11020 Banca d’Italia e Movimento 5 Stelle

20140203 10:38:00 guglielmoz

Abbiamo assistito in questi giorni a uno spettacolo triste, avente ad oggetto la Banca d’Italia, a cui si sono abbandonati in tanti, ognuno sbagliando probabilmente a suo modo.
Ricapitoliamo un attimo il motivo del contendere. Il Governo deve abolire la seconda rata dell’IMU.
Per trovare i soldi, decide allora di inserire nel decreto legge che riguarda questo aspetto la questione della “rivalutazione” delle quote detenute dalle banche in Banca d’Italia, così da incassare all’incirca un miliardo grazie alle entrate fiscali derivanti dalle plusvalenze che le banche, in questo modo, hanno realizzato iscrivendo le rivalutazioni in questione nei loro bilanci.

L’opposizione al decreto, legittima quanto si voglia, si è espressa attraverso forme di brutalità e violenza, in specie da parte del M5S, che non si vedevano da tempo e tali da lasciar interdetti e preoccupati circa la stabilità del nostro sistema democratico nel futuro prossimo.
Resta nondimeno il problema della posizione del M5S. Cioè, non si è riusciti a capire se il Movimento 5 Stelle abbia delle posizioni ed opinioni riguardo ai temi di merito o, piuttosto, intenda unicamente cavalcare una protesta, che talvolta appare pure senza costrutto, contro tutto e tutti al grido di: tutti ladri e corrotti. Magari coprendo con ciò alcune sue divisioni ideologiche che altrimenti verrebbero fuori in maniera dirompente.
Onde sgombrare il campo da alcune pregiudiziali, partiamo anzitutto a titolo preliminare dalla costituzionalità del decreto convertito in legge la scorsa settimana. Si tratta, con ogni evidenza, di un decreto disomogeneo nei contenuti e carente dei presupposti di necessità e urgenza, quantomeno nella parte relativa alla Banca d’Italia, richiesti dall’art. 77 della Costituzione. Non si vede cosa c’entri l’IMU con il sistema di governance di Banca d’Italia, se non fosse per l’appunto per l’esigenza di far cassa immediatamente. Non stupisce che Napolitano abbia promulgato la legge di conversione. Stupisce, invece, che la Presidente della Camera abbia applicato un istituto non previsto dal Regolamento della Camera, richiamato “per analogia” da quello del Senato secondo la “giurisprudenza” Violante e successori. Va detto, a tal proposito, che è estremamente dubitabile che in materia sia applicabile il principio dell’analogia, perché ogni camera è libera di disciplinare la propria attività e non è tenuta a seguire l’ordinamento dell’altra, come è ovvio sulla scorta del principio di distinzione all’interno del potere legislativo essendo vigente infatti il sistema del bicameralismo paritario.
In altre parole, se il Governo e la maggioranza parlamentare non sono in grado di portare ad approvazione del Parlamento il decreto nei limiti temporali previsti dall’art. 77 della Costituzione, non è compito del Presidente della Camera risolvere il problema del Governo, sempre in base al principio di distinzione e separazione dei poteri che pure informa il nostro ordinamento costituzionale.
È auspicabile che la Corte Costituzionale intervenga in futuro per procedere a una declaratoria di illegittimità costituzionale del decreto legge governativo per la ragioni che si sono dette prima. Ma è oltremodo dubitabile che la Corte voglia entrare in merito alla questione della ghigliottina e della sua applicabilità alla Camera, dal momento che il procedimento di formazione delle legge, e dei decreti legge, è sindacabile sì dalla Corte Costituzionale, ma solamente alla luce delle norme contenute nella Costituzione, la Corte essendosi sempre astenuta dall’effettuare un controllo in ordine ai regolamenti parlamentari e alla loro conformità alla Costituzione.
Ciò premesso, la questione della Banca d’Italia non può essere affrontata senza partire da un riassunto storico della sua formazione. Stupisce che né i partiti né i giornalisti riescano mai a impostare le questioni in questi termini. Nell’assenza di un inquadramento storico non è possibile infatti risolvere i problemi che oggi attanagliano il nostro paese. In caso contrario, si continua a ruotare intorno ai problemi. Quando se ne risolve apparentemente uno, se ne crea immediatamente un altro da dover risolvere subito, senza che il sistema si tenga più insieme. È lo studio della storia che ci aiuta a evitare di cadere in questa trappola. Ma pare che neanche i giovanotti del M5S, per quanto molti siano laureati, ci vogliano sentire da quest’orecchio.
