dicembre Pinotti si è scoperta renziana convinta («Matteo ha cuore ed energia», cinguetta). Col neopremier, del resto, condivide l’esperienza negli scout, citata persino nel suo profilo twitter, che si chiude con una dichiarazione ideale: «Continuo a credere che si può lasciare il mondo meglio di come lo abbiamo trovato». A colpi di cacciabombardieri, però, non è facilissimo. ( Sofia Basso)

4 – ANDREA ORLANDO 45 anni. Giustizia. Ha detto : “Per noi il cambiamento è un governo che provi a ottenere la maggioranza al Senato sulla base di un progetto” . ECCO CHI DOVRA’ ROTTAMARE LA MAGISTRATURA – Stazione Leopolda, 27 ottobre 2013. La battaglia per scalare il Pd è in pieno svolgimento. Matteo Renzi parla di processi e di uno in particolare: «LA STORIA DI SILVIO CI DICE CHE DOBBIAMO FARE LA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA». Si ferma, guarda con malizia la platea, si do-manda come mai nessuno lo fischi o insulti e precisa: «La storia di Silvio Scaglia», il patron di Fastweb, l’uomo che torna in Italia e si consegna immediatamente ai giudici che vogliono arrestarlo e che, dopo un anno di custodia cautelare, viene assolto.
Il programma di Renzi sulla giustizia penale, forse, è tutto li. Lo ha ripetuto al Senato, cercando di sfilarsi dallo scontro ventennale tra giustizialisti e garantisti: le posizioni sono «calcificate», ha detto, e nessuno ormai è disposto a convincersi delle ragioni altrui. Quindi tocca a lui, che venti anni fa stava al liceo, sbloccare la situazione.
Le parole sono volutamente generiche, puntano solo a rimarcare un sentimento diffuso e, per ora, si sono tenute lontano dalle soluzioni: «C’è questa stanca rassegnazione per cui si parte dal presupposto che tanto quando si entra in un’aula di tribunale non si sa come se ne esce», ha detto Renzi. «Questo vale anche per la giustizia penale con ciò che comporta… esiste una preoccupazione costante nell’opinione pubblica (a prescindere dalle discussioni che sono state oggetto per 20 anni di dibattito politico) sul fatto che la giustizia in Italia corra il rischio di arrivare troppo tardi ed anche – permettetemi – di colpire in modo diverso» È UNA CONDANNA SENZA APPELLO DEL SISTEMA GIUDIZIARIO che certo necessita di una radicale ristrutturazione. Andrea Orlando, chiamato all’ultimo momento sullo scranno di via Arenula, ha chiara la percezione del vespaio in cui andrà ad infilarsi se a quelle parole dovessero seguire i fatti. La magistratura è una brutta gatta da pelare e non sarà un caso che, nei corridoi del potere, si attende da mesi la nomina del prossimo procuratore della Repubblica di Firenze. Per carità. CERTO È SOLO LA CURIOSITÀ DI SAPERE CHI PO¬TREBBE METTERE LE MANI NELLE CARTE DELL’AMMINISTRAZIONE GUIDATA DA RENZI SINO A POCHI GIORNI OR SONO. Sono le malizie del potere, ovviamente, che si diletta in dietrologie e chiacchiere. Ma è anche la cifra della centralità che l’apparato giudiziario ha conquistato nel Paese a discapito di ogni altra istituzione. Nel discorso di Renzi al Senato non si parla solo di giustizia penale, al centro di accuse di supplenza da parecchi decenni, ma anche di giustizia amministrativa. È un tema, questo, che era stato posto con durezza