10678 NOTIZIE dall’ITALIA e dal MONDO 22 GIUGNO

20130621 16:39:00 guglielmoz

EUROPA – Grecia. Paese in piazza per difendere la tv di stato.
ITALIA. OCSE/ Lo stato sociale salvato dai migranti con lo 0,9% del Pil.
VATICANO – Riforma rinviata, ma un uomo di fiducia nella banca
AFRICA & MEDIO ORIENTE. Siria, paesi vicini in allerta
ASIA & PACIFICO. TOKIO – Il nucleare cambia L’8 luglio
AMERICA CENTROMERIDIONALE. l’alternativa a Panama
AMERICA SETTENTRIONALE – Il Beatle che spaventò l’America di Nixon e Fbi.

EUROPA
ELEZIONI EUROPEE 2014 /ANTICIPATE A MAGGIO, SI VOTA DAL 22 AL 25 – Le elezioni europee si terranno dal 22 al 25 maggio 2014, e non tra il 5 e l’8 giugno, come previsto nei Trattati. Lo ha deciso la Commissione europea che ha accolto una richiesta del Parlamento europeo del 2005 preoccupato dall’inizio delle vacanze estive e anche perché la data originale era concomitante alla settimana della Pentecoste, festività riconosciuta in molti Stati europei. L’anticipo delle elezioni darebbe inoltre al nuovo Parlamento più tempo per prepararsi all’elezione del presidente della Commissione europea prevista a luglio 2014. Stabilite anche le nuove regole per la distribuzione dei 751 seggi, in previsione dell’entrata della Croazia nell’Unione europea nel prossimo mese di luglio.
EU – IL G20 BARROSO ATTACCA LA FRANCIA / L’accordo euro-atlantico non salverà i posti di lavoro
Dopo la sbornia e l’inconcludenza dei vertici G20 aperti alle nuove potenze emergenti, il G8 iniziato ieri a Lough Eme, in Irlanda del Nord, doveva essere l’incontro che rilanciava il gruppo più ristretto di vecchie potenze, per promuovere una nuova agenda economica di cooperazione del Nord del mondo e far fronte alla sfida dei paesi emergenti e alle incognite della crisi. Ma il summit irlandese rischia di finire con la solita dichiarazione di intenti che nasconde profonde divisioni.
Il netto conflitto d’altri tempi tra Usa e Russia sulla questione siriana ha creato tensione alla vigilia e tolto la scena alle portate economiche preparate da tempo dal premier britannico David Cameron su crescita e lavoro. Un menu per gli otto grandi che mira a ottenere qualche azione concreta, dopo la lunga serie fallimentare di vertici internazionali negli ultimi anni. Al governo inglese non è bastato carpire e smussare gli umori prima del G8. Questa volta con incontri bilaterali e non spiando i computer e i telefoni delle delegazioni dei vari paesi, come, secondo quanto rivelato dal Guardian, sarebbe avvenuto nell’aprile 2009 in occasione del G20 di Londra nel pieno della crisi finanziaria globale.
A poco è servito il pre-incontro dei quattro «grandi» europei per ridurre le distanze su alcuni temi, incluso il negoziato di libero commercio tra Europa e Stati Uniti, il cui lancio è stato annunciato a margine del G8. Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha attaccato frontalmente il governo Hollande per aver richiesto – e ottenuto – da Bruxelles l’esclusione del settore audiovisivo, tanto caro agli interessi francesi. Barack Obama ha benedetto il negoziato come la panacea per dare lavoro ai milioni di giovani disoccupati europei, ma in realtà tanti settori – e posti di lavoro – rischiano di essere sacrificati ancora una volta nella Ue come negli Usa in nome dei mercati globali. Da non sottovalutare le implicazioni politiche complessive della mossa euro-atlantica: fuori del G8 questo accordo di libero scambio sarà visto inevitabilmente come il superamento dell’attuale regime dell’organizzazione mondiale del commercio, incapace dalla sua creazione 20 anni fa di siglare nuove intese nell’ambito delle liberalizzazione. In questo modo un rinato blocco del Nord si confronterebbe con più forza con i paesi emergenti dei Brics, cercando di imporre nuovi standard e regole con cui avere ancora un qualche vantaggio competitivo. Ma questo è solo l’inizio di una partita lunga e per nulla scontata. Oggi il governo Cameron cercherà di portare a casa almeno il suo piano delle tre «T»: tasse, trasparenza e commercio . È paradossale che il governo di Londra, paladino delle elite finanziarie della City – essa stessa il più potente paradiso fiscale sul pianeta – si erga a paladino della crociata globale contro l’evasione e l’elusione fiscale. È proprio l’austerità combinata con un inevitabile innalzamento delle tasse per far quadrare i conti, a fronte di una riduzione dell’imponibile in seguito alla perdurante recessione, che per una volta spinge i governi europei a far pagare anche al grande business un po’ di tasse.
Cameron spinge per un accordo che renda noti i veri proprietari delle imprese tramite registri pubblici, nonché per la ratifica da parte di tutti a livello mondiale dell’accordo Ocse per lo scambio di informazioni in materia fiscale. Ma una cosa è l’evasione e un’altra l’elusione fiscale, oggi legale grazie ai vuoti normativi a livello internazionale. Le misure auspicate, ma avversate dai G8 non europei, sarebbero un indubbio passo avanti per la trasparenza. Resta da capire quanto il problema dell’elusione fiscale delle multinazionali sarà poi risolto davvero, dal momento che i paradisi fiscali non cesseranno di esistere in una notte, contrariamente a quanto sostenuto da Barroso e dagli altri leader. Per altro un terzo di queste giurisdizioni sono dipendenze della Corona britannica, ma non si sentono molto parte del G8 e dei suoi impegni. Già quattro anni fa gli stessi paesi se la cavarono senza problemi nonostante le deliberazioni, poi rimaste vuote, del G20 londinese. I vertici e i politici passano, i trucchi e i paradisi fiscali restano.
UNIONE EUROPEA
Dopo un lungo negoziato tra gli stati dell’Unione, la Commissione europea ha ottenuto il mandato a negoziare con Washinton il trattato di libero scambio ; transatlantico. I negoziati sono cominciati al G8 del 17 e 18 giugno in Irlanda del Nord e "dovrebbero durare almeno due anni", scrive Le Monde, "a causa del numero di contenziosi in sospeso: regolamenti finanziari, protezione dei dati personali, OGM, carne agli ormoni". Dalle discussioni dovrebbe rimanere i esclusa la cultura: sostenuta da j diversi operatori del settore e | dal parlamento europeo, Parigi ha infatti minacciato di porre il veto se non sarà rispettata [‘"eccezione culturale", che riserva quote di mercato alle opere audiovisive nazionali ed europee e consente ai governi di sovvenzionarle. Una distorsione del mercato contro la quale Washington si è sempre battuta. La vicenda è stata al centro di un braccio di ferro tra Parigi e Bruxelles. Alla fine, temendo che gli americani possano rifiutare di fare concessioni in altri settori (appalti pubblici, etichette sugli alimenti e trasporti), il commissario europeo al commercio Ka-rel De Gucht, che condurrà i negoziati, ha chiarito che la tutela dell’eccezione è "provvisoria". Il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ha sfiorato l’incidente diplomatico definendo "reazionaria" la posizione francese.