La Banca d’Italia nasce alla fine del XIX secolo attraverso la fusione di alcune banche private, a cui lo Stato diede “in concessione” il compito di emettere moneta. Come si vede, dunque, la Banca d’Italia nasce come ente meramente privatistico (in conclusione torneremo su questo aspetto). Successivamente, in occasione della Grande Crisi, il regime fascista nazionalizzò la Banca d’Italia, che divenne così statale. Il testo unico delle leggi bancarie del 1936 stabiliva, difatti, che la Banca d’Italia fosse un ente di diritto pubblico. Attenzione, però, questa nazionalizzazione avveniva senza escludere le banche dal capitale della Banca d’Italia. Le banche, quelle detenute dallo Stato, continuavano infatti a versare una quota di capitale alla Banca d’Italia (d’altronde, il fascismo aspirava all’eternità, quindi non si poneva il problema di una successiva privatizzazione delle banche pubbliche). Il sistema bancario è stato a sua volta privatizzato negli anni ’90 del secolo scorso. Per questa via, è accaduto che le banche divenute private abbiano continuato a detenere quote, mai rivalutate, del capitale di Banca d’Italia.
Dopo questo breve excursus storico, sorge il dubbio: ma la Banca d’Italia cos’è amministrativamente? Le Sezioni Unite della Cassazioni hanno ribadito quanto già affermato dalla legge, cioè che si tratta di un ente di diritto pubblico. Il problema è che la sua struttura di governance ricalca però in parte, sia per conformazione sia per strutturazione attuale, quella di una società per azioni di diritto privato.
Come si può definire questo incrocio? Evidentemente, siamo in presenza, come sovente accade in Italia, di un regime misto, in cui la banca non è completamente privata ma non è nemmeno completamente pubblica. Posto questo problema, pare evidente che ogni discussione intorno a chi sia “il proprietario” della Banca lasci in buona sostanza il tempo che trova. In queste condizioni è completamente impossibile dare una risposta al quesito dicendo bianco o nero.
Ora, il Governo ha disposto una rivalutazione delle quote. Questa rivalutazione non è meramente numeraria, ma viene realizzata attraverso una ricapitalizzazione della Banca. Cioè, non è stato seguito il metodo di aggiornare il valore delle quote versate dalle banche nel 1936 sulla base del tasso di inflazione registrato in Italia da allora. Si è proceduto invece a una ricapitalizzazione utilizzando a tal fine le riserve della Banca d’Italia. Ciò ha fatto gridare allo scandalo il M5S perché così si sarebbe fatto un favore gratuito alle banche e si sarebbero rubati i soldi dei cittadini perché le riserve della Banca d’Italia sarebbero degli italiani (citazione tratta da un articolo di Loretta Napoleoni sul Fatto Quotidiano).
Anzitutto, diciamo che ci sono alcune cose che, certamente, non vanno affatto nella mossa del Governo. Il valore della ricapitalizzazione (7,5 miliardi di Euro) non è affatto pacifico. La commissione di saggi nominata per procedere al calcolo del valore della Banca d’Italia in base al quale poi operare la ricapitalizzazione si è orientata per un valore oscillante tra i 5 e i 7,5 miliardi di Euro, utilizzando il metodo del Divided Discount Model (vedi parere dei saggi pubblicato sul sito di Banca d’Italia). Il Governo ha assunto il valore di 7,5 miliardi senza spiegare perché (è facilmente ipotizzabile che, avendo individuato questa cifra, il Governo intaschi di conseguenza un’entrata fiscale maggiore di quella che avrebbe realizzato indicando invece il valore della Banca d’Italia a 5 miliardi di Euro). Il tutto mentre la Banca Centrale Europea (vedi parere pubblicato sul sito della BCE) ha avanzato dubbi sulla metodologia impiegata dai saggi per calcolare il valore di Banca d’Italia. Alla luce del parere della BCE sarebbe stato forse perlomeno più prudente scegliere, da parte del Governo, il valore più basso indicato dai saggi.