da Romano Prodi qualche mese or sono in un articolo pubblicato sul Messaggero e che era finito presto nel sottoscala della politica alle prese con altre rogne. Renzi lo ha riproposto e ne ha suggellato la rilevanza nel suo discorso di investitura. Ha pronunciato sul punto parole dure, mai ascoltate prima in Parlamento. LA GIUSTIZIA DEI TAR è certo meritevole di cure, ma non si può cedere alle pressioni delle amministrazioni, centrali e locali, che si lamentano dell’invasività delle toghe pronte ad annegare le loro decisioni in un mare di carta bollata. Mettiamo insieme un paio di dati: siamo il primo paese dell’Unione per la corruzione, stimata in 60 miliardi annui. Se si rende marginale la giustizia amministrativa (come Prodi e, ora, Renzi sembrano suggerire) la corruzione è destinata ad esplodere. Siamo ancora più chiari: se la bolla corruttiva è così grande essa si traduce ovviamente in atti che aiutano Tizio (il corruttore) e danneggiano Caio (l’onesto). Caio ha un solo rimedio: andare innanzi al Tar e impugnare l’atto. Mandare in soffitta la giustizia amministrativa equivarrebbe a consegnare il Paese al far west dei corrotti: tutti pagherebbero perché non avrebbero alcuna altra, seria, tutela. E certo non lo è la giustizia penale che, a parte i suoi tempi biblici, non consegna all’onesto le sue ragioni, ma punisce (eventualmente) il colpevole. Quindi prudenza, e Orlando dovrà praticarne tanta in questo settore. Un conto sono i ricorsi defaticanti e strumentali, altro è lo sfascio morale ed organizzativo di molti pezzi della pubblica amministrazione che esige un ragionevole presidio giudiziario. Sul versante della giustizia penale le cose non stanno messe meglio. Renzi lo ha detto: il processo è una roulette e nessuno è certo di far valere le proprie ragioni, ci sperava Silvio (Scaglia) e si è fatto un anno di detenzione. Dovrebbe essere chiaro che la partita non si gioca, solo e soltanto, sul piano delle garanzie e dei tecnicismi procedurali. Anche la prossima legge sulla custodia cautelare, fortemente voluta dal Pd, rischia di non migliorare l’affidabilità del sistema penale che merita una profonda riscrittura del ruolo del pubblico ministero e del giudice e una contrazione rilevante dell’area dei reati. La SEPARAZIONE DELLE CARRIERE, se non vuole essere percepita come una pura ritorsione della politica, dovrà essere discussa in un quadro ben più ampio di regole in cui se ne spieghino chiaramente vantaggi e costi. Il neoministro ha più volte subito su questi temi l’ostilità delle correi dell’Anni, molto reattive anche sul tema della discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale. Una pura bolla speculativa se si riducono drasticamente i reati. Questioni comunque da affrontare e risolvere una volta per tutte, vista la raffica di scioperi proclamati negli ultimi anni da un’avvocatura esasperata dallo stato del processo penale. C’è da chiedersi se la primavera renziana farà i conti con le più potenti corporazioni del Paese (magistrati e avvocati) oppure metterà pannicelli caldi (si sprecano le chiacchiere sull’informatizzazione i cui vantaggi sono infinitesimali) su un corpo con evidenti segni di cancrena. (Alberto Cisterna)

