11019 5. NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 1 febbraio 2014

20140201 01:02:00 guglielmoz

ITALIA – IL GENEROSO LETTA / L’attenzione, forse un po’ tardiva, arrivata sul decreto convertito in legge ieri sera dalla Camera ha un motivo molto semplice su cui Il Fatto Quotidiano batte fin dalla sua approvazione a Palazzo Chigi il 30 novembre: si tratta di un enorme regalo alle banche.
TARANTO . Così la cassazione sblocca 8 miliardi dei Riva .
Ilva / Le motivazioni della sentenza. "Non è provato che quei soldi siano frutto di attività illecite"
ONU – BATTIBECCO / UNA CONFERMA, semmai ce ne fosse stato bisogno, che l’Onu è solo un costosissimo fantasma a uso e consumo degli americani
EUROPA – IL GIORNO DELLA MEMORIA / L’“altra” Shoah la devastazione del popolo rom. Come per ogni ritualizzazione si corre il rischio della museificazione e della falsa coscienza.
ONU – UNA CONFERMA, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’Onu è solo un costosissimo fantasma a uso e consumo degli americani (CHE PERALTRO NON NE PAGANO NEMMENO LE QUOTE), è venuta dalla Conferenza di pace sulla Siria tenutasi a Montreux con la partecipazione di una quarantina di Paesi
AFRICA & MEDIO ORIENTE – War-station, la guerra fredda dell’era globale. Sulla via di damasco. attorno al conflitto siriano scontro multipolare e faida dentro l’islam.
ASIA & PACIFICO – Giappone paragoni di Abe
AMERICA CENTROMERIDIONALE – Cuba 33 paesi riuniti nel vertice della Celac / Tutti insieme tranne Usa e Canada. zona di pace per bandire la guerra / Maduro, Castro, Mujica E Morales Al Vertice Celac.
AMERICA SETTENTRIONALE – "Tassare i ricchi per case e asili". Bill De Blasio vola nei sondaggi.

ITALIA
ROMA
LA LEGGE DELLA TAGLIOLA, 29.1.2014 / IMU-BANKITALIA. CONTRO L’OSTRUZIONISMO, LA PRESIDENTE BOLDRINI FA SCATTARE LA «GHIGLIOTTINA» di Riccardo Chiari
Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Il proverbio si attaglia al comportamento del governo, della sua maggioranza e purtroppo della stessa presidente della Camera Laura Boldrini, che per far approvare il decreto Imu-Bankitalia bat­tono incessanti sul tasto della comunicazione più deteriore: «Se il decreto decade — ripetono come un disco rotto — gli italiani saranno costretti a pagare la seconda rata dell’Imu».
I deputati del Movimento 5 Stelle provano a ribattere con la forza della logica parlamentare. Già all’ora di pranzo si dicono pronti a rinunciare al loro ostruzionismo, se dal decreto sarà stralciata la parte relativa a rivalutazione, ricapitalizzazione e vendita delle quote Bankitalia. In alternativa, ricordano, può essere presentata e approvata subito una proposta di legge nelle commissioni in sede deliberante: «Una legge sanatoria dei rapporti giuridici del decreto legge già in essere — specificano — cioè la parte riguardante la cancella­zione della tassa sulla casa».
Tutto inutile. Così poco prima dell’ora di cena, mentre al programma tv l’Eredità il concorrente di turno arriva allo stage finale della ghigliottina, la lama viene politicamente usata anche a Montecitorio per consentire l’approvazione del decreto prima della sua decadenza. Anche con la presenza, decisiva per arrivare al numero legale, di Forza Italia. Ma deca­pi­tando, per la prima volta a detta degli statistici, anche il diritto-dovere degli oppositori — 5 Stelle, Sel, Fdi e Lega — di non cedere di fronte a un provvedimento considerato iniquo. Per tante, motivate ragioni. L’aula esplode, si levano urla, i deputati di Sel cantano Bella ciao e i grillini l’inno di Mameli. E’ rissa, una deputata 5 stelle sostiene di essere stata presa a schiaffi dal questore D’Ambruoso (che nega), due commessi finiscono in infer­meria. La presidente Boldrini, scossa dalle grida contro di lei, lascia l’aula accompagnata dai commessi che le indicano l’ascensore laterale: «Non devo mica scappare», ribatte attraversando il Transatlantico.
Nell’arco della giornata, i media non si fanno pregare per dare una rappre­sentazione sbilanciata, se non apertamente distorta, di quanto sta accadendo. Nelle ore che precedono l’approvazione del decreto, appaiono rivoluzionarie le pacate osservazioni di Stefano Rodotà, e sembra un’oasi di libertà informativa il Tg24 della Sky di Murdoch che chiede al costituzionalista un giudizio su quanto avvenuto il giorno prima: «Le critiche sono sempre legittime — risponde Rodotà — Ma ci vuole rispetto per le persone, prima ancora che per l’autorità del presidente della Repubblica». Poi, fatto punto e capo dell’insulto rivolto a Napolitano dal deputato M5S Giorgio Sorial, si affronta il merito del provvedimento: «In questo decreto sono state messe insieme cose molto diverse — segnala Rodotà — i decreti dovrebbero avere materie omogenee e in questo caso l’Imu e la nuova struttura della Banca d’Italia sono due cose diversissime. Se si scorporassero le due cose, si metterebbe la discussione sui binari giusti».
I binari giusti sono, in teoria, quelli che a fine dicembre portarono Napolitano a bloccare ancor prima dell’approvazione il decreto “salva Roma”. Con la motivazione che non potevano essere inseriti in un solo provvedimento argomenti del tutto diversi fra loro. Questa volta però il Quirinale, per il momento, tace. Invece da Stefano Rodotà arriva anche un giudizio di merito sul decreto: «Credo che la preoccupazione manifestata sia corretta».
Anche al di là della controversa questione delle riserve auree, su cui il sottosegretario Baretta ha cercato di tranquillizzare i contestatori, la rivalutazione-ricapitalizzazione di via Nazionale per 7,5 miliardi avverrà con i soldi pubblici guadagnati da Bankitalia con la gestione della moneta cir­co­lante girata dalla Bce. In altre parole, la patri­mo­nia­liz­za­zione degli azio­ni­sti pri­vati di Ban­ki­ta­lia — in prima fila Intesa San Paolo (30,3%) e Unicredit (22,1%) – sarà fatta con riserve della collettività, accantonate per far fronte a even­tuali emergenze del paese. Somme enormi, visto che gli addetti ai lavori indicano rivalutazioni contabili comprese fra i 2,7 e i 4 miliardi per i due istituti di credito principali azionisti di via Nazionale. Inoltre sulle plusvalenze c’è una imposta agevolata del 12% invece che del 16%. E i critici calcolano che in pochi anni, attraverso la distribuzione degli utili futuri, le banche azioniste ripagheranno le tasse dovute all’aumento di capitale e inizieranno a guadagnare.
Anche sul capitolo della vendita della quote eccedenti il 3%, in teoria per trasformare Bankitalia in una public company, lo scontro resta e resterà al calor bianco. Al pari dell’atmosfera a fine seduta: nonostante la nota del Tesoro («Nessun regalo alle banche»), i deputati pentastellati non volevano abbandonare Montecitorio.