REPUBBLICA CECA
SCANDALI E DIMISSIONI ) IN REPUBBLICA CECA il più grande scandalo del postcomunismo ha portato alle dimissioni del premier conservatore Petr Necas. Nel quadro di una vasta operazione contro la criminalità organizzata, scrive Respekt, è emerso che Jana Nagyovà, suo capo di gabinetto e, a quanto pare, sua amante, aveva ordinato al controspionaggio militare di controllare la moglie del premier. Nagyovà (nella foto con I Necas) sembra anche essere al ! centro di una rete di corruzione, la cui scoperta ha portato all’arresto di diversi ex deputati e funzionari statali. Dopo alcuni giorni di braccio di ferro, il 17 giugno Necas (a capo di un governo di coalizione guidato dal suo partito, l’Ods) si è dimesso. Non è ancora chiaro se si andrà a elezioni anticipate o se si aspetterà la scadenza naturale della legislatura, nel 2014.1 socialdemocratici, il maggior partito d’opposizione, sono ben posizionati nei sondaggi ma temono comunque il giudizio degli elettori. Per la destra, invece, un ! voto anticipato avrebbe conseguenze disastrose. In questa situazione di instabilità "assume un ruolo decisivo il presidente Milos Zeman", scrive Respekt, "che dovrà dare l’incarico di formare un governo". La situazione è molto complessa anche sotto il profilo economico: "La crisi della nostra economia è di gran lunga peggiore di quella degli altri paesi della regione, fatta eccezione per l’Ungheria".

IRLANDA DEL NORD / G8, la kermesse tra vetrine ritoccate e il solito Bono Vox- di Leonardo Clausi LONDRA / È difficile stabilire se si tratti d’ironia involontaria o puerile ingenuità. O magari della grottesca miscela di entrambe. I negozi di Enniskillen, la cittadina della contea di Fermanagh, Irlanda del Nord, dove il 17 e 18 giugno si terrà il summit del G8, stanno ricevendo una riverniciatura. E fin qui tutto comprensibile: per gli ospiti di riguardo si tira fuori il servizio buono. E l’Irlanda del Nord, si sa, non è esattamente Portofino. Ma, in un adeguamento al generale clima di sistematica contraffazione della realtà, o della sua rimozione, alcuni negozianti sono andati oltre: hanno rivestito le vetrine di trompe l’oeil fotografici che mostrano gli interni dei negozi ricolmi di cibo, anche quando magari il negozio in questione è chiuso da anni, come una macelleria nel villaggio di Belcoo.
Se non è mai stata Portofino, la situazione economica della regione è ora nefasta, acuita com’è – naturalmente – dalla recessione. Molte cose sono cambiate dall’ultima volta che la Gran Bretagna ha ospitato il G8, nell’ormai lontanissimo 2005 a Gleneagles, in Scozia. Allora naturalmente l’economia tirava. Ed era pressoché ovvio dare il benvenuto a quel contingente mediatico, sintesi fra celebrity culture e buonismo sociale, che furono le campagne delle Ong dell’epoca guidate da Bono Vox & co. Difficile, ripensando a quella denominata «Make-Poverty-History» e alla sfilza di nomi che vi si precipitò sotto, resistere alla tentazione di invertirne i termini. Ma tra la stramba impostura dei finti negozi a Enniskillen e quella del ritorno di «Make-Poverty-History» mercoledì e giovedì a Londra, giustamente denominata 2, come un sequel Hollywoodiano, c’è un nesso logico teso ed evidente, confermato dalla mesta adunata («flash mob», tanto per salvare le credenziali di pseudo orizzontalità della rete) che ha avuto luogo davanti alla Tate Modern, luogo simbolo dell’estetica liberal globale su iniziativa del solito Bono (a cui ha partecipato anche il bluesman nazionale Zucchero). È stata una riedizione in chiave umilmente ridotta della grossa orgia di decibel e solidarietà che fu il Live 8 ai bei tempi del boom, sorta di colonna sonora del blairismo il cui scopo sarebbe stato quello della cancellazione del debito dei paesi poveri. E ora che il debito è sovrano e i contribuenti sono troppo impegnati con i propri contributi bisogna ridurre tutto in scala. Dalla diretta intercontinentale di mega-concerti del 2005 si ripiega su un gruppo di artisti – di cui molti in declino – davanti alla modesta platea della Tate del 2012. E Bono, Sting e Zucchero sono improvvisamente più sbiaditi di Bob Geldof e Midge Ure (organizzatori di Live Aid nel 1984). David Cameron va al summit con il suo solito mantra neoliberista: per stimolare un’economia da lui congelata con l’austerity, niente di meglio che un accordo commerciale Usa-Ue. Poco importa che sia reso tra l’altro difficile dallo scandalo sulla gestione dei big data e dalle richieste «rapaci» degli stati sovrani nei confronti di mega corporation renitenti alla contribuzione (Google, Apple, Starbucks, Facebook ecc). Il fatto che di questo summit non facciano parte Cina e India, le due grandi economie globali di fatto semoventi, non fa che aggiungere velleitarismo a tutto l’insieme. Forse perché nel 1984 erano fra quelli che l’Occidente avrebbe dovuto sfamare, mentre ora si dimostrano insensibili all’evangelizzazione di Bono e le sue Ong? Dalle vetrine della cittadina che lo ospita alle istanze etiche che lo contraddistinguono, la dissimulazione rimane la cifra del prossimo G8 in terra britannica.