5 – GIAN LUCA GALLETTI, 53 anni, Ambiente UN NUCLEARISTA ALL’AMBIENTE, Ha detto: “ IO dico SI al nucleare. Altrimenti il Paese è destinato alla serie C” ( meno male che il popolo è sovrano….)
IL neoministro dell’Ambiente, Gianluca Galletti, è un commercialista bolognese di provata fede casiniana a cui piace l’energia nucleare. Come il concittadino leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, Galletti è UN CATTOLICO PRATICANTE E, IN LINEA CON QUANTO PIÙ VOLTE RIBADITO DAL CARDINALE BOLOGNESE CARLO CAFFARRA, SI È SEMPRE SCHIERATO IN DIFESA DELLA FAMIGLIA TRADIZIONALE, ETEROSESSUALE, CONSACRATA DAL MATRIMONIO E CONTRO L’ALLARGAMENTO DEI DIRITTI DELLE COPPIE NON SP 10
OSATE O OMOSESSUALI. In qualità di neoministro all’ambiente sono però le sue dichiarazioni rilasciate a Radio Città del Capo l’8 marzo del 2010 a fare clamore. Era in corso la campagna elettorale per la guida della Regione Emilia Romagna e Galletti per l’Udc tentava di far le scarpe al governatore uscente Vasco Errani (Pd). Fiero oppositore dell’atteggiamento nimby, Galletti aveva detto: «QUANDO CI SARÀ UN PIANO CHE DIMOSTRERÀ CHE CI SONO SITI PIÙ SICURI E PIÙ CONVENIENTI DI ALTRI, A QUEL PUNTO SE UNO DI QUESTI SITI FOSSE IN EMILIA-ROMAGNA IO MI ASSUMO LA MIA RESPONSABILITÀ: DICO SÌ. ALTRIMENTI QUESTO PAESE È DESTINATO ALLA SERIE C. VALE per il nucleare, come per le infrastrutture». Appena nominato ministro, ha preferito chiudere la polemica sul nucleare con di Riccardo Tagliati un tweet: «C’è stato un referendum. Gli italiani non l’hanno voluto, n tema è chiuso. Bene così». Navigato frequentatore delle assemblee elettive, il neo ministro è stato per anni consigliere comunale a Palazzo d’Accursio. Eletto per la prima volta nel 1990 sotto i colori della De. All’opposizione per due mandati, prima con lo scudo crociato e poi con il Centro cristiano democratico, con la storica vittoria della destra di Giorgio Guazzaloca ottiene il suo posto al sole: per cinque anni, dal 1999 al 2004, è l’assessore al Bilancio. Con il ritorno al governo della città del centrosinistra di Sergio Cofferati, Galletti torna all’opposizione. RIMASTO SEMPRE FEDELE A CASINI NEI VARI CAMBI DI NOME E PARTI-TO, è stato, in successione: consigliere dal 2005 al 2006; deputato Udc tra 2006 e 2008 e tra 2008-2013; candidato alla presidenza di Provincia e Regione. Nel governo Letta ha ricoperto il ruolo di sottosegretario all’Istruzione e PIÙ DI UNA VOLTA HA CONDANNATO IL REFERENDUM CONSULTIVO SUL FINANZIAMENTO ALLE SCUOLE DELL’INFANZIA PRIVATE, TENUTOSI NEL MAGGIO SCORSO A BOLOGNA, E VINTO DAI PROMOTORI. (Riccardo Tagliati)