ROMA
IL GENEROSO LETTA
L’attenzione, forse un po’ tardiva, arrivata sul decreto convertito in legge ieri sera dalla Camera ha un motivo molto semplice su cui Il Fatto Quotidiano batte fin dalla sua approvazione a Palazzo Chigi il 30 novembre: si tratta di un enorme regalo alle banche, in particolare Intesa San Paolo e Unicredit, quantificabile in oltre 4 miliardi di euro. Un breve riassunto. La proprietà. Bankitalia è di proprietà delle principali banche italiane (pubbliche fino agli anni Ottanta), dell’Inps e di Generali. Il valore del capitale è rimasto quella della fondazione negli anni Trenta: 300 milioni di lire, oggi 156 mila euro, suddivisi in 300 mila quote da 52 centesimi. Ora il governo ha stabilito – sulla scorta della relazione di tre esperti e ignorando una legge del 2005 che prevedeva il ritorno della Banca centrale in mano pubblica – che quella cifra deve essere rivalutata a 7,5 miliardi. A cosa serve? In teoria le banche aumentano il loro livello di capitalizzazione in vista delle nuove norme europee, lo Stato incassa la tassazione sulle plusvalenze. Peccato che non sia così: gli istituti incasseranno, l’erario subirà un danno. I dividendi. Il tetto è pari allo 0,5 per cento delle riserve e al 10 per cento del capitale. Ne deriva che sui 2 miliardi e mezzo di utili del 2012, ad esempio, palazzo Koch ha distribuito ai suoi soci una cifra tutto sommato modesta: 70 MILIONI IN TUTTO. Con la rivalutazione delle quote, però, l’esborso sale parecchio : a parità di utile si arriverebbe a circa 450 milioni. Tradotto: quasi 400 milioni in più l’anno ai soci privati.
Fisco amico. Grazie a un emendamento in Senato, la tassazione della plusvalenza sarà all’aliquota di favore del 12 per cento (non il venti, che sarebbe quella delle rendite finanziarie, non il 16 inizialmente scelto dal governo): L’INCASSO SARÀ DI SOLI 900 MILIONI E NON DI UN MILIARDO E MEZZO DELL’IPOTESI MASSIMA.
Vi sveliamo il trucco. La Bce, pressata dalla Bundesbank, ha imposto che la rivalutazione delle quote non si considerata una garanzia patrimoniale. E allora? Tutto questo casino per niente? Non proprio. Il marchingegno infatti è parecchio complicato. Il decreto fissa anche un tetto alla partecipazione massima possibile che le banche possono detenere in Bankitalia: è il 3 per cento. Grazie al solito emendamentino è affidata alla stessa Banca centrale la possibilità di ricomprare le quote in eccesso e poi rivenderle. La faccenda riguarda Intesa Sanpaolo, che ha un 27,3 per cento di troppo, e Unicredit, che dovrà disfarsi del 19,1 per cento. Ma anche le Generali hanno qualche quota di troppo (3,3 per cento), idem la Cassa di risparmio di Bologna (3,2), Carige (1) e perfino l’Inps (2). Il tutto costa 4,2 miliardi (tre e mezzo solo per le prime due banche): soldi veri che gli istituti di credito potranno subito mettere a bilancio con buona pace di Bundesbank.
Il caso Carige. La malmessa banca ligure è stata sfortunata. Motivo: in questi anni ogni istituto ha messo a bilancio la sua quota come credeva e qualcuno ha esagerato. Carige ha valutato il suo 4 per cento 892 milioni di euro, mentre secondo la nuova legge ne vale 300. Significa una bella svalutazione di mezzo miliardo a fronte di un incasso per il suo 1 per cento eccedente di 75 milioni. Non tutte le ciambelle riescono col buco. di Marco Palombi
TARANTO
COSÌ LA CASSAZIONE SBLOCCA 8 MILIARDI DEI RIVA / Gianmario Leone,
Ilva / Le motivazioni della sentenza. "Non è provato che quei soldi siano frutto di attività illecite"
http://ilmanifesto.it/wordpress/wp-content/uploads/2014/01/21/22pol2-spalla-Ilva.jpg
L’ILVA DI TARANTO: CIMINIERE E FUMI TOSSICI
Il provvedimento di sequestro da parte del gip di Taranto di beni fino a 8,1 miliardi delle società della famiglia Riva non motiva in che modo quelle somme siano «profitto dei reati associativi e ambientali» di cui sono accusate le persone a capo della società «controllante», la Riva Fire, e non spiega perché debbano essere considerati «profitto del reato» e come tali aggredibili con una misura cautelare. Lo scrive la Sesta sezione penale della Cassazione, nelle motivazioni della sentenza con cui il 20 dicembre ha ordinato la restituzione dei beni accogliendo il ricorso dei legali della holding del gruppo lombardo.
La Cassazione ha ritenuto di censurare il provvedimento con cui il gip Patrizia Todisco aveva esteso alle società il sequestro originariamente posto a carico di Ilva e Riva Fire, tra l’altro in assenza di una richiesta in tal senso da parte della procura. Il provvedimento era stato disposto dal gip su richiesta della procura di Taranto, il 24 maggio, e confermato dal Riesame il 15 giugno. Riguardava i beni e le disponibilità finanziarie della Riva Fire (Finanziaria industriale Riva Emilio), che controlla il 61,62% delle azioni dell’Ilva Spa, sulla base della quantificazione elaborata dai custodi giudiziari degli impianti dell’area a caldo del siderurgico tarantino, per una cifra equivalente alle somme che nel corso degli anni l’Ilva avrebbe risparmiato non adeguando gli impianti. Nell’ordinanza il gip «non spiega – a giudizio dei giudici della sesta sezione penale della Cassezione, sentenza n. 2259 – le ragioni dell’estensione del sequestro rispetto a soggetti e a beni non ricompresi nel provvedimento cautelare» originariamente emesso, «omettendo peraltro di specificare i motivi per i quali tali beni – facenti capo a società giuridicamente autonome rispetto a quelle coinvolte nell’indagine – siano stati considerati profitti dei reati associativi e ambientali oggetti delle imputazioni formulate a carico di persone fisiche nelle posizioni apicali delle società controllate».
Lo scorso 10 settembre infatti, il gip Todisco estese il sequestro anche alla Riva Acciaio, Riva Energia e a tutte le società controllate dall’Ilva Spa: la stretta riguardò nove società controllate in via diretta e indiretta in forma dominante da Ilva spa, tre società controllate in via diretta in forma dominante da Riva Forni Elettrici spa, una società controllata mediante influenza dominante da Riva Fire spa. Il maggior numero dei sequestri avvenne tra Milano (le società hanno quasi tutte sede nel capoluogo lombardo) e Taranto.
La Cas­sazione nelle sue motivazioni ha sottolineato che nel provvedimento, viziato da «abnormità», non è possibile desumere «alcun tipo di relazione tra le risorse patrimoniali delle società controllate e la destinazione impressa al profitto illecito
TORINO
REGIONE PIEMONTE: LA SINISTRA RICONQUISTI LO SPAZIO PERDUTO DI UNA ALTERNATIVA Lazio, i troppi "non scrivo" di Rizzo e Stella sulla vicenda dei vitalizi Prato, nel business del tessile cinese la metà è in nero Piemonte, il Tar smentisce il Comune di Torino: ok diplomati nelle supplenze all’infanzia Crisi, Cgil: in Piemonte dal 2008 persi 40.000 posti nel settore edile Links.