GERMANIA
BERLINO L’egemone riluttante / The Economist, Regno Unito / Nell’Unione europea non succede niente senza il consenso della Germania, scrive l’Economist. "In questi anni di crisi la cancelliera Angela Merkel ha usato bene il potere egemone di Berlino", ma ha dimostrato una certa riluttanza a guidare l’Europa, come gran parte dei suoi concittadini, che Merkel non vuole deludere a tre mesi dalle elezioni legislative. Ma senza una guida decisa l’Europa sta andando alla deriva, spiega il settimanale, secondo il quale la riluttanza di Berlino ha tre cause. Una è di natura storica: la tragica esperienza del nazismo ha convinto i tedeschi che la Germania deve essere come la Svizzera, cioè un paese ricco e con un basso profilo politico. La seconda ragione è la convinzione che all’origine della crisi ci siano le spese stravaganti dell’Europa meridionale, che però sono state finanziate spesso proprio dalle banche tedesche. La terza causa è di natura strategica: Berlino crede di ottenere di più senza esporsi troppo. Ma l’atteggiamento della Germania, conclude l’Economist, mette a rischio la salvezza dell’euro e, soprattutto, la pazienza delle masse di disoccupati dell’Europa meridionale.

I PAESI BASSI – II 17 giugno sei ragazzi tra i 15 e i 17 anni sono stati condannati a pene da uno a due j anni di detenzione per aver picchiato a morte un guardalinee durante una partita di calcio giovanile nel dicembre scorso.

ALBANIA – II 23 giugno si svolgeranno le elezioni legislative. Il voto è considerato un test per la concessione all’Albania dello status di paese candidato all’ingresso nell’Unione europea.

RUSSIA – La Duma ha approvato I il 18 giugno un progetto di legge ! che vieta alle coppie gay stranie-1 re di adottare bambini russi.