6 – DARIO FRANCESCHIN, 56 ANNI , Beni culturali “ ha detto: I Patrimonio d’arte e privati? Per me non c’è nessun tabù”. – CULTURA, FRANCECHINI NON CAMBIA VERSO.
NEL rumore di fondo dell’eterno pettegolezzo intorno ai nuovi potenti si è più volte ripetuto che quando Matteo Renzi è a Roma, dorme all’Hotel Bernini Bristol, dell’amico BERNABÒ BOCCA, senatore di Forza Italia e genero di GERONZI. Quel BOCCA che, intervistato da VITTORIO ZINCONE nel settembre scorso, si scagliava contro i «divieti» dei soprintendenti, auspicava la realizzazione di due campi da golf a Capalbio e invocava il messianico intervento dei privati. Bocca è nel consiglio di amministrazione di Civita, il più grande concessionario del patrimonio culturale, dunque sapeva cosa diceva. E uno si chiede: ma quando, la sera, Renzi e Bocca si trovano a fare due chiacchere in albergo, se parlano di politica culturale, sono d’accordo o no? Tutto indica che la «profonda sintonia» che Renzi ha dichiarato di avere con la destra di Berlusconi in tema di riforma della Costituzione (sic!), vige anche in tema di beni culturali. IL NUOVO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO HA DETTO PIÙ VOLTE DI VOLER ABOLIRE LE SOPRINTENDENZE («Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che?», così nel suo libro Stil novo, a p. 23), e, nella manciata di parole che ha dedicato alla cultura in chiusura del comizio di paese con cui ha chiesto la fiducia al Senato il 24 febbraio, è riuscito a dire solo che «SE È VERO CHE CON LA CULTURA SI MANGIA, AL¬LORA DOBBIAMO APRIRE I BENI CULTURALI AGLI INVESTIMENTI PRIVATI». Anche da questo punto di vista, il governo Renzi-Alfano si pone in perfetta continuità con quello Letta-Alfano. Alla vigilia della sanguinosa staffetta che lo ha cancellato, Enrico Letta aveva presentato Impegno Italia, sedicente manifesto di una svolta possibile. L’unico punto dedicato alla «cultura» (il 41 esimo, su 50) prevedeva di «RAFFORZARE LA GESTIONE ECONOMICA DEI BENI ARTISTICI E CULTURALI. INCENTIVARE LO SVILUPPO DEI SERVIZI AGGIUNTIVI DA DARE IN CONCESSIONE AI PRIVATI». Se si ricorda che il presidente di Civita si chiama Gianni Letta, si comprenderà forse perché il governo Enrico Letta avvertisse questa urgenza. Ma il problema va ben oltre il contingente conflitto di interessi. Infatti, il docu-mento di Letta è stato fatto proprio dalla direzione Pd che lo ha defenestrato, ed è proprio quella l’unica cosa detta da Renzi al Senato. Una vera telepatia unisce dunque Renzi a quel Dario Franceschini che solo pochi anni fa definiva «il vice disastro» e «una delusione continua», e che ora ha messo alla guida del ministero per i Beni culturali, pardon al ministero del Petrolio. Intervistato dal Sole 24 Ore all’indomani della nomina, Franceschini non ha infatti trovato di meglio che riesumare l’ormai inascoltabile luogo comune del patrimonio culturale come petrolio d’Italia: «Penso che il ministero della cultura sia in Italia come quello del petrolio in un paese arabo». E ancora: «La cultura è il nostro petrolio». Insomma, il ministro è riuscito ad avverare in un batter d’occhio il profetico anagramma sfornato poche ore prima da STEFANO BARTEZZAGHI: “DARIO FRANCESCHINI = Dir frasi canoniche”. Il copyright della canonicissima metafora del petrolio spetta al deputato democristiano MARIO PEDINI (1918-2003), noto soprattutto per essere uscito nelle liste della P2. Ma a renderla celebre fu GIANNI DE MICHELIS, che nel 1985 proclamò che: «Le risorse necessarie alla conservazione non ci saranno finché non ne viene evidenziata la valorizzazione economica». Partiva allora il tormentone dei "giacimenti culturali", al cui prodotto finale ben si attaglia questa analisi di Joseph Stiglitz: «I Paesi che abbondano di risorse naturali sono tristemente famosi per le attività di ricerca della rendita. In tali Paesi è molto più facile diventare ricchi ottenendo un accesso privilegiato alle risorse che generando ricchezza. Questo è spesso un gioco a somma negativa». La politica culturale, ancora una volta, non cambia verso. (di Tomaso Montanari)