ONU
BATTIBECCO / UNA CONFERMA, semmai ce ne fosse stato bisogno, che l’Onu è solo un costosissimo fantasma a uso e consumo degli americani (che peraltro non ne pagano nemmeno le quote), è venuta dalla Conferenza di pace sulla Siria tenutasi a Montreux con la partecipazione di una quarantina di Paesi.
Il giorno prima dell’inaugurazione, il Segretario generale Ban Kimoon aveva invitato a partecipare anche l’Iran. Ma la cosa ha provocato la “forte irritazione” degli americani e questo è bastato perché la sera stessa Ban Kimoon ritirasse l’invito.
È paradossale che a questa conferenza partecipino l’Indonesia, l’Australia, il Messico, paesi lontanissimi dalla Siria e non l’Iran che ce l’ha sull’uscio di casa. È vero che l’Iran sostiene Assad, ma non diversamente da Russia e Cina e con maggiori ragioni, poiché la guerra civile in Siria lo implica direttamente. Ulteriore paradosso è che il niet americano sia arrivato proprio il giorno in cui è stato ufficializzato lo stop all’arricchimento dell’uranio iraniano al 20% mentre rallentano i reattori di Natanz, Fordow, Arak, come conferma l’Aiea. Ma non importa, gli ayatollah restano nell’ “Asse del Male”.
Gli americani sono invece il Bene. L’Onu, per loro, “va su e giù come la pelle dei coglioni”. Se gli serve è un’istituzione autorevole, se non gli serve ridiventa un fantasma di cui si può fare tranquillamente a meno. Con la copertura dell’Onu si giustificano l’occupazione dell’Afghanistan che dura da dodici anni, la creazione di governi fantoccio, le elezioni-farsa (alle prossime si presenterà il fratello di Karzai, noto narcotrafficante) oltre, naturalmente, gli assassinii di decine di migliaia di civili (gli americani sono anche riusciti a scambiare per guerriglieri talebani anche dodici bambine che raccoglievano legna nel bosco). Ma vorrà pur dir qualcosa che la guerriglia resista da dodici anni al più potente esercito del mondo e che i comandi degli occupanti, oltre al governo Quisling, debbano rimanere asserragliati nella protettissima “zona verde” di Kabul
In compenso, i media del Bene e dei suoi alleati, fan circolare a getto continuo notizie false come quella che i talebani avrebbero il sostegno dei servizi segreti pachistani. Se fosse vero avrebbero almeno qualche missile Stinger per controbattere l’aviazione che li mette in uno stato di quasi insuperabile inferiorità (con gli Stinger la guerra sarebbe finita da un pezzo, con la cacciata degli stranieri, come avvenne con i russi). Ma di questa guerra afghana, la più lunga e la più infame degli ultimi secoli, non frega niente a nessuno, mentre si propala la falsa notizia di un ritiro degli occupanti entro la fine del 2014, falsa perché in Afghanistan rimarranno 80 mila soldati Usa, migliaia di istruttori dell’imbelle esercito ‘regolare’ afghano e soprattutto le basi dell’aviazione.
L’ONU aveva detto no all’invasione dell’Iraq. Ma il Bene aveva deciso che era venuto il momento di sbarazzarsi di Saddam, che aveva a suo tempo foraggiato con armi chimiche. Risultato: 750 mila morti e ora una feroce guerra civile fra sunniti e sciiti che provoca centinaia di vittime alla settimana. Ma al Bene non cale, perché intanto se n’è andato.
Il Bene, poiché è tale, può far tutto: guerre, invasioni, occupazioni, ardite evoluzioni dei suoi Rambo che provocano una ventina di morti (Cermis), stupri (di ragazze napoletane), rapimenti e sequestri di persone in territorio italiano per poterle poi torturare a proprio piacimento nell’Egitto del nobile Mubarak (Abu Omar), ottenendo poi il salvacondotto dell’ottimo e sempre commosso Presidente Napolitano. Se questo è il Bene io sto col Male. di Massimo Fini

EUROPA
IL GIORNO DELLA MEMORIA – L’“altra” Shoah la devastazione del popolo rom – COME PER OGNI RITUALIZZAZIONE SI CORRE IL RISCHIO DELLA MUSEIFICAZIONE E DELLA FALSA COSCIENZA. RICORDARE L’OLOCAUSTO NON PUÒ ESSER ALIBI PER DIMENTICARSI DEGLI ALTRI di Moni Ovadia e Marco Rovelli
Il Giorno della Memoria è stato istituito nel giorno in cui 69 anni fa i soldati dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del lager di Auschwitz e vi entrarono rivelandone l’orrore. E sacrosanto è stato aver stabilito un giorno in cui ricordare quell’abisso incancellabile. Ma, come per ogni ritualizzazione, quella ferita sanguinante si scontra con il rischio della museificazione da una parte e della falsa coscienza dall’altra.
Le attività e le manifestazioni di questa Giornata riguardano in maniera soverchiante la Shoah, ovvero lo sterminio degli ebrei, al punto da oscurare quasi gli eccidi e le sofferenze subìte dalle altre vittime della ferocia nazista: i rom, gli omosessuali, i menomati, gli antifascisti a vario titolo, i testimoni di Geova, gli slavi, i militari italiani che rifiutarono di servire il governo fantoccio di Salò.
NESSUN POLITICO AD AUSCHWITZ HA MAI DETTO: “MI SENTO ROM”
Ricordare l’unicità della Shoah non può essere l’alibi per dimenticarsi degli altri. I rom, in particolare, sono stati per lunghissimo tempo misconosciuti nel loro status di vittime: e se oggi non c’è quasi un politico occidentale che non voglia mostrarsi amico degli ebrei e soprattutto degli israeliani, quasi nessuno di essi è disposto a identificarsi con i rom. Nessuno dei rappresentanti politici dei paesi occidentali ha il coraggio di uscire da una visita al lager di Auschwitz dichiarando: “MI SENTO ROM”; molti, però, si affrettano ad affermare: “Mi sento israeliano”. Ora sia chiaro, nessuno vuole ignorare o sottovalutare lo specifico antisemita del nazifascismo e sminuire l’immane dimensione della Shoah. Ciò che è inaccettabile è il deliberato sottacere delle sofferenze dei rom e dei sinti anch’essi destinati al genocidio. È intollerabile che si discrimini fra le sofferenze di esseri umani che subirono la stessa tragica sorte. I rom sono vittime secolari dell’occultamento della loro identità e della loro memoria, oltre che essere vittime di un’antichissima persecuzione. Essi non hanno terra, non hanno un governo potente che parli per loro, sono tuttora gli “zingari” reietti: perché mai dunque riconoscere piena dignità alle loro inenarrabili sofferenze? La cultura orale dei rom, del resto, diversamente dalla cultura ebraica fondata sulla Scrittura, ha facilitato il compito della dimenticanza: non c’è stato che un soffio di vento, niente più che questo, nulla che sia conservato e degno di conservazione. Solo con fatica si è imposto il nome dello sterminio nazista dei rom: Porrajmos. Il merito di questo va al grande intellettuale rom inglese Ian Hancock, linguista e fra le altre cose rappresentante del popolo rom presso le Nazioni Unite. Il termine “Porrajmos”, nella lingua di alcuni romanì, “devastazione”. Ma la lingua romanes ha molte articolazioni, corrispondenti alla disseminazione dei suoi numerosissimi gruppi e sottogruppi: perciò capita che un significante abbia significati diversi per diversi rom. Da Jovica Jovic, grande fisarmonicista rom serbo, abbiamo appreso che quel termine, nel “suo” romanes, ha un significato sessuale osceno. Così per Jovica quel termine è inusabile, e offensivo: impossibile per lui ricordare i suoi zii morti ad Auschwitz con quel termine. Una vicenda paradossale, questa, direttamente legata alla dispersione e alla secolare marginalizzazione e inferiorizzazione dei rom.
Per rispetto nei confronti dei rom come Jovica crediamo dunque che dovremmo cominciare a trovare un altro termine, che non sia l’ennesimo affronto alla memoria proprio là dove la memoria dovrebbe essere sacralizzata e conservata.
Samudaripen è il termine alternativo che molti rom propongono: significa “tutti morti”, e non ha implicazioni imbarazzanti per nessuno. Per domani le associazioni 21 luglio e Sucar Drom hanno organizzato un convegno a Roma intitolato proprio Samudaripen: può essere un buon inizio, per avere finalmente un nome, e un nome giusto, per l’Orrore dimenticato