GRECIA
ATENE – Di nuovo inonda / Il 17 giugno il consiglio di stato ha annullato temporaneamente la chiusura della radiotelevisione pubblica greca, la Ert, decisa P11 giugno dal premier Antonis Samaras. La decisione aveva sollevato le proteste dei sindacati e anche dei partiti che fanno parte della coalizione di governo (socialisti e Sinistra democratica), creando un clima di instabilità politica. Secondo il sito Protagon, "la sentenza punisce l’arroganza del primo ministro e gli dà l’opportunità di correggere un grave errore". A questo punto bisognerà capire se la Ert potrà davvero essere ri-strutturata. "Il compito non è facile, ma se i partiti troveranno un accordo, la situazione migliorerà. Se invece continueranno a usare la tv pubblica come un organo di partito, le cose non potranno che peggiorare".
GRECIA
ATENE – È scontro anche nella coalizione di governo. Lunedì il premier incontra gli alleati
Paese in piazza per difendere la tv- Argiris Panagopoulos / Solidarietà internazionale contro la decisione di chiudere l’Ert. Il ministro minaccia chi ritrasmette il segnale Il colpo di stato di Samaras contro la libertà di informazione e le garanzie democratiche al pluralismo radiotelevisivo ha unito dopo tre anni di dure battaglie politiche e sociali tutta l’opposizione di sinistra in Grecia: Syriza, Pame, Antarsya e persino i gruppi anarchici sventolavano ieri insieme le loro bandiere fuori dalla sede dell’Ert. Sono due giorni che in viale Mesogeion affluiscono migliaia di persone, la sede dell’Ert è diventata un luogo di pellegrinaggio. C’è un via vai incessante, dalla mattina alla sera, persone di tutti i tipi e di diverse età: contro la decisione di chiudere la televisione pubblica con un decreto legge sembra che questa volta si sia mobilitata anche una parte dei conservatori e dei moderati che non capiscono come si possa spegnere una voce che fino all’altro ieri faceva le lodi al governo e bacchettava l’opposizione. Ma è tutto il paese in mobilitazione per l’ennesimo sciopero generale proclamato da Gsee e Adedy e da quasi tutti i sindacati esistenti in Grecia, con centinaia di adesioni da parte di molte associazioni, comprese quelle dei greci all’estero che hanno manifestato davanti ad ambasciate e consolati in tutto il mondo. Il governo però non demorde e anzi, attraverso il ministero delle Finanze Stournaras, che controlla il cadavere della tv pubblica, arriva a minacciare tutte le emittenti televisive e radiofoniche che ritrasmettono i segnali dalle sedi occupate dell’Ert. Il divieto di sfruttare «illegalmente» segnali e simboli dell’Ert ha scatenato la reazione immediata della Grecia democratica e specialmente dei lavoratori della tv di Stato, che dopo lo sciopero di ieri si sono riuniti per decidere nuove azioni di resistenza, ricordando al governo Samaras che il segnale dell’Ert occupata è stato ritrasmesso anche dalla Unione delle Televisioni Europee Ebu attraverso il satellite e la rete. Per i lavoratori dell’Ert si è messa in moto anche la solidarietà internazionale, con l’Istituto della Stampa Internazionale (Ipi) e l’Organizzazione dei Mezzi d’Informazione dell’Europa Sudorientale (Seemo), che hanno sede a Vienna, solleciti nel denunciare l’attacco all’informazione da parte del governo, con il presidente dell’Ebu, che rappresenta 600mila giornalisti, che ha mandato una lettera aperta al vetriolo a Samaras, e con la Federazione nazionale della Stampa italiana, l’Usigrai, Articolo21 e numerose altre associazioni della società civile italiane presenti ieri ad Atene per la manifestazione in solidarietà con i giornalisti o davanti all’ambasciata greca a Roma.
Lo scontro sull’Ert è accesissimo e anche all’interno della coalizione di governo la temperatura è alta. I leader del partito socialista, Pasok, e di Sinistra Democratica chiedono infatti a Samaras di non spegnere la radiotelevisione pubblica, promettendo battaglia in parlamento. Ma per il momento la loro partecipazione al governo non è messa in discussione, così come non è stato agitato lo spettro di elezioni anticipate. Lunedì 17 giugno, alle 18, esattamente un anno dopo il secondo turno elettorale che ha portato alla formazione dell’attuale esecutivo, è previsto l’incontro tra il premier, e leader del partito di centro destra Nea Dimokratia, con i suoi due alleati, Evanghelos Venizelos del Pasok e Fotis Kouvelis di Sinistra Democratica, per fare il punto sulla questione.
L’opposizione certo non sta a guardare. Kouroumplis, portavoce di Syriza in parlamento, e la responsabile giustizia e deputata Konstantopoulou hanno chiesto formalmente dalla magistratura di aprire una indagine e hanno annunciato la intenzione di Syriza di depositare una denuncia nei prossimi giorni.

GERMANIA
BERLINO – La Linke boccia Lofantaine. «No all’uscita dall’euro» di – Jacopo Rosatelli /«Trionfo dei riformisti», titola Neues Deutschland, il quotidiano del partito. L’enfasi forse è eccessiva, ma il significato politico del terzo congresso della Linke è colto in pieno: i delegati hanno premiato le tesi dell’ala moderata e pragmatica, bocciando Oskar Lafontaine. Dopo ore di intenso dibattito, nella notte fra sabato e domenica è stato licenziato il testo definitivo del programma elettorale con il quale la formazione social-comunista si presenterà alle urne per il rinnovo della Camera bassa tedesca (Bundestag) il prossimo 22 settembre.
L’attenzione era tutta per gli emendamenti dalle correnti affini all’ex ministro socialdemocratico: se approvati, avrebbero impegnato la Linke a sostenere la possibilità di un’uscita controllata dall’euro e di un ritorno al sistema monetario europeo in vigore fino al 1993. Ma la grande maggioranza dei partecipanti alle assisi di Dresda li ha respinti, accogliendo il testo nella formulazione proposta dalla direzione del partito: «Anche se l’edificio dell’Unione monetaria europea presenta molti errori, la Linke non è favorevole alla fine dell’euro».
Consapevole dei rapporti di forza a lui sfavorevoli, Lafontaine stesso ha deciso di non calcare la mano, evitando di drammatizzare un dibattito che avrebbe potuto diventare lacerante. A pochi mesi dal voto, per la Linke è vitale dare prova di unità interna. E così, il co-fondatore del partito, che attualmente ricopre un incarico di scarso rilievo (è capogruppo al Landtag della sua piccola regione, il Saar), ha deciso di non intervenire di fronte alla platea. Un profilo basso mantenuto anche dall’altra dirigente più in vista del settore radicale, la brillante 44enne Sahra Wagenknecht. Negli interventi dei difensori della linea pro euro è ritornato spesso un argomento-chiave: non possiamo mettere i bastoni fra le ruote a una forza come Siryza, il partito-fratello greco che lotta per sconfiggere l’austerità ma anche per mantenere Atene nell’Ue e nella moneta unica. Contro la troika, ma non contro l’euro né tantomeno contro l’Ue: questo il messaggio del congresso di Dresda. Che si è chiuso non solo sulle note dell’Internazionale, come da tradizione, ma anche su quelle di Grândola vila morena, la canzone-icona della rivoluzione dei garofani del 1974 e oggi inno dei movimenti portoghesi (e non solo) che resistono all’austerità neoliberista imposta da Berlino e Bruxelles.
Soddisfazione e ottimismo nei commenti del giorno dopo: le polemiche fra le correnti sono (almeno fino al giorno delle elezioni) messe da parte. Tutti concordano, nella Linke, con le parole pronunciate dalla tribuna di Dresda dallo storico leader Gregor Gysi, l’uomo che dopo la caduta del muro traghettò con successo il Partito comunista della Germania est nel sistema politico della Repubblica federale e che oggi continua a essere il principale trascinatore nelle contese elettorali: «l’obiettivo è un risultato a due cifre». Un risultato che in ogni caso, però, non potrà essere messo a disposizione di una coalizione progressista. I socialdemocratici della Spd e i Verdi hanno ribadito la loro contrarietà ad allearsi con i social-comunisti, nonostante alcune indiscutibili affinità programmatiche. Come, ad esempio: l’aumento delle aliquote fiscali più alte, l’introduzione di una tassa patrimoniale, il salario minimo per legge, investimenti pubblici per rilanciare l’economia. Ma pesano di più, purtroppo per i tedeschi e per il resto degli europei, vecchi tabù e radicate diffidenze fra le diverse sinistre. E la cancelliera Angela Merkel ringrazia.