7 – STEFANIA GIANNINI, 54 anni, Istruzione. IL RETTORE che amava la riforma GELMINI. Ha detto: “Prestiti d’onore per gli studenti. Li ripagheranno quando troveranno lavoro”.
IL nuovo ministro dell’Istruzione (dell’Università e della Ricerca), STEFANIA GIANNINI, oltre a essere segretario di Scelta civica, è stata fino al 2013 rettore dell’università per stranieri di Perugia. Prosegue dunque in maniera coerente la sequenza dei rettori ai vertici del Miur. Era già accaduto con FRANCESCO PROFUMO e MARIA CHIARA CARROZZA, senza dimenticare la recente nomina a capo Dipartimento per l’università di Marco Mancini, ex presidente della Conferenza dei rettori (Crui). Dunque, la Crai – che molto si era spesa per l’approvazione della riforma Gelmini, quella che avrebbe dovuto mettere un freno allo strapotere dei baroni – continua a determinare ogni scelta su ricerca e università. Comunque è interessante notare che anche il resto del governo, dal premier al ministro per lo Sviluppo economico, tutti sono sempre stati a favore della riforma Gelmini. Per non fermarsi alla filosofia politica di Iva Zanicchi – che su Berlusconi disse «lasciamolo lavorare, poi se non siamo soddisfatti, un calcio in culo e via…» – cerchiamo di inquadrare quali sono le idee del nuovo ministro su università e ricerca. Tra le recenti dichiarazioni riaffiora un pensiero comune ai due passati ministri: «PER VINCERE BANDI EUROPEI CI VUOLE UNA MENTALITÀ CHE L’ITALIA ANCORA NON POSSIEDE». Invece di pensare a come cambiare la "mentalità" dei ricercatori italiani il ministro farebbe bene a considerare il fatto che proprio lo scorso 14 gennaio V° European research mundi annunciava l’assegnazione di 312 finanziamenti a progetti di ricerca, per un totale di 575 milioni di euro.
II 15% dei progetti sono stati vinti da italiani: appena poco meno dei tedeschi ma molto più dei francesi e degli inglesi. Meno della metà dei vincitori italiani svolgeranno però le proprie ricerche nel Belpaese. DUNQUE IL PROBLEMA DI CUI SI DEVE OCCUPARE IL MINISTRO NON È AFFATTO QUELLO DI CAMBIARE LA MENTALITÀ DEI NOSTRI RICERCATORI, MA CREARE LE CONDIZIONI STRUTTURALI PERCHÉ QUESTI – COME PURE QUELLI STRANIERI – TROVINO IN ITALIA DELLE RAGIONI FAVOREVOLI PER IMPIANTARE LA PROPRIA ATTIVITÀ di ricerca. Questo significa ad esempio un ambiente florido, in cui la ricerca sia finanziata. Mentre da noi le risorse per i progetti di ricerca "curiosity driven" sono pari a zero. Significa anche avere regole di reclutamento, assegnazione delle risorse e modalità di carriera confrontabili con quanto accade nei Paesi con cui vorremmo competere, innanzitutto la Francia, che ha il sistema universitario e della ricerca più simile a quello italiano. Un altro punto che sta a cuore al nuovo ministro sembra quello del diritto allo studio. L’Italia è uno dei Paesi in Europa dove le tasse universitarie sono più alte e dove la percentuale di studenti che possono accedere ad una borsa di studio è più bassa. INOL-TRE, CIRCA UN UNIVERSITARIO SU DUE AVENTE DIRITTO ALLA BORSA DI STUDIO, IN BASE ALLA LEGISLAZIONE VIGENTE, NON LA riceve per assenza di adeguate risorse. Qual è la soluzione del ministro? Aumentare il fondo delle borse di studio cercando d’arrivare allo stesso livello di altri Paesi europei, dove il numero di laureati in percentuale alla popolazione è il doppio che in Italia? Niente affatto. IL MINI-STRO PENSA A UN SISTEMA DI PRESTITI CHE «GLI STUDENTI RIPAGHERANNO QUANDO TROVERANNO UN LAVORO, IN PROPORZIONE AL REDDITO CHE GUADAGNERANNO: PAGHERANNO CIOÈ POCO (O NULLA) QUANDO IL LORO REDDITO SARÀ BASSO, E PAGHERANNO DI PIÙ QUANDO SE LO POTRANNO PERMETTERE». Ciò significa assumere che la spesa in ricerca e istruzione è un investimento privato e che non ci sono benefici pubblici dell’istruzione universitaria: in pratica IL MINISTRO HA IN MENTE, COME IL SUO COMPAGNO DI PARTITO PIETRO ICHINO, IL MODELLO INGLESE DOVE LE TASSE UNIVERSITARIE SONO AUMENTATE DI COLPO A PIÙ DI LOMILA EURO L’ANNO INDEBITANDO A VITA GENERAZIONI DI STUDENTI. Insomma, si ha l’impressione di un ministro che ha già scelto per voca-zione ideologica le sue linee d’inter-vento: se un maggiore pragmatismo sarebbe stato più utile alla causa del-la ricerca e della formazione terziaria in Italia, il ministro Giannini sembra piuttosto la scelta opportuna per il nuovo governo di destra, mai passato per le urne, che questo parlamento ci ha appena regalato. (di Francesco Sylos Labini)