SVIZZERA
DAVOS
DRAGHI-CHURCHILL E LA GUERRA MONDIALE IN EUROPA CONTRO I POPOLI. Sembra che ieri a Davos il presidente della Bce Mario Draghi sia stato coperto di apprezzamenti fino al punto di essere paragonato a Churchill. La guerra mondiale c’è, in effetti. E scorre pure parecchio sangue. Ma tra le nevi svizzere, lontano dai fronti, c’è chi si permette il lusso di ballare sui cadaveri. Finanzieri e speculatori, tra un banchetto e l’altro, discettano di uscita dalla crisi continuando a battere il tasto delle cosiddette riforme strutturali. Stanno alla frutta. E c’è da giurare che ad un secolo dalla prima guerra mondiale la soluzione sarà sempre la medesima, distruggere le capacità di resistenza delle masse in nome del primato degli affari.
Secondo il capo dell’Eurotower, che pur di dimostrare la veridicità della ripresa mette in bella i dati positivi di scambi in borsa e produzione industriale tralasciando volutamente quelli sui redditi, sul banco degli imputati ci sono Italia e Spagna, che “lasciano ancora in piedi” i diritti della gente che lavora. Arriva a dire, pensate un po’, che ci sono norme che “discriminano i giovani”. Insomma, “renzismo doc”. In realtà, tutti questi signori hanno una paura fottuta della deflazione. E quindi, non sapendo più dove andare a ricavare margini di profitto, in presenza di una falla evidente soffiano sulla distruzione del lavoro. Non bastano, insomma, i più di venti milioni di disoccupati in Europa a calmierare il mercato del lavoro. Non bastano i tagli ai consumi con percentuali del 4% l’anno. La macchina si sta imballando, come dimostra anche l’aumento delle sofferenze bancarie derivanti direttamente dai fallimenti nell’economia reale. E se la deflazione arriva sarà la stangata finale. E’ evidente che il sistema si tiene sulla speculazione. La relazione tra deflazione e speculazione, però, è diretta. Tanto cresce l’una quanto decresce l’altra. E un altro scossone come quello di qualche anno fa non se lo può permettere nessuno, tanto meno il mondo della finanza, che non ha mai smesso di tramare. Non essendoci un’economia reale che tira,né mercati che stanno in piedi in maniera convincente lotta tra i capitali si esaurisce sul puro terreno delle transazioni speculative. Lor signori lo sanno benissimo. E’ così che la tanto sospirata unione bancaria potrebbe rivelarsi una’arma a doppio taglio. Perché se poco poco fa capolino il rosicchiamento dei margini di profitto allora tutto il sistema bancario, con i nuovi criteri, sarebbe candidato al default.
Passare attraverso le cosiddette riforme del mercato del lavoro, e attuare a tamburo battente liberalizzazioni e privatizzazioni è quindi fondamentale. Ed è una operazione che va fatta, drammaticamente, prima delle elezioni europee. In uno studio dell’Ocse del settembre 2012, l’effetto delle riforme effettuate dal Governo Monti veniva stimato in un aumento della crescita di 0,3-0,4 punti percentuali. Secondo uno studio effettuato da ricercatori dell’Fmi e diffuso nel gennaio 2013, fa sapere il Centro studi di Confindustria, se implementate appieno le riforme effettuate tra il 2011 e il 2012 (dalle liberalizzazioni di alcuni mercati dei prodotti e del lavoro alle semplificazioni amministrative) sarebbero in grado di generare guadagni considerevoli e avrebbero la capacita’ di incrementare il Pil potenziale dell’Italia di circa il 5,5% dopo cinque anni e di oltre il 10% dopo 10 anni. E non c’è altro modo di recuperare a breve il baratro nel Pil costruito dalla crisi.
"Il Pil italiano – continua Confindustria – e’ diminuito del 9,1% rispetto al picco pre-crisi toccato nel 2007. Meta’ di questa riduzione non verra’ recuperata prima del 2019. Per l’altra meta’ la perdita sara’ ancora piu’ persistente. La doppia, profonda e lunga recessione ha intaccato nettamente il potenziale di crescita, abbassandolo dall’1,1% a meno di mezzo punto percentuale nel medio termine. Rispetto alle traiettorie gia’ modeste del decennio 1997-2007, il livello del Pil potenziale e’ piu’ basso del 12,6%, in altre parole sono andati bruciati oltre 200 miliardi di euro di reddito a prezzi 2013, quasi 3.500 euro per abitante”.

RUSSIA
MOSCA
"IN USA NON TORNO, MI VOGLIONO UCCIDERE". SNOWDEN FERMA LA TRATTATIVA SUL SUO RITORNO / “Sicuro che in Usa mi vogliono uccidere”. Edward Snowden alza il tiro contro la Nsa, la National security agency, e nel corso della sua prima intervista televisiva da quando ha lasciato Hong Kong, filmata in una localita’ top secret a Mosca, punta il dito contro i vertici Usa. "Ci sono funzionari del governo che hanno detto che vorrebbero spararmi una pallottola in testa o avvelenarmi all’uscita del supermercato per poi vedermi morire sotto la doccia", afferma Snowden riferendosi alle indiscrezioni riportate da BuzzFeed nei giorni scorsi in un articolo dal titolo ‘Gli spioni americani vogliono la morte di Edward Snowden’. BuzzFeed riferisce le affermazioni di un responsabile del Pentagono, che avrebbe dichiarato: "Mi piacerebbe mettergli una pallottola in testa. In un mondo senza restrizioni per uccidere un americano, andrei io e lo ucciderei io stesso". I timori di Snowden sulla sua stessa vita fanno eco d’altra parte a quelli espressi dal suo avvocato nei giorni scorsi, quando aveva riferito che Snowden era protetto da guardie del corpo. Nessuna trattativa su una eventuale grazia. Anzi, Jesselyn Radack, l’avvocato di Snowden, afferma che non tornerà negli Stati Uniti senza la garanzia dell’amnistia.
Il gioco è duro e complesso. E Snowden non si lascia scappare l’occasione per aprire un altro fronte, quello dello spionaggio industriale. Le intercettazioni della National Security Agency (Nsa) hanno riguardato anche lo spionaggio industriale, concedendo di fatto vantaggi agli Stati Uniti. "Se ci sono informazioni ad esempio su Siemens, che e’ un interesse nazionale ma che non ha nulla a che fare con la sicurezza nazionale, la Nsa usa queste informazioni".
Assicurando di non essere piu’ in possesso di documenti riservati, Snowden parla del suo cammino personale, quello che ha seguito fino ad arrivare alla decisione di far filtrare le informazioni riservate di cui era entrato in possesso. Ora tutto quello che aveva e’ nelle mani dei giornalisti e Snowden – non intende piu’ giocare alcun ruolo nelle eventuali future rivelazioni.
Per quanto riguarda la trattativa su un possibile rientro parlare di grazia o di clemenza – come hanno chiesto anche il New York Times e il Guardian con due editoriali pubblicati giorni fa – non se ne parla. "Dire che non c’e’ stato dolo e non c’e’ stato danno, sarebbe andare troppo lontano", ha affermato il ministro della Giustizia Eirc Holder in un’intervista televisiva. Per Snowden, pero’, non sembrano esserci le condizioni per avviare alcun tipo di trattativa. Almeno sulla base delle leggi attuali che in America – spiega la talpa – non proteggono a sufficienza gli informatori. "E se avessimo un sistema veramente efficace e si potessero denunciare i malfunzionamenti ad arbitri indipendenti – aggiunge Snowden – non avrei dovuto sacrificare cosi’ tanto per fare cio’ su cui ora anche il presidente stesso sembra concordare". Il riferimento e’ alla stretta sui programmi della Nsa annunciata venerdi’ scorso da Barack Obama.