FRANCIA
LE MONDE – IL G8 CONTRO I PARADISI FISCALI / L’offensiva contro i paradisi fiscali è davvero cominciata. Contro l’universo tentacolare della finanza dell’ombra, contro l’opacità delle casseforti offshore di tutto il mondo, l’epoca delle semplici dichiarazioni di principio è superata. È una buona notizia poiché queste zone grigie della finanza minano l’economia mondiale, permettono a migliaia di miliardi di euro di sfuggire a ogni regola e privano paesi sviluppati ed emergenti delle entrate fiscali di cui hanno tanto bisogno. Oggi le grandi potenze occidentali vogliono contrastare davvero questo cancro. Lo si è visto al G8 del 17 e 18 giugno in Irlanda del Nord. Su iniziativa del primo ministro britannico sono stati definiti dei princìpi chiari: la necessità di passare allo scambio automatico dei dati fiscali tra le amministrazioni di tutto il mondo; la necessità di modificare le regole che permettono alle imprese di trasferire i loro profitti in paesi con regimi fiscali favorevoli; l’obbligo per le multinazionali di comunicare, paese per paese, l’ammontare delle loro imposte; l’obbligo per tutte le società, comprese quelle offshore, di comunicare alle amministrazioni fiscali l’identità dei loro reali proprietari; infine una solidarietà nord-sud in questo settore. La Francia ha poi deciso unilateralmente di pubblicare la sua "lista nera" di paesi poco col-La strada è ancora lunga. Infatti a causa delle resistenze statunitensi e tedesche, il G8 non ha potuto approvare la creazione di un registro inter-nazionale delle società fantasma e dei loro beneficiari, e in questo campo ogni stato agirà come vorrà. Intanto alcuni paesi dovranno fare pulizia nei loro paradisi fiscali – dallo stato americano del Delaware, alle isole anglo-normanne o caraibi-che per il Regno Unito, o ad Andorra e Montecarlo per la Francia. Inoltre il piano di azione voluto dall’Ocse per lottare contro f "ottimizzazione fiscale" delle aziende è ancora all’inizio. Infine bisognerà convincere il resto del mondo a partecipare a questo progetto. Un risultato non scontato, dato che metà del commercio mondiale transita per i paradisi fiscali. Il prossimo G20, in luglio, sarà un test importante. Ma l’offensiva partita dal G8 è di buon auspicio, visto che fino a poco tempo fa la battaglia contro la sottrazione generalizzata di ricchezze pubbliche sembrava persa in partenza

SPAGNA
Madrid /El País – LA STELLA DI GRILLO / Nonostante l’elevato astensionismo, le recenti elezioni amministrative hanno fatto luce sul confuso panorama politico italiano emerso dal voto di febbraio. Il centrosinistra del presidente del consiglio Enrico Letta non ha pagato per la sua alleanza con la destra di Silvio Berlusconi, anzi ha vinto in tutti i capoluoghi e a Roma, mentre il Cavaliere e il suo Popolo della libertà non hanno ottenuto i risultati che speravano. Ma forse, cosa più importante, Beppe Grillo ha perso il fascino che a febbraio gli aveva permesso di ottenere più del 20 per cento a livello nazionale. Nessuno può dire per quanto andrà avanti l’inedito esperimento della grande coalizione, che forse è destinato a breve durata. Ma i risultati delle amministrative danno un po’ di respiro a Letta. Che potrà dedicarsi di più alle riforme economiche di cui l’Italia ha molto bisogno e su cui per ora non ha fatto molto. Per quanto riguarda Berlusconi, il centrodestra è ancora in vantaggio nei sondaggi, ma se il Cavaliere, assediato dalla giustizia, aspettava il verdetto delle urne per chiedere elezioni politiche anticipate, avrà pensato che non è proprio il momento di farlo. Anche in politica distruggere è più facile che costruire, e il movimento di Grillo ha pagato il suo rifiuto di impegnarsi per rendere governabile l’Italia. Dopo la sconfitta alle amministrative, stanno emergendo le prime spaccature nel Movimento 5 stelle, pochi mesi dopo aver scosso le fondamenta del pietrificato establishment italiano. Sarebbe prematuro, però, seppellire un movimento di protesta contro il sistema che in buona parte si nutre dell’apatia dei cittadini. Alla fin fine, in Italia, dove la disoccupazione è aumentata e la recessione si accentua, non ci sono stati cambiamenti sostanziali ed è difficile pensare che non esistano più i problemi grazie ai quali lo scorso febbraio Grillo è stato portato alle stelle, anche se oggi ha perso molto del suo splendore.