8 – MARIA ELENA BOSCHI, 33 anni, nata a Montevarchi. Riforme costituzionali e Rapporti con il Parlamento. Al referendum sull’acqua nel 2011 ho votato NO.. Non è il ministro più giovane nella storia della Repubblica: il primato appartiene ad Enrico Letta, che fu nominato per la prima volta a 32 anni. L’amicizia e la collaborazione con Renzi è di lunga data. Nella campagna delle primarie del 2012 contro Pier Luigi Bersani, lui le chiese di far parte del suo staff. Poi la candidatura in Parlamento nel listino, senza passare per le primarie. A Montecitorio è entrata in commissione Affari Costituzionali e, con Renzi alla guida del Pd, è diventata responsabile Riforme del partito

9 – MARIANNA MADIA, 39 anni. Semplificazione e P.a. Ha detto: “L’aborto è il fallimento della politica, un fallimento etico, economico, sociale e culturale… credo che la vita la dà e la toglie Dio, noi non abbiamo diritto di farlo. Quindi dico no all’eutanasia. Se si parla di famiglia io penso a un uomo e una donna che si sposano e fanno dei figli. Scegliendo per la vita”.

10 – ANGELINO ALFANO, Ncd – 43 anni, Interno. Ha detto: “Della vicenda Shalabayeva non ero stato informato, non era stato informato nessuno del Governo”. È segretario del Nuovo Centrodestra, che ha fondato dopo la rottura con Silvio Berlusconi. Confermato all’Interno, come nel governo Letta. Ma, a differenza che nel precedente esecutivo, non è vicepremier. Renzi, infatti, non ha assegnato questo ruolo

11 – MAURIZIO LUPI,(Ncd) 54 anni, Infrastrutture e Trasporti. Ha detto: “Ritengo personalmente, ovviamente, che il Ponte sullo Stretto sia e continui a essere un’opera fondamentale”.

12 – FEDERICA MOGHERINI (Pd) 40 anni Affari esteri – È la più giovane responsabile della Farnesina nella storia della Repubblica. Già responsabile Esteri e Europa della segreteria Pd, è la terza donna a capo delle Feluche dopo Susanna Agnelli e l’uscente Emma Bonino.

13 – BEATRICE LORENZIN (Ncd) Salute , 43 anni, nata a Roma, diploma di liceo classico. Riconfermata al , dicastero che le era stato assegnato da Letta. Eletta con Forza Italia e passata con Alfano in Ncd, prima di entrare al Parlamento era libera professionista. Ha detto: “ in un comizio dell’ex capo, vi presento SB il nuovo BL della politica italiana”, rimarrà nella storia.

14 – MAURIZIO MARTINA (Pd) Politiche agricole – Nato nel 1978 a Calcinate, nel bergamasco. Si è diplomato all’Istituto tecnico Agrario di Bergamo. Poi la laurea in Scienze Politiche. Nel 2007 è tra i fondatori del Partito Democratico. Nel 2010 è eletto Consigliere della Regione Lombardia, incarico riconfermato nelle consultazioni popolari del febbraio 2013. Il 3 maggio 2013 ha giurato come Sottosegretario di Stato del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali del Governo Letta

15 – GIULIANO POLETTI Lavoro e politiche sociali – 63 anni, imolese. È stato presidente nazionale di Legacoop e, da qualche mese, numero uno dell’Alleanza delle cooperative. E’ stato assessore comunale, vice presidente del circondario Imolese e consigliere comunale, nonché ultimo segretario della federazione di Imola del Partito comunista, fino al 1989.