AFRICA & MEDIO ORIENTE
WAR-STATION, LA GUERRA FREDDA DELL’ERA GLOBALE /SULLA VIA DI DAMASCO. ATTORNO AL CONFLITTO SIRIANO SCONTRO MULTIPOLARE E FAIDA DENTRO L’ISLAM
Tre anni fa il mondo arabo era in piena ebollizione all’insegna di libertà e giustizia. L’islam, non senza opposizioni, era l’involucro di una svolta che spingeva verso nuove élites e nuovi modelli.
Non mancavano le contraddizioni e le violenze ma spirava un’aria frizzante d’innocenza. La pri­ma­vera appunto. Gli orrori della Libia richia­ma­rono un po’ tutti alla realtà ma sem­brò che fosse solo il prezzo che andava pagato per uscire da un’esperienza abnorme o descritta come tale. Di fatto, lo sconvolgimento si è rive­lato meno innovativo di quanto alcuni speravano e altri teme­vano. Niente sarà più come prima ma a ben vedere il «vec­chio ordine» sta ripren­dendo via via i suoi spazi: la vecchia borghesia occidentalizzante in Tunisia, i generali in Egitto, il regionalismo e il caos isti­tu­zio­nale in Libia. A distanza di così poco tempo resta ferma solo l’impressione che in ultima analisi l’esito dell’intero pro­cesso dipenda da ciò che sta succedendo o succederà in Siria. La forza della storia ha imposto i suoi diritti. Per la vicenda degli arabi e dell’arabismo, anche l’Egitto a con­fronto della Siria fa la figura di periferia.
Attorno alla Siria (non in Libia o in Egitto) è riaffiorata una specie di guerra fredda dell’era globale con forniture di armi e appoggi politici incrociati. Lo scatto di orgoglio o di interesse della Russia ha bloccato per il momento l’interventismo a macchia d’olio di Stati Uniti e Europa contro il regime di Damasco. Mosca ha dimostrato una capacità di gestire in positivo la diplomazia di cui la stessa Cina è priva o deve ancora dar prova (ripetendo una fattispecie che penalizzò Pechino rispetto al duo Usa-Urss fino all’inizio degli anni Settanta). Per un volta la Russia ha toccato una corda sensibile dell’opinione pubblica internazionale. Ne è prova la giornata di preghiera pluriconfessionale indetta da papa Francesco su scala mondiale. Obama potrebbe essere tentato dai vantaggi di un neo-bipolarismo in Medio Oriente ma è frenato dalle rimostranze dell’asse improprio Israele-Arabia Saudita, sempre sul punto di compiere quel gesto folle che gli Stati Uniti vorrebbero evitare.
Allo stato attuale, non si sa quale delle due facce – la guerra sul ter­reno o la ten­zone diplomatica sia più importante. I contendenti non sono esattamente gli stessi. Le frange estreme del jihadismo hanno quasi esautorato nella dimensione militare le formazioni che l’Occidente considerava i suoi possibili alleati all’interno del campo dei «ribelli» ma fanno fatica a trovare un riscontro efficace all’esterno. Per questo, boicotteranno la Conferenza contando nel suo fallimento o quanto meno nell’ennesimo rinvio di un passo semplice e decisivo come sarebbe la sospensione concordata e accettata da tutti dell’invio di armi. Se non defezioneranno in extremis , ci saranno invece gli oppositori del Consiglio nazionale siriano, che sono però il più debole fra gli attori militari anti Assad. A Ginevra non ci saranno nemmeno o parleranno poco gli elementi più disponibili a un compromesso che sicuramente agiscono dentro il regime di Damasco avendo come referenti tutti quelli cristiani, palestinesi, drusi e una larga parte della borghesia mercantile sunnita – che vorrebbero veder finire la guerra. Il futuro della Siria è legato indissolubilmente alla tenuta della formula del «mosaico di minoranze».
La faida all’interno dell’islam che gli eventi siriani hanno eccitato vede contrapposti anzitutto sunniti e sciiti – essenzialmente Arabia Saudita da una parte e Iran dall’altra (in piena Realpolitik, con ambizioni e retro pensieri che vanno ben al di là delle divergenze religiose) – ma anche Fratelli musul­mani e salafiti fra gli ortodossi che seguono la Sunna. È una guerra multipolare in parte «fredda» ma con fronti caldi anche fuori della Siria (vedi Libano e ancora più Iraq). Hamas si trova spiazzata dopo aver abbandonato Damasco ed essere stata tradita dal Cairo mentre il confronto Israele-Palestina sta ripren­dendo pian piano il rilievo che aveva per­duto durante le Primavere arabe. Il panarabismo è ridotto a un fantasma. Sul caso egiziano il blocco sunnita si è rotto perché la Turchia non se l’è sentita di avallare il colpo di stato accettato e forse ispirato da Riad. L’appoggio che Ankara, al pari dello stesso governo americano, assicurava ai Fratelli in Egitto non ha salvato il governo di Morsi dall’offensiva più o meno coordinata della componente laico liberale dell’opposizione e dell’esercito. Intanto la stella di Erdogan si è appannata. Probabilmente il capo del governo islamico turco, dopo lo smacco del Cairo, giocherà la carta siriana con molta attenzione per riguadagnare qualche posizione.
Le potenze fanno finta di avere a cuore la vita dei siriani e la salvezza della Siria ma pensano soprattutto a come collocare nel modo migliore le proprie pedine sui vari scenari. Anche gli aiuti umanitari per i profughi stanziati alla Conferenza di Kuwait City del 15 gennaio sono dosati in modo da soddisfare precise finalità politiche. Meraviglia che Ban Kimoon abbia sabo­tato l’universalità che dovrebbe essere propria dell’Onu gettandosi sul primo pretesto per tener fuori Teheran dalla Conferenza. Il solo modo di legalizzare il «revisionismo» di una potenza come l’Iran è di coinvolgerla non di escluderla. Mettere dentro o fuori il governo di Teheran non è un piccolo ritocco alla lista degli invitati e all’ampiezza del tavolo: significa stravolgere il senso dell’agenda. Si fa fatica a credere che la Casa Bianca abbia agito con convinzione quando ha rilanciato e reso inevitabili le obiezioni contro la presenza della delegazione iraniana. Andrà perso il contributo di un interlocutore che fa della generalità dell’accordo (allargare la portata del negoziato con l’Iran, dettare norme di comportamento valide per tutti, non proliferazione a livello regionale, reciprocità e comunicazione) la novità della presidenza Rouhani.
Una «legge» suggerita dalla storia delle guerre civili è che se non finiscono entro 10–12 mesi sono destinate a durare 10–12 anni. A tre anni dal suo inizio, molti dei contendenti, a cominciare forse da Assad, potrebbero preferire una belligeranza ad oltranza piuttosto che avventurarsi in una transizione di cui nessuno può prevedere l’esito. Per rompere lo stallo, come avvenuto per esempio nella guerra fra Nord e Sud in Sudan, la diplomazia deve assumere un piglio e una dirittura che le poco convinte conferenze sulla Siria a distanza di mesi l’una dall’altra non hanno mai dimostrato.

SIRIA
Trattative complicate
Mentre i rappresentanti del re¬gime e dell’opposizione siriana erano impegnati nei negoziati a Ginevra, cominciati il 24 gen¬naio alla presenza dell’inviato delle Nazioni Unite e della Lega araba Lakhdar Brahimi il 28 gennaio l’esercito si¬riano ha compiuto, per la prima volta in un anno, un’avanzata su Aleppo, occupando un quartie¬re della periferia sudorientale della città. I soldati governativi, scrive il Daily Star, avrebbero approfittato degli scontri inter¬ni all’opposizione armata tra gruppi moderati e jihadisti.
Lo stesso giorno i colloqui a Ginevra avevano subito una brusca interruzione a causa del¬la divergenza di opinioni tra go¬verno e opposizione sulla per¬manenza in carica del presiden¬te Bashar al Assad. Sulla que¬stione, afferma l’opposizione si¬riana, è stato fatto un passo avanti il 29 gennaio, quando i rappresentanti del regime han¬no evocato per la prima volta l’ipotesi di "un governo di tran¬sizione". In un primo tempo le trattative si erano concentrate sugli aspetti umanitari, tra cui le misure per alleviare l’assedio di Homs, dove gli abitanti della città vecchia sono in trappola da un anno e mezzo. Si è discus¬so di un corridoio umanitario per donne e bambini, e dell’in¬gresso in città di un convoglio del Programma alimentare mondiale con farmaci e un me¬se di razioni alimentari per 2.500 persone.

MADAGASCAR
II 25 gennaio un bambino di due anni è morto e 40 persone sono rimaste ferite nell’esplosione di una granata all’insediamento del presidente Hery Rajaonarimampianina.

REP. CENTIAFRICANA
II 27 gen¬naio è entrato in carica un go¬verno di transizione guidato da André Nzapayeké. Sud Sudan II governo e i ribelli hanno firmato un accordo per un cessate il fuoco il 23 gennaio, ma in alcune zone i combatti¬menti sono continuati.

NIGERIA
GLI ATTACCHI CONTINUANO
Secondo il quotidiano The Punch, sono state 115 le vittime degli attacchi, attribuiti agli estremisti islamici di Bokoharam, contro i cristiani di due vil¬laggi nel nordest della Nigeria. Anche se dal maggio del 2013 in questa parte del paese vige lo stato d’emergenza e l’esercito ha ampi poteri, 1.200 persone sono morte a causa delle violen¬ze a sfondo religioso.

SUDAFRICA
LA SFIDANTE DI ZUMA
Mamphela Ramphele sarà la candidata alle presidenziali del 2014 dell’Alleanza democratica (Da), il principale partito dell’opposizione sudafricana, che raccoglie molti consensi tra i bianchi. Ramphele sfiderà il capo dello stato Jacob Zuma, in calo di popolarità. La candidatura della nota attivista contro l’apartheid, che è stata compagna di Steve Biko nonché direttrice generale della Banca mondiale, è stata annunciata il 28 gennaio da Helen Zille, la leader della Da, scrive il Mail & Guardian. Un anno fa Ramphele aveva lanciato un suo partito, Agang, ma aveva faticato a ottenere fondi e consensi.