ITALIA
ROMA – OCSE/ITALIA / Lo stato sociale salvato dai migranti con lo 0,9% del Pil / L’Ocse spariglia le carte nell’ordinario razzismo che domina il mercato del lavoro italiano. Dati alla mano, l’organismo internazionale che ha sede a Parigi ieri ha dimostrato nel rapporto annuale sulle migrazioni che gli immigrati non pesano sul welfare, ma anzi – nel lavoro dipendente, in quello autonomo, nell’impresa, contribuiscono a tenere in piedi un sistema ferito a morte con lo 0,9% del Pil- A beneficiarne è soprattutto un sistema pensionistico, come anche il fisco al quale queste persone versano le tasse sui loro redditi. Questo non accade naturalmente solo in Italia. In Svezia, ad esempio, la situazione è ancora più evidente. In questo paese, i migranti contribuiscono al Pil con un valore prossimo al 2%. Il segretario generale dell’Ocse Angel Gurria si è raccomandato di rafforzare i programmi di integrazione e formazione per gli stranieri, anche in un momento di crisi: «Il lavoro degli immigrati – ha detto – sarà fondamentale per garantire la ripresa dell’economia una volta che sarà terminata la crisi». L’Ocse si è occupata anche della mobilità all’estero degli italiani e sostiene che quelli che sono andati all’estero nel 2011 sono aumentati a 85 mila. La metà preferita è la Germania dove gli italiani sono aumentati del 35%. Ma ci restano solo un anno. Lo sostiene «Die Welt»: il 60% degli italiani emigrati per lavoro in Germania, gran parte dei quali probabilmente cervelli in fuga, riesce a resistere solo un anno nel Paese di Goethe. Secondo i dati Ocse solo una piccola minoranza di stranieri riesce a resistere alle dure condizioni del mercato del lavoro in Germania. Forse anche il mito della «fuga dei cervelli» sta per essere sfatato.
ROMA – La grande truffa del maggioritario / Il saggio di L. Canfora / di Giuseppe Di Lello. Del porcellum si continuerà a disquisire a lungo, dato che piace tanto a tutti e non sarà cambiato, almeno così si promette, se non a conclusione delle riforme costituzionali. Fuori dal coro di questo annoso dibattito tra politici professionisti che va avanti da anni, inconcludente come acqua pestata nel mortaio (Napolitano), oltre ai contributi critici della migliore dottrina costituzionalista italiana ampiamente ospitata in questo giornale, abbiamo da poco anche il saggio di Luciano Canfora edito da Sellerio La trappola. Il vero volto del maggioritario: un vero e proprio atto di accusa alla sinistra, indegna erede della tradizione del parlamentarismo democratico fondata sul voto uguale sancito dall’art. 48 Cost. La vicenda di questa tradizione è ripercorsa con la maestria dello storico partendo da una premessa: l’aver ottenuto con la legge maggioritaria alle ultime elezioni il triplo dei deputati dello schieramento avverso nonostante una manciata di voti in più «è stato il più grande scandalo mai verificatosi nella storia politica italiana, più scandaloso persino del risultato ottenuto dal ‘listone’ mussoliniano (e associati), grazie alla legge Acerbo, nelle elezioni politiche dell’aprile 1924». Secondo Canfora la legge elettorale è intimamente connessa all’assetto costituzionale e se la si cambia in senso maggioritario, si altera il principio basilare del voto uguale (un uomo – un voto).
Questo assunto è stato sempre presente nelle riflessioni e nelle battaglie della sinistra, tanto da determinarla ad ingaggiare una grande battaglia, parlamentare e popolare (scioperi e scontri con la polizia), contro la proposta di legge della Democrazia cristiana che, nella imminenza delle elezioni politiche del 1953, voleva introdurre un premio di maggioranza al partito che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti: la (allora) famigerata "legge truffa". Ricordando che la Costituente del ’46 e il primo parlamento repubblicano del ’48 erano stati eletti con una legge rigorosamente proporzionale, a supporto delle sue argomentazioni Canfora riporta integralmente l’intervento alla Camera di Togliatti nella seduta dell’8 dicembre 1952, indicato proprio come una lezione di diritto costituzionale».
L’escursus storico e giuridico di Togliatti è minuzioso e puntuale e ritorna sempre sul punto focale: «Non esistono eccezioni nella dottrina, ed evidente risulta, per conseguenza, che quando il diritto elettorale venga radicalmente modificato è la Costituzione che viene posta in discussione e toccata. Quando poi si giunga a dimostrare che un determinato ordinamento elettorale che si propone è contrario a determinate norme fissate dalla Costituzione, è la Costituzione stessa che viene violata, distrutta». Togliatti ricorda al presidente del consiglio proponente (e lo si dovrebbe ricordare anche all’attuale) il giuramento di fedeltà alla Costituzione e il suo obbligo di difenderla e, semmai, di avere il buon senso di far proporre al suo partito, la Dc, almeno una modifica della Carta.
Canfora, con realismo, visti i tempi, si pone il problema della difficoltà politica di tornare ad una pura e semplice legge elettorale proporzionale e, come estrema ratio, propone una legge simile a quella tedesca, proporzionale e con uno sbarramento al 5%, proprio per non tradire sino in fondo la Costituzione. Una lettura piacevole, ma amara, con la speranza che dalla stessa almeno parte della sinistra tragga un qualche insegnamento che ci aiuti ad uscire dalla trappola del maggioritario.
Riagganciandomi immodestamente a Togliatti, su questo punto, per la legge elettorale e la riforma semi presidenzialistica dello Stato, e cioè per la soppressione del voto uguale e per l’abbandono della funzione di terzietà del Capo dello Stato, penso che chi si accinge ad una riforma radicale della Costituzione avrebbe il dovere non di manipolarla attraverso l’uso disinvolto dell’art. 138 (che è stato concepito per aggiustamenti parziali), ma di accettare la sfida eleggendo, con voto proporzionale, una assemblea costituente. Certo anche questo passaggio sembra urtare contro il dettato dell’art. 139 Cost. che, prescrivendo come la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale, non sembra alludere solo alla impossibilità del ritorno di un re, ma anche ad uno stravolgimento della "forma repubblicana" come è strutturata dalla Costituzione vigente, voto uguale e Capo dello Stato organo terzo compresi