16 – MARIA CARMELA LANZETTA (Pd) 57 anni, sposata, è stata sindaco di Monasterace, in Calabria. Affari regionali – La sua passione è l’archeologia. Da primo cittadino ha subito diverse intimidazioni da parte delle mafia. Le dimissioni nel luglio scorso, in polemica con il voto contrario di un assessore in merito alla costituzione di parte civile contro alcuni indagati in un procedimento penale a carico di un dipendente comunale accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Fu inserita da Pippo Civati nel Pantheon della sua sinistra in occasione del confronto su Sky Tg24 con gli altri candidati alla segreteria del Pd nelle primarie.

SOTTOSEGRETARI, C’È POSTO PER TUTTI. NOMINE / Manuale CENCELLI e biografie imbarazzanti. Renzi dimentica la retorica sulle quote rosa. Viceministro della giustizia l’autore delle leggi ad personam per Berlusconi. Alla cultura la «impresentabile» sarda.
IL RITO intramontabile del listone dei sottosegretari. Se ne comincia a parlare nelle stesse ore in cui si fanno i ministri, le sotto poltrone funzionano da compensazione e talvolta da risarcimento. Le trattative si ingarbugliano e continuano fino al tavolo del Consiglio dei ministri, quando c’è la tradizione per i candidati in attesa di trovarsi, in quei quarti d’ora fatali, a passeggio attorno palazzo Chigi, in giro con gli aspiranti portaborse. Quasi sempre deve intervenire alla fine il presidente del Consiglio, è successo anche stavolta, per risolvere tra le inconciliabili richieste. Si racconta che D’Alema alla sua unica esperienza si fece consegnare le biografie dei pretendenti e compilò da solo e personalmente l’elenco. Immancabili le sorprese. Ieri mattina il viceministro VINCENZO DE LUCA aveva già ricevuto le congratulazioni, quando scaramantico si era messo a chiamare direttamente la sala dei ministri per stare tranquillo. Da un certo punto in poi non gli hanno più risposto.
DE LUCA è il «trombato» eccellente, ma ci so-no anche eccellenti promossi come il senatore calabrese del Nuovo centrodestra ANTONIO GENTILE che solo pochi giorni fa è stato coinvolto in una brutta storia di censura. Il direttore del quotidiano L’Ora della Calabria ha raccontato di aver subito pressioni da parte dell’editore per non pubblicare la notizia di un’inchiesta a carico del figlio del senatore, al suo rifiuto lo stampatore ha bloccato il giornale in tipografia adducendo problemi tecnici. GENTILE sarà sottosegretario alle INFRASTRUTTURE.
Ma non basta guardare alle biografie per giudicare il listone. Anzi, conviene partire dagli equilibri di potere: al Pd è andata la quota più consistente di incarichi, 25 di cui quattro viceministri. La maggioranza sono renziani (dieci),
Bottino grosso anche per i FRANCESCHINIANI (sette) e per i CUPERLIANI (sette), categoria che però riassume diverse sfumature; uno solo il lettiano puro, l’ex presidente della Basilicata VITO DE FILIPPO che si è dimesso per essere stato coinvolto nell’inchiesta sui rimborsi regionali. A ruota del Pd ci sono le poltrone del Nuovo centrodestra, dieci di cui due da viceministro: Alfano ha badato a premiare soprattutto i capibastone territoriali che gli consentono di organizzare il partito. Oltre a GENTILE spiccano il pugliese MASSIMO CASSANO, il siciliano GIUSEPPE CASTIGLIONE e la padovana BARBARA DEGNAI, presidente della provincia – cioè di un ente che Renzi promette di cancellare. Stesso bottino identico, tre sotto-segretari e un viceministro, per le