ASIA & PACIFICO
GIAPPONE
PARAGONI DI ABE
Il primo ministro Shinzò Abe ha suscitato scalpore in Europa e negli Stati Uniti per aver parago¬nato gli attuali rapporti tra la Ci¬na e il Giappone a quelli tra la Germania e la Gran Bretagna al¬la vigilia della prima guerra mondiale, scrive l’Asahi Shimbun in un editoriale. Abe ha fat¬to il paragone incriminato da¬vanti a trenta giornalisti durante il Forum economico mondiale di Davos il 22 gennaio. Secondo il primo ministro, "uno scontro militare" tra Cina e Giappone "sarebbe un grave danno per en¬trambi i paesi. L’importante", ha aggiunto Abe, "è evitare che ac¬cada. Del resto anche Germania
e Gran Bretagna erano econo¬micamente interdipendenti, ma questo non ha impedito che en-trassero in guerra". I mezzi d’in¬formazione occidentali sono ri¬masti sbalorditi dal fatto che Abe non abbia escluso la possi¬bilità che la situazione tra Tokyo e Pechino precipiti e abbia am¬messo di non avere un piano per distendere i rapporti con il vici¬no, continua l’Asahi Shimbun. Inoltre a Davos il premier ha di¬feso la sua recente visita al san¬tuario Yasukuni, dedicato ai ca¬duti giapponesi, inclusi quattor¬dici criminali di guerra, criticata dalla Cina. Abe non capisce il motivo di tanto trambusto, con¬clude il quotidiano, ma è evi¬dente che all’estero le tensioni di Tokyo con Pechino sono con¬siderate molto più serie di quan¬to ritengano i giapponesi.

PENISOLA COREANA
FALSI AMICI
La presidente sudcoreana Park Geunhye mantiene un atteg¬giamento duro nei confronti di Pyongyang, nonostante i segna¬li distensivi arrivati dal nord ne¬gli ultimi giorni, scrive Hank-yoreh. "Ogni volta che la Corea del Nord si è mostrata concilian¬te, è poi seguita una provocazio¬ne", ha detto Park dopo che Py¬ongyang ha accettato l’offerta di riprendere le riunioni delle fa¬miglie divise dopo la spartizione della penisola. Il 24 gennaio il regime nordcoreano aveva scrit¬to una lettera aperta a Seoul au¬spicando la ri unificazione dei due paesi, senza però convince¬re Park della sua sincerità.

TAILANDIA
Con il fiato sospeso
Le elezioni del 2 febbraio non saranno posticipate, anche dopo i tentativi di boicottaggio da parte dei manifestanti antigo¬vernativi, scrive il Bangkok Post. Nonostante le rassicura¬zioni da parte del leader delle proteste Suthep Thaugsuban, i manifestanti hanno impedito il voto anticipato in alcuni seggi e negli scontri del 26 gennaio uno dei dimostranti è morto. L’oppo-sizione non parteciperà alle ele¬zioni e i timori che dopo il voto dilaghi la violenza aumentano. Nella capitale le misure di sicu¬rezza intorno ai seggi sono state rafforzate.

FILIPPINE
LA PACE SI AVVICINA
Il 26 gennaio il governo di Ma¬nila e i ribelli separatisti del Fronte islamico di liberazione moro (Milf ) hanno trovato un’intesa per la firma di un ac¬cordo di pace che potrebbe mettere fine a un conflitto dura¬to quarant’anni e in cui sono morte almeno i2omila persone. Il patto prevede una maggiore autonomia per una parte delle Filippine meridionali e l’istitu¬zione della regione del Bangsamoro, dove la sicurezza sarà ga¬rantita dagli ex guerriglieri. Il Milf teme tuttavia la reazione dei gruppi islamici rivali, esclu¬si dall’accordo, e il ripetersi di episodi come l’assedio di Zamboanga del 2013, scrive l’Inquirer. Nell’ultima settimana gli scontri tra le forze di sicurezza e i ribelli hanno fatto almeno 37 morti.

INDIA
IL VOTO DELLA CLASSE MEDIA
Alle elezioni generali che si terranno entro maggio peserà il voto di una nuova porzione dell’elettorato in rapida espansione, scrive Open. La classe media indiana non è più quel gruppo ristretto di persone che dall’indipendenza in poi ha approfittato di un sistema al servizio di interessi radicati. È invece un insieme sempre più eterogeneo e in continua espansione che comprende circa il 40 per cento della popolazione. Narendra Modi, il candidato premier del Bharatiya janata party (Bjp) ha definito questo soggetto politico emergente "nuova classe media". È la prima generazione che beneficia della liberalizzazione economica, che si è lasciata da poco alle spalle la povertà e ha cominciato a imitare la classe media tradizionale abbracciando il consumismo. Per la prima volta più della metà dei consumi nelle zone rurali ha riguardato beni non alimentari e negli ultimi anni i consumatori indiani sono diventati sempre più influenti. Non stupisce, quindi, che i leader dei due principali partiti, Modi e il capo della campagna elettorale del partito del Congress Rahul Gandhi, si rivolgano proprio a loro nei comizi elettorali.
INDIA
SUBALPUR
II 21 gennaio una donna di 20 anni è stata vittima di uno stupro collettivo ordinato dal consiglio del villaggio di Subalpur, nel Bengala Occidentale. La donna era sotto accusa per una relazione con un uomo di un’altra comunità. Tredici per¬sone, tra cui il capo del consi¬glio, sono state arrestate.

CINA
XINJIANG
II 24 gennaio dodici perso¬ne sono morte nelle violenze nella regione autonoma musul¬mana dello Xinjiang. Sei perso¬ne sono morte a causa delle gra¬nate esplose durante gli scontri a Xinhe, altre sei sono state uc¬cise dalla polizia.
HONG KONG
IN CINA LA LOTTA ALLA CORRUZIONE PUÒ FARLA SOLO IL GOVERNO
Le cause per cui si batteva l’attivista Xu Zhiyong, condannato a quattro anni, coincidono con gli obiettivi di Pechino. Che però non vuole interferenze.
IL 26 gennaio l’attivista Xu Zhiyong, impegnato in battaglie contro la cor¬ruzione e fondatore del Movimento dei nuovi cittadini, è stato condanna¬to a quattro anni di reclusione con l’accusa di "disturbo dell’ordine pubblico". Un ver¬detto che secondo l’avvocato di Xu "ha di¬strutto quel poco di dignità che lo stato di diritto aveva in Cina". La decisione dei giudici dimostra come le autorità considerino una minaccia i mo¬vimenti che vengono dal basso e pratichi la tolleranza zero senza fare distinzioni. Il ri¬sultato è che creano ancora più confusione in una società molto sfaccettata e allargano il divario tra i cittadini e i governanti.
UN MODERATO
Tra gli attivisti, Xu Zhiyong è considerato un moderato e da anni porta avanti la sua battaglia per la trasparenza in modo non violento. Con il Movimento dei nuovi cit¬tadini, un’organizzazione informale di lot¬ta per i diritti civili, ha sostenuto il diritto all’istruzione per i figli dei lavoratori immi¬grati nelle città e ha chiesto di rendere pub¬blici i redditi dei funzionari. Questi obiet¬tivi coincidono con le decisioni prese dal terzo plenum del Partito comunista sulle riforme come il piano per "promuovere un’istruzione equa e ridurre gradualmente le differenze scolastiche tra zone rurali e città" o come il progetto di rendere pubbli¬ci i patrimoni dei funzionari e le informa¬zioni sui loro familiari che vivono all’este¬ro. Ma le autorità non tollerano il Movi¬mento dei nuovi cittadini, dando l’impres¬sione che la lotta contro la corruzione vada bene se è praticata dal governo, ma non se a promuoverla sono i cittadini.
Negli ultimi anni ci sono stati vari esem¬pi di contraddizioni simili. Il caso di Sun Zhigang, un giovane lavoratore migrante morto mentre era in custodia della polizia nel 2003, portò alla riforma del sistema di custodia ed espulsione dalle città. Della vi¬cenda si occupò il Nanfang Dushi Bao, ma in risposta fu rimosso il direttore e fu arre¬stato l’amministratore delegato.
Il vicedirettore di Caijing, Luo Chang-ping, contribuì alla rimozione del vicediret¬tore della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, Liu Tienan, accusato di corruzione, ma perse il suo incarico. Oggi la vicenda di Xu Zhiyong e di altri quattro esponenti del Movimento dei nuovi cittadi¬ni sottoposti a giudizio aggiungono dubbi sulla sincerità delle autorità nel seguire la linea che proclamano.
Spesso chi ha il potere sottovaluta le voci che arrivano dal basso considerandole puro brontolio senza capire la spinta riformatrice e l’intelligenza dei cittadini, che anzi sono considerati un ostacolo alle riforme. È l’assurda regola secondo cui il governo può agi-re senza che il popolo possa dire nulla.
Nella pluralità sociale della Cina odierna, con una coscienza civile sempre più matura, sopprimere ciecamente le richieste dal basso, anziché dialogare, si è dimostrato inutile. Ed è la ragione per cui rimangono irrisolti problemi che provocano il malcontento popolare come la corruzione, le carenze nell’istruzione e nella sanità, gli scandali alimentari, l’inquinamento.
L’ARTEFICE DEL SOGNO CINESE
La natura politica del caso di Xu Zhiyong è chiara, anche se le autorità non hanno usato accuse politiche per incarcerarlo, fornendo una scusa a chi è interessato a ostacolare le riforme. È ancora vivo il ricordo di quando il comitato centrale del Partito comunista, nel novembre del 1978, ribaltò il suo parere sull’incidente di Tian’anmen del 5 aprile di due anni prima (le proteste contro la Banda dei quattro durante la commemorazione di Zhou Enlai che portarono all’arresto di DengXiaoping, allora vicepremier, accusato di aver organizzato la manifestazione). Fu il preludio dell’apertura. Per realizzare le riforme di oggi, dobbiamo sperare che chi comanda non crei nuove ingiustizie. Bisogna lasciare che il popolo diventi il vero artefice del sogno cinese. (di Ming Pao)