VATICANO
ROMA – Riforma rinviata, ma un uomo di fiducia nella banca / Bergoglio apre un occhio sullo Ior.
Non è la riforma dello Ior che molti si aspettano, tuttavia ieri papa Francesco ha piazzato un uomo di sua fiducia nelle stanze del potere della banca vaticana, dando così un segnale evidente che non va tutto bene nell’Istituto per le opere di religione. Bergoglio ha infatti approvato la nomina con «effetto immediato» – si tratta cioè di una scelta voluta esplicitamente dal papa – di mons. Battista Ricca come prelato dell’Istituto. Era una carica vacante dal 2010, che ora Francesco ha assegnato ad un suo uomo. Ricca infatti è il direttore della Casa Santa Marta, la residenza vaticana che Bergoglio ha scelto come sua abitazione, rinunciando a vivere nell’appartamento pontificio. Si tratta quindi della persona che in questi tre mesi è stato più vicino a papa Francesco e che ha saputo conquistare la sua fiducia. Da prelato dello Ior svolgerà la funzione di "ufficiale di collegamento" fra Bergoglio e tutto quello che accadrà nella banca vaticana: avrà infatti il ruolo di segretario degli incontri della Commissione cardinalizia di vigilanza dello Ior – presieduta da Bertone – e assisterà agli incontri del Consiglio di sovrintendenza, cioè il consiglio di amministrazione laico della banca, riferendo poi ogni cosa a Bergoglio. La scelta del nuovo presidente, il tedesco Von Freyberg, e la riconferma di Bertone, entrambe effettuate a fine febbraio, con Ratzinger già dimissionario, avevano "legato le mani" a Bergoglio, messo davanti ad un fatto compiuto. Ora papa Francesco, con la nomina di un suo fedelissimo, evidentemente intende vederci più chiaro.
PALERMO – L’apertura di monsignor Peri / La Curia sdogana l’«orgoglio gay» Se non è una benedizione poco ci manca. Di certo l’atteggiamento conciliante dei vescovi siciliani è un altro dei primati del Pride nazionale di Palermo, che venerdì ha aperto il sipario su un’edizione che si annuncia storica per partecipazione e adesioni. È stato monsignor Calogero Peri, delegato della Conferenza episcopale siciliana (Cesi) per la famiglia e i giovani, a mettere per iscritto l’invito a una tregua, rivolto soprattutto ai "suoi"; agli organizzatori, cioè, del Family day che è stato fissato a Palermo proprio per il 22 giugno, il giorno della grande parata dell’orgoglio gay che chiuderà la settimana di manifestazioni Lgbt nel capoluogo siciliano. Una concomitanza che inevitabilmente connota come un vero "contro Pride" l’appuntamento di una trentina di associazioni cattoliche schierate contro le adozioni gay e il matrimonio fra persone dello stesso sesso. Ed è questo che Peri, francescano, vuole scongiurare, con il messaggio pubblicato venerdì nel sito della Cesi e intitolato "Contro nessuno". «La giornata della famiglia non è e non deve essere contro qualcuno – spiega meglio il prelato, che è vescovo di Caltagirone – Non è e non deve essere una manifestazione di muscoli o di forza… Vorrei che ci fosse la capacità di smetterla di fare fronti contrapposti», aggiunge. Non una benedizione, dunque. Ma di sicuro un’attenzione «rispettosa» verso una mobilitazione per i diritti che ha finora registrato, oltreché l’adesione convinta di Regione e Comune, anche la partecipazione della presidente della Camera e della ministra delle Pari Opportunità, Boldrini e Idem, giunte in Sicilia nella giornata di apertura del Pride con l’intenzione di mettere in chiaro che non si trattava di fare passerella ma di aprire davvero una nuova fase nel dibattito politico, in sintonia con la piattaforma rivendicativa del movimento Lgbt. Anche la città ha aderito entusiasta, invadendo nella prima serata gli otto ettari e mezzo del village ai Cantieri culturali, magnifica struttura industriale recuperata e poi lasciata marcire nel decennio di Cammarata. È la «cittadella dell’uguaglianza più grande del mondo», ha detto gongolante il sindaco Leoluca Orlando, segnalando un altro primato.