due fazioni ad alta litigiosità della fu lista Monti, Scelta civica e Popolari per l’Italia. Un posto solo ma da viceministro alle infrastrutture (quello che era di DE LUCA) per il segretario dei socialisti, RICCARDO NENCINI. La retorica renziana sulla parità di genere segna immediatamente il passo: nel listone dei 44 le donne sono solo nove, e così in barba a tanti slogan la percentuale di rappresentanza femminile complessiva è la stessa del governo Letta. Che era anche più snello, altro mito da sfatare, 61 scrivanie totali contro le 62 dell’esecutivo Renzi.
Per il resto c’è continuità assoluta. Se i ministri confermati erano otto, i sottosegretari sono più del doppio: 17. Caso limite quello del Viminale, dove non solo ANGELINO ALFANO ha conservato l’incarico di ministro malgrado la figuraccia rimediata nel caso Shalabayeva (con tanto di critiche, allora, di Renzi) ma si è visto anche confermare i tre collaboratori, il viceministro BUBBICO e i sottosegretari BOCCI e MANZIONE. Al ministero dell’interno nulla è cambiato. Conferma anche per il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi MARCO MINNITI, agli esteri del viceministro LAPO PISTELLI e del sottosegretario GIRO e di quasi tutta la squadra dello sviluppo economico, con i viceministri CALENDA e DE VINCENTI e la sottosegretaria Vicari.
E veniamo alle novità. Due a palazzo Chigi, coppia di renziani doc come sottosegretari alla presidenza del Consiglio. Ma il primo è un collaboratore storico del segretario Pd. LUCA LOTTI,
e avrà la delega all’editoria, il secondo è una conquista più recente della corrente – via GOFFREDO BETTINI -, SANDRO GOZI che avrà la delega pesante agli affari dell’Unione europea. Al ministero delle riforme arriva Ivan Scalfarotto con l’annunciato compito di dedicarsi alle unioni civili, promosso anche GIANCLAUDIO BRESSA, grande esperto di legge elettorale e regista per Renzi di diversi passaggi sull’Italicum, peccato gli sia stato trovato posto solo agli affari regionali. Notevole la poltrona di sottosegretario alla difesa per un generale di corpo d’armata, Domenico Rossi. Ex presidente del Cocer, ROSSI è stato eletto con Monti ed è adesso con i popolari dell’ex ministro Mauro: la sua candidatura era stata contestata perché si trattava DI UN GENERALE IN SERVIZIO ATTIVO, sottocapo di stato maggiore.
Incarico importante quello di ANTONELLO GIACOMELLI, franceschiniano di esperienza con un passato di direttore di una televisione privata fiorentina, Canale 10, e di collaboratore del gruppo Cecchi GORI. Sarà lui a occuparsi di Telecomunicazioni come sottosegretario allo sviluppo economico, ministero guidato dalla già berlusconiana FEDERICA GUIDI. Promossa anche la renziana sarda FRANCESCA BARRACCIU, vincitrice delle primarie per le regionali ma poi esclusa dalla corsa per la presidenza e anche dalla lista degli assessori PERCHÉ INDAGATA per i rimborsi regionali: per lei un posto alla cultura. Ma la nomina più importante l’ha probabilmente strappata ancora ALFANO, sistemando come vice ministro alla giustizia ENRICO COSTA, figlio DELL’ULTIMO SEGRETARIO DEL PARTITO LIBERALE Raffaele. Da berlusconiano non pentito, COSTA junior è stato battagliero capogruppo in commissione giustizia: l’ultima delle leggi ad personam che avrebbe dovuto SALVARE il Cavaliere, il legittimo impedimento, PORTA LA SUA FIRMA.

( FONTE: L’Unità, Left, Il Manifesto ed Internazionale)

 

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