AMERICA CENTROMERIDIONALE
CUBA
L’HABANA
33 PAESI RIUNITI NEL VERTICE DELLA CELAC / TUTTI INSIEME TRANNE USA E CANADA. ZONA DI PACE PER BANDIRE LA GUERRA / MADURO, CASTRO, MUJICA E MORALES AL VERTICE CELAC.
http://ilmanifesto.it/wordpress/wp-content/uploads/2014/01/28/29est1f0-cuba-castro-maduro-morales-mujica.jpg
Il colpo d’occhio è inusuale a Cuba e perciò impressionante. Le delegazioni di 33 Paesi, capi di stato o di governo e relativi ministri degli esteri, riunite attorno a un grande tavolo alla presenza del segretario generale dell’Onu e dei rappresentanti di altre organizzazioni regionali, e su un grande schermo i colori sgargianti delle bandiere. Ma è soprat­tutto l’assenza di due delegazioni e ban­diere a sottolineare l’importanza del secondo vertice della Comunità degli stati dell’America latina e dei Caraibi (Celac) iniziata ieri all’Avana: mancano il Canada e soprat­tutto gli Stati uniti, la potenza che negli ultimi 150 anni ha fatto e disfatto per i propri interessi gli equilibri del subcontinente latino-americano e caribegno.
Una comunità di 600 milioni di abitanti la cui potenziale economia – se si sommano i 33 paesi — costituisce la terza potenza mondiale (6,06 bilioni di dollari) con un Pil che nel 2012 è cresciuto del 3,1%, superando la media mondiale; che possiede, tra l’altro, un quinto delle riserve mondiali di petrolio e il 40% delle disponibilità idriche rinnovabili mondiali, dimostra la sua volontà di autonomia dal potente Nord e la ricerca di una propria via di sviluppo e integrazione regionale.
E Cuba, per più di cinquant’anni messa al margine per volontà degli Usa, recupera un ruolo di protagonista in questa nuova fase. La presidenza di turno cubana ha voluto enfatizzare che que­sto evento – simbolicamente cade nel 161° anniversario della nascita del politico e poeta cubano JOSÉ MARTÍ CHE ASSIEME A SIMON BOLIVAR è stato uno dei maggiori teorici della “Patria grande” latinoamericana – ha anche il carattere di una festa nella quale una comunità ritrova se stessa e le proprie radici culturali, iniziando il vertice con un’orchestra di giovani musicisti che ha suonato i motivi e i ritmi più famosi dei paesi presenti, songuajira, samba, merengue, cumbia, tango…
All’inizio del discorso programmatico di apertura del vertice, il presidente Raúl Castro ha voluto ricordare con un minuto di silenzio Hugo Chávez, il leader che più si è prodigato per la nascita della Celac. E pro pro ricollegandosi allo scomparso presidente venezuelano, ha messo in luce come la Celac, «nonostante l’esistenza di diversi e anche differenti modelli politici», deve rappresentare una nuova visione del subcontinente latinoamericano e caribegno con l’obiettivo di creare uno spazio politico comune nel quale affrontare le grandi sfide: autodeterminazione e difesa della sovranità nazionale, migliore distribuzione dei redditi, progresso economico e culturale. Per questa ragione, ha continuato Raúl Castro, la presidenza pro­tempore di Cuba ha individuato come temi centrali del vertice dell’Avana «la lotta contro la povertà, la fame e la diseguaglianza sociale», in modo che l’America latina cessi di essere la regione con «la più grande disuguaglianza».
Su questi temi, ha riferito il presidente cubano, «sono stati fatti passi avanti, ma sono stati lenti e instabili». Nel 2012 il tasso di povertà è stato ridotto dell’1,4%, ma rimane alto: il 28,2% della popolazione dell’America latina e dei Caraibi (164 milioni di persone), è povero; mentre poco è stato migliorato il tasso di estrema povertà che rimane al 11,3% e che riguarda ben 23,3 milioni di bam­bini e adolescenti. «Il 10% più ricco della popolazione latinoa­mericana riceve il 32% delle ricchezze totali, mentre il 40% più povero non raggiunge il 15% ».
Dunque, i popoli della regione chiedono e pretendono «una migliore distribuzione delle ricchezze e degli introiti, un accesso universale e gratuito a un’educazione di qualità, il pieno impiego, la sicurezza alimentare, assistenza sanitaria generalizzata, il diritto alla casa e all’acqua potabile». Obiettivi possibili con uno sfruttamento più equo delle grandi risorse che ha il subcontinente. Raúl ha messo in chiaro che «sono innegabili i benefici degli investimenti esteri», ma anche i vantaggi che ne traggono le compagnie multinazionali. Infine, il presidente cubano ha affermato che «non vi è sviluppo senza pace. Per questo abbiamo proposto di proclamare la nostra regione come una Zona di pace che bandisca la guerra e l’uso della forza, nella quale tutti i contenziosi vengano risolti al nostro interno per vie pacifiche e in base al diritto internazionale».
La piattaforma proposta da Cuba dovrà essere approvata dai 33 leader della Celac e verrà ratificata oggi alla conclusione del vertice.
Celac: messaggio a Washington
CUBA.
SI È CONCLUSO NELLA CAPITALE IL VERTICE DELLA COMUNITÀ DEGLI STATI LATINOAMERICANI E CARAIBICI
AVANA
La Dichiarazione dell’Avana, il Piano d’azione per il 2014 e le Dichiarazioni speciali, i documenti approvati ieri dai Leaders politici dei 33 paesi della Comunità degli stati latinoamericani e dei Caraibi (Celac), tracciano i con­torni di una nuova politica di integrazione del Sud del continente ame­ri­cano. Un’integrazione che si vuole anti egemonica; uno «spazio politico comune», l’ha definito il presidente cubano Raúl Castro, tra eguali, ognuno con le proprie specificità politiche, sociali e culturali. E che privilegi la lotta alla diseguaglianza (male storico del subcontinente), alla povertà e alla fame; che ponga la solidarietà come una delle basi dei rapporti interni; che si impegni a fare di questa regione una “Zona di pace”, libera da armi nucleari e che usi il dialogo e il diritto internazionale, non i conflitti armati, per risolvere i contenziosi.
Un modello di integrazione diverso da quello praticato da decenni dall’Organizzazione degli stati d’America, Osa, voluto ed egemonizzato dagli Stati uniti che hanno imposto, anche con la forza, o appoggiando colpi di stato militari, modelli politici e culturali — escludenti e politiche neoliberiste che hanno aggravato la forbice sociale e la dipendenza del subcontinente. Per questo – ha sottolineato ieri Cristina Fernández de Kirchner, presidenta dell’Argentina – ha un forte valore simbolico che i Leaders dei 33 paesi della Celac si siano riu­niti e abbiano discusso la nuova fase politica del sud dell’America proprio a Cuba, paese cacciato per volere di Washington dall’Osa nel 1962 , dopo che Fidel Castro aveva proclamato la scelta socialista.
Cuba, impegnata nelle riforme economico-sociali del proprio modello socialista, ritorna dunque protagonista nel processo di integrazione dell’America meridionale, al quale può offrire la sua espe­rienza in campi come la scuola e l’assistenza medica gra­tuite e di qua­lità per tutta la popolazione. E non solo. Due stati chiave dell’America latina, Brasile e Messico, hanno proclamato di voler scegliere l’Avana come partner economico e industriale. Dilma Roussef, presidenta del gigante economico del subcontinente, ha definito Cuba un «socio economico di primo grado», annunciando un aumento del flusso commerciale e nuovi piani industriali con la più grande isola del Caribe. Dopo aver inaugurato, assieme al presidente cubano, il terminal di container del nuovo porto di Mariel (costruito da una delle maggiori imprese bra­si­liane e per gran parte finan­ziato (con 680 milioni di dollari) dal governo brasiliano), Dilma ha annunciato che vi sarà un secondo finanziamento di 290 milioni di dollari per lo sviluppo della Zona speciale di sviluppo di Mariel, oltre a progetti comuni soprattutto nel campo delle bio­tecnologie.
Altrettanto significativo è stato l’annuncio espresso da Enrique Peña Nieto: il presidente del Mes­sico, pur impegnato in casa sua in una serie di riforme liberiste, ha affermato di voler «rapporti più stretti» con Cuba, mentre la compagnia nazionale petrolifera messicana Pemex ha in programma un accordo per l’esplorazione e lo sfruttamento di giacimenti petroliferi assieme alla cubana Cupet in tratti di mare confinanti nel Golfo del Messico.
Il segnale inviato a Washinton è dunque chiaro. La politica di divisioni e di isolamento in Ame­rica latina «è stata sconfitta», ha sostenuto Alicia Bárcenas, segretaria della Commissione economica per l’America latina (Cepal), la quale ha definito la costi­tu­zione della Celac «il risultato politico più importante degli ultimi decenni» nel subcontinente. Giudizio già espresso due anni fa da Fidel Castro, e ribadito martedì dal presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, che, in un’intervista a Telesur ha messo i piedi nel piatto: «Lo dico chiaramente, è giunta l’ora che la Celac (dove Usa e Canada non sono presenti, ndr) sostituisca l’Osa». Ovvero che il Sud del continente americano acquisti pienamente la proprio autonomia dall’impero del Nord.
Quanto il segnale inviato agli Usa sarà forte, dipenderà da due fattori. Il primo, tutto da costruire, riguarderà l’efficacia delle politiche che saranno messe in atto per dare sostanza alla Dichiarazione dell’Avana, un documento che non ha valore vincolante ma dipende dalla volontà dei vari governi di metterne in atto le raccomandazioni. E di farlo in modo coordinato ed «evitando di costruire una nuova burocrazia», come ha richiesto la presidenta dell’Argentina, la quale ha raccomandato che ogni governo della Celac crei al suo interno un appo­sito «spazio istituzionale dedicato all’integrazione».
Il secondo , ma non certo secondario, fattore riguarda la reazione di Washington. E su questo punto gran parte degli analisti esprime un forte scetticismo. È vero che il presidente Obama ha di recente dichiarato che «la politica degli Usa nei con­fronti di Cuba deve essere più creativa», e che il segretario di Stato, John Kerry abbia affer­mato che i rapporti con gli stati dell’America latina devono essere ora basati sull’eguaglianza. Ma nei fatti, la strategia di Washington rimane simile a quella del Bigstick, il grosso bastone, e la piccola carota, a suo tempo teorizzata dal presidente Theodore Roosevelt

