11840 Uno scritto del ’44. VIA IL PREFETTO!.. (e tutti i suoi uffici) di Luigi ENAUDI

20151108 15:30:00 guglielmoz

Firmato con il nome Junius in «l’Italia e il secondo Risorgimento» sulla Gazzetta Ticinese, è un testo di attualità. Istituzione veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l’amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. (…) Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura. Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro. Né in Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto.

Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di auto-decisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono.
ELEZIONI, LIBERTÀ DI SCELTA DEI RAPPRESENTANTI, CAMERE, PARLAMENTI, COSTITUENTI, MINISTRI RESPONSABILI SONO UNA LUGUBRE FARSA NEI PAESI A GOVERNO ACCENTRATO DEL TIPO NAPOLEONICO.
La classe politica non si forma tuttavia se l’eletto ad amnministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggio. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?
Finchè esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell’intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l’approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di fatto non è né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il segretario municipale o provinciale.
Non a caso egli è italo oramai attruppato tra i funzionari statali
Parve un sopruso della dittatura ed era la logica necessaria deduzione del sistema centralistico. Chi, se non il funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari i. i moduli i quali quotidianamente, attraverso Ie prefetture, arrivano a fasci da Roma, per ordinare il modo di governare ogni più piccola faccenda locale ?. Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è: non sono ancora arrivate le istruzioni non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno.. A nessuno viene in mente del ministero, l’idea semplice che l’eletto locale air il diritto e il dovere di interpretate lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli elettori della interpretazione data? Che cosa fu e ci le cosa tornerà ad essere l’eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un legislatore non un amministratore; ma un tale, il cui merito principale e di essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti, consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali, capidivisione, segretari, vice-segretari ed uscieri dei ministeri.
(…) La tirannia del cento, la onnipotenza del ministero, attraverso al prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell’interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro dell’interno se non vuol correre il pericolo di vedere "farsi" le elezioni contro di lui dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questui e eden carabinieri; il quale comanda centinaia di migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, favori di ogni specie adescamento e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l’esito delle pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.
Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde.
(…) L’unità del paese non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane. L’unità del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La vera costituente non si ha in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di comitati di partiti.
Chi vuole affidare il paese a qualche altro saltimbanco, lasci sopravvivete la macchina accentrata e faccia da qui sia e dai comitati eleggere a costituente. Chi vuole che gli italiani governino se stessi, faccia invece subito eleggete i consigli municipali, unico corpo rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare. Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma così: col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi.

Pubblicato con lo stesso titolo in L’Italia e il secondo Risorgimento, supplemento alla te Gazzetta ticinese di Lugano 1 17 luglio 1944 ( firmato Junius)

Luigi Einaudi (Carrù, 24 marzo 1874 – Roma, 30 ottobre 1961) è stato un economista, accademico, politico e giornalista italiano, secondo Presidente della Repubblica Italiana Intellettuale ed economista di fama mondiale, Luigi Einaudi è considerato uno dei padri della Repubblica Italiana. Suo figlio, Giulio, fondò la famosa casa editrice che porta il suo nome, la Giulio Einaudi Editore, mentre suo nipote Ludovico è un famoso musicista e compositore.
Vice Presidente del Consiglio dei ministri, Ministro delle finanze, del tesoro e del bilancio nel IV Governo De Gasperi, tra il 1945 e il 1948 fu Governatore della Banca d’Italia. Dal 1948 al 1955 fu Presidente della Repubblica Italiana. Come Capo dello Stato ha conferito l’incarico a quattro Presidenti del Consiglio: Alcide De Gasperi (1948-1953), Giuseppe Pella (1953-1954), Amintore Fanfani (1954) e Mario Scelba (1954-1955); ha nominato otto senatori a vita: nel 1949 Guido Castelnuovo e Arturo Toscanini (che rinunciò alla nomina), nel 1950 Pietro Canonica, Trilussa, Gaetano De Sanctis e Pasquale Jannaccone, infine nel 1952 Luigi Sturzo e Umberto Zanotti Bianco.
Non poté nominare alcun Giudice della Corte costituzionale perché la Corte, pur prevista dalla Costituzione fin dal 1948, fu istituita solo nel 1956, un anno dopo la scadenza del suo mandato, su impulso determinante del suo successore, Giovanni Gronchi.

 

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