La ricapitalizzazione avviene, in secondo luogo, attraverso l’utilizzo delle riserve di Banca d’Italia. La critica mossa dal M5S, all’apparenza, sembra coerente, ovverosia le ricapitalizzazioni dovrebbero avvenire di norma tramite nuovi conferimenti operati dagli azionisti. Il che in questo caso non avviene. Resta pur sempre vero che il conferimento dell’azionista non è l’unico metodo che si può seguire. Se una società ha i mezzi (propri) per ricapitalizzarsi, mediante magari degli accantonamenti, non è necessario sempre un conferimento degli azionisti. Questo è anche il caso della Banca d’Italia.
Si è obiettato che così si sono rubati i soldi degli italiani. Ma la storia brevemente riassunta in precedenza ci invita alla prudenza. Non si può infatti affermare con certezza che le riserve di Banca d’Italia siano di proprietà dello Stato (o del popolo). A parte il fatto che ciò non sta scritto da nessuna parte nella legislazione (il che dovrebbe indurci a essere quantomeno più prudenti nell’esprimerci), la legge stessa dice che i diritti patrimoniali dei partecipanti al capitale possono riguardare, entro certi limiti, le riserve stesse della Banca. In altre parole, a voler essere estremi, nel caso della Banca d’Italia potremmo persino arrivare a sostenere che ci troviamo di fronte a un caso di proprietà privata delle strutture finanziarie della Banca d’Italia (dal capitale alle riserve), con una limitazione dei diritti patrimoniali dei partecipanti per ragioni pubblicistiche, perfettamente ammessa dall’art. 42, comma 2, della Costituzione, che consente di limitare la proprietà privata per assicurarne la funzione sociale. Chi scrive preferisce comunque non portare la questione fino a questo estremo, ma pensare che la questione della “proprietà” non vada proprio affrontata nei termini che sono di uso comune. La “proprietà” è condivisa, dunque non si può dire che ci sia stato uno scippo.
Si è obiettato, inoltre, che agendo in questo modo lo Stato avrebbe erogato aiuti di Stato ad imprese private incompatibili col diritto comunitario. Anche qui però pare che nessuno si sia peritato di leggere il parere della BCE che pure è un’istituzione comunitaria, la quale, ben consapevole della complessità della questione e che la Banca d’Italia si trova in un regime misto, si è ben guardata dal formulare una simile ipotesi di infrazione del diritto comunitario. È vero che nel paragrafo finale del suo parere, la BCE ha detto che, in caso di acquisizione temporanea di quote del suo capitale da parte della Banca d’Italia allorché i partecipanti privati al capitale detengano soglie superiori a quelle previsto dalla legge, si verserebbe nell’ipotesi di un aiuto agli “azionisti”. Ma è parimenti vero che la BCE non ha qualificato ciò come un potenziale aiuto di Stato proprio per le complessità ora descritte.
Dove è allora il punto, dopo tutta questa disamina? Il punto è che non si approfittato della questione per discutere la questione centrale, il vero problema: nazionalizzare o meno la Banca d’Italia, rimborsando ai partecipanti al capitale una buona volta le loro quote e riformando la struttura di governance per impedire in futuro che le banche private possano ri-accedere alla Banca d’Italia. Magari le riserve così impiegate, dopo un decreto di nazionalizzazione della Banca d’Italia, avrebbero potuto essere impiegate per rimborsare le banche private delle loro partecipazioni. Una simile misura non avrebbe determinato un aiuto di Stato, anche se qualche dubbio avrebbe sollevato, forse, riguardo alla compatibilità col Trattato sull’Unione Europea dove questo stabilisce che le riserve delle banche centrali nazionali fanno parte delle riserve più complessive delle riserve della BCE.
Questa proposta, stranamente, non è stata avanzata formalmente da nessuno. Da SEL forse per non entrare in rotta di collisione col PD, che di certo non avrebbe ideologicamente gradito l’ipotesi di nazionalizzare del tutto la Banca d’Italia. Né dal M5S perché o essi non hanno una posizione in proposito preferendo piuttosto cavalcare unicamente la c.d. antipolitica attraverso una costante mediatizzazione e spettacolarizzazione delle proprie azioni (peccato, dal momento che la Camera dei Deputati dispone di una bella biblioteca dove i deputati, dovendo magari pure prepararsi ogni tanto, potrebbero passare un po’ di tempo a studiare, così come faceva l’On. Giacomo Matteotti prima di pronunciare i suoi discorsi parlamentari) o perché essi sono divisi internamente rispetto a queste questioni, essendo portatori anche di posizioni politiche di destra.