AMERICA SETTENTRIONALE
USA
NYC
"Tassare i ricchi per case e asili". Bill De Blasio vola nei sondaggi / A Bill de Blasio, il neosindaco di New York accusato di essere socialista, le prime critiche alla sua legislatura sono arrivate, pensate un po’, dai ricchi. Complice la nevicata che sta imperversando la costa orientale da settimane, i Paperoni della Grande Mela si sono molto arrabbiati perché il "sindaco rosso" li avrebbe abbandonati al loro destino, praticamente isolati nel loro Upper East Side di Manhattan, nel pieno dell’emergenza. "Ci ha abbandonati, mettendo tutti in pericolo", hanno affermato gli abitanti al quotidiano New York Post, spiegando che per molte ore non sono passati imezzi spalaneve, e senza sale sulle strade era estremamente complicato persino stare in piedi”.
Intanto, però, Bill vola nei sondaggi, proprio perché vuole mettere in difficoltà l’upper class. A meno di un mese dal suo insediamento, il 53% degli interpellati approva il lavoro finora fatto, il 13% lo disapprova, mentre un 34% non sa dare un’opinione. I newyorkesi, inoltre, sono anche ottimisti sul resto del suo mandato. Il maggior consenso e’ stato espresso dall’elettorato di colore, con l’80%. I punti della sua agenda che hanno riscosso il maggior successo sono il piano di tassare i ricchi per garantire la scuola materna a tutti i bambini. Su questo, ormai, a New York e’ sfida aperta tra lui e il governatore dello Stato, Andrew Cuomo. I due politici sono entrambi democratici. Ma se Cuomo, che vuole essere rieletto governatore il prossimo novembre, ha l’esigenza di non agitare lo spettro di aumenti fiscali, de Blasio non vuole invece tradire le promesse fatte in campagna elettorale. Il piano sugli asili nido sostenuto dal governatore e’ uno dei cavalli di battaglia anche del neo primo cittadino della Grande Mela. Ma nel bilancio da 142 miliardi di dollari presentato da Cuomo si prevede un ampliamento dei programmi con lo stanziamento di 1,5 miliardi di dollari in cinque anni, senza pero’ che siano finanziati da piu’ imposte. Anzi, il piano contiene una sostanziosa azione sul fronte dei tagli fiscali.
L’opposto di quanto vuol fare de Blasio, che invece punta a finanziare gli asili alzando le tasse a chi guadagna piu’ di 500 mila dollari l’anno. "Gli abitanti di New York mi hanno dato una missione", ha detto il sindaco nel corso di una conferenza stampa, definendo il progetto di Cuomo "incoraggiante" ma ”insufficiente": "E’ differente da cio’ che io intendo fare". Del resto – ha ricordato d Blasio – "aumentare le tasse ai ricchi e’ stato il primo punto del programma che mi ha portato ad essere eletto con il 73% dei voti".
Per de Blasio, inoltre, alzando le imposte si puo’ garantire un finanziamento anno dopo anno del programma: "La gente crede in questa idea, e vuole che diventi realta’. E per fare questo la fonte di finanziamento deve essere affidabile".
Nel frattempo il sindaco di New York ha lanciato anche il suo ambizioso piano per le case popolari, che prevede la costruzione o la ristrutturazione di circa 200 mila appartamenti a basso prezzo in dieci anni. Un programma con il quale l’amministrazione de Blasio punta a superare il suo predecessore, Michael Bloomberg, arrivato a realizzare 165 mila unita’ in 12 anni, con un investimento di 5,3 miliardi di dollari. E anche l’ex primo cittadino Edward Koch, il cui sforzo ha portato alla realizzazione di 190 mila case in 13 anni.

(articoli da: NYC Time, Time, Guardian, The Irish Times, Das Magazin, Der Spiegel, Folha de Sào Paulo, Clarin, Nuovo Paese, L’Unità, Internazionale, Il Manifesto, Liberazione, Ansa , AGVNoveColonne, ControLaCrisi, Asahi Shimbun e Le Monde)

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