Il terreno economico si rivela, perciò, particolarmente problematico e scivoloso per il M5S, quello in cui non sembra essere né molto saldo né molto ferrato. Peccato poi che per coprire tale carenza, quale che ne sia la ragione di fondo, si ricorra a un metodo comunicativo che sembra del tutto analogo alle metodologie praticate dal berlusconismo.
Più complessivamente, stupisce infine che la sinistra, e taluni dei suoi economisti, non riesca a portare le questioni lì dove pure si potrebbe facilmente arrivare. Ciò deriva, come si è detto, da una forte carenza di analisi storica e anche giuridica che la caratterizza. In linea generale bisogna osservare che, mentre comunque i giuristi hanno fatto uno sforzo nella direzione dello studio dell’impatto economico delle regole giuridiche, non pare invece che gli economisti, e gli economisti di sinistra non sembrano fare eccezione, abbiano fatto alcuno sforzo per comprendere le dinamiche giuridiche dell’economia. In più, bisogna aggiungere che alcuni economisti, specie di sinistra, vivono una sorta di illusione, cioè pensare che la moneta e la banca centrale siano per definizione, per natura delle cose, dello Stato. Non è così, storicamente non è vero (e lo abbiamo visto ripercorrendo la storia della formazione della Banca d’Italia), né è vero ideologicamente. Premesso che non esiste una definizione accettata di moneta, è necessario ricordare che l’emissione della moneta non era storicamente una funzione dello Stato come lo intendiamo oggi, tant’è vero che la Banca d’Italia nasce dalla fusione di banche private (ciò dice niente?). Ricordiamo inoltre che, anche se su concessione statale, prima dello scandalo della Banca Romana (dopo il quale venne appunto istituita la Banca d’Italia) nel 1893 erano almeno 6 le banche private che in Italia, sia pure su concessione governativa, erano autorizzate a emettere moneta, essendo all’epoca vigente pertanto una variante del modello detto del free banking.
Anche ideologicamente è obbligatorio osservare che la destra liberista, principalmente Von Hayek, è fautrice di un sistema in cui sono le banche private a emettere moneta e lo Stato non è tenuto a fissare la massa monetaria per politica sua propria, dovendo le banche immettere nel sistema la liquidità che esse giudicano necessaria.
Come si vede, anche nel caso della moneta vige una distinzione di fondo tra destra e sinistra. È possibile, cioè, che la gestione della moneta avvenga con modalità privatistiche, ove si consideri che la moneta e il risparmio sono funzioni e ambiti su cui lo Stato non deve intervenire, ovvero con modalità pubblicistiche là dove si consideri (come ritiene chi scrive) che la politica della moneta abbia un rilevante impatto sociale e che il perseguimento dell’interesse individuale, anche in questo campo, non comporti un’automatica realizzazione dell’interesse collettivo.
Non dimentichiamo, inoltre, che noi siamo abituati a considerare la moneta nazionale come unica. Ma può anche darsi l’ipotesi che siano in circolazione più monete all’interno di un solo sistema legale. Facciamo ad esempio il caso del Patacon argentino dopo la crisi del 2001. Si era infatti in presenza di una quasi moneta (si trattava di un titolo di credito circolante capace di estinguere immediatamente obbligazioni di pagamento) emessa dalla Provincia di Buenos Aires, con l’evidente intento di sopperire alla carenza di liquidità ingenerata dalla crisi, dal default e dal blocco dei conti correnti. Certo, non si era in presenza di una moneta privata, in quanto emessa comunque da un ente pubblico. Ma si era comunque di fronte a un caso di una quasi moneta emessa da un ente diverso dal Banco Central argentino.
È importante, allora, che la sinistra mantenga queste coordinate storiche, giuridiche e ideologiche anche nel campo dell’economia. Altrimenti il rischio è di farsi trovare impreparati quando la storia offre l’occasione di sferrare un colpo all’ideologia liberista che continua a imperversare nonostante la crisi economica. È troppo allora chiedere al M5S di scendere dal recinto propagandistico in cui si è rinchiuso, sfruttando le condizioni di disagio sociale dei cittadini, per affrontare i problemi da una prospettiva più vasta e meno semplificatoria? (karl gz)

 

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