AFRICA & MEDIO ORIENTE
TUNISIA – Femen, le attiviste europee condannate / Quattro mesi di prigione. Il governo tunisino ha voluto il massimo della pena possibile per le tre giovani militanti del gruppo Femen, arrestate a Tunisi. L’accusa è di blasfemia, le tre ragazze infatti si sono scoperte il seno, in solidarietà con l’attivista tunisina detenuta Amina. La condanna ha scatenato numerose reazioni politiche soprattutto perché le ragazze sono tutte e tre europee, due francesi e una tedesca. «Il potere tunisino ha dato un’ulteriore prova della sua violenza teocratica mostrando al mondo intero il suo disprezzo verso le convenzioni democratiche» ha dichiarato la leader di Femen, Inna Shevchenko, promettendo però che questo arresto non fermerà la lotta del movimento in Tunisia. La difesa delle tre ragazze, arrestate lo scorso 29 maggio, ha ricorso in appello. «Il tribunale ha ceduto alle pressione degli islamisti creando un reato di blasefmia. É evidente il tentativo di fondare uno stato religioso» ha detto alla stampa la difesa delle ragazze, sottolineando anche come sia sempre più frequente la condanna della libertà di espressione. I governi francese e tedesco, in una nota ufficiale, hanno espresso la loro preoccupazione per questa condanna, e senz’altro l’arresto di due cittadini francesi avrà un peso nella prossima visita di Hollande in Tunisia prevista per i primi di luglio. Nel frattempo gli avvocati Patrick Klugman e Ivan Terel hanno reso noto che si recheranno immediatamente a Tunisi per dare voce alla mobilitazione internazionale. In Tunisia l’azione di Femen era stata oggetto di severe condanne. Poche le voci in difesa delle militanti, e tra queste quella di Ahlem Belhadj, presidente dell’Associazione tunisina delle donne democratiche, che si è detta «disgustata da questa condanna». C’è anche chi teme che questa condanna sia il segno di un inasprimento ulteriore, già annunciato dal rifiuto della libertà condizionale a Amina, in carcere dallo scorso 19 maggio. «Se sono stati così duri con delle cittadine europee, per lei che è tunisina c’è da temere il peggio» ha detto l’avvocato della giovane. Preoccupazione più che motivata, visto che con le accuse che le sono state imputate, Amina Sboui rischia fino a dodici anni di reclusione.

PALESTINA
Da Hebron Amira Hass / LE PAROLE SONO FINITE / La scatola che contiene gli appunti per i miei articoli sta per esplodere. Se ci fosse un apparecchio in grado di creare una mappatura cerebrale di quello che c’è dentro, probabilmente produrrebbe l’immagine di una tempesta incoerente, di una minestra in ebollizione, di un misto di colori scuri con qualche venatura più chiara. L’abbondanza di argomenti di cui scrivere mi sta paralizzando. Sono combattuta: una moltitudine di argomenti contraddice il discorso prevalente, e sento che il mio ruolo è quello di lasciare che quest’abbondanza parli da sé, nel suo insieme e nel dettaglio. Ma è una battaglia persa in partenza, a causa del lavoro necessario per affrontare ogni singolo tema. Forse sto solo prendendo tempo per non ammettere che ho il blocco dello scrittore? O forse non voglio riconoscere che la scelta professionale di vivere tra i protagonisti dei miei articoli (le persone che subiscono l’occupazione) è a un punto morto? Non riesco a comunicare ai lettori (gli occupanti) la portata della loro ostinata ignoranza. Legati a doppio filo, i protagonisti e i lettori vivono in mondi paralleli, op-posti e autonomi. Ormai ho finito le parole per descrivere la distanza tra questi due mondi e la vicinanza del disastro: l’insormontabile vuoto tra le due esistenze e la tangibilità del dolore, il potenziale ignorato delle affinità tra i due universi e i sentimenti sempre più forti (e giustificati) di avversione che i protagonisti-occupati provano nei confronti dei lettori-occupanti.

TURCHIA
ISTANBUL – TULETTERA APERTA AL PRESIDENTE / Il regista Fatih Akin scrive a Gul: «Fermate questa violenza» Il regista turco-tedesco Fatih Akin (nato ad Amburgo da genitori turchi) ha rivolto un appello al presidente della Repubblica di Turchia, Abdullah Gul, per chiedere di mettere fine all’uso eccessivo della violenza da parte della polizia contro i manifestanti di Gezi Park. «Mi rivolgo a tutti quelli che hanno una coscienza – ha scritto Akin in una lettera aperta a Gul, pubblicata sul quotidiano Hamburger Morgenpost – affinché fermino questa violenza». Il regista de «La sposa turca», vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino del 2004, di «Ai confini del paradiso» (2006) e «Soul Kitchen» (2009) ha quindi elencato una serie di episodi avvenuti in questi giorni in Turchia, dall’uso di gas urticanti all’arresto di medici che curavano i manifestanti, al caso di un 14enne con un’emorragia cerebrale causata da una bomboletta di gas lacrimogeno lanciata dagli agenti. «La polizia interviene con tonnellate di gas lacrimogeno, con idranti, con pallottole di gomma – si legge ancora nella sua lettera – in modo indiscriminato». «Solo 10 anni fa, lei e il suo partito – scrive Akin a Gul – combattevate per i diritti e le libertà fondamentali. Non dovreste essere voi, quindi, a capire al meglio questa società? Non voglio pensare che abbiate rimosso la maglia della coscienza quando avete indossato quella del governo, come hanno fatto altri».
ISTANBUL – GEZI PARK – Sgomberato il parco, si va avanti / Il boulevard della moda invaso della protesta / di Gilberto Mastromatteo /«Non molleremo finché questa dittatura non sarà finita». Yusuf Cansun scandisce le parole, coperto dalle grida dei dimostranti, seduti di fronte agli agenti in tenuta anti-sommossa, sul selciato di Istiklal Caddesi. La protesta degli esuli del Gezi Park e di piazza Taksim si è spostata qui, ieri, sul boulevard delle vetrine, delle discoteche e dei fast food, a due passi dalla piazza oramai interdetta. Yusuf è uno studente di Belle Arti all’università di Istanbul e fa parte del gruppo marxista leninista Kaldirac (letteralmente «leva», quella con cui Archimede intendeva sollevare il mondo). «Continuiamo a protestare – dice – e lo facciamo pacificamente, per opporci allo sgombero del parco Gezi, agli arresti sommari di avvocati, medici e giornalisti, ai metodi fascisti che Erdogan si ostina ad utilizzare». La strada inizia a riempirsi, nel tardo pomeriggio. Il cordone della polizia si infittisce. Parte la prima carica, gli agenti sparano proiettili di gomma ad alzo zero sui manifestanti. La folla si disperde nelle vie limitrofe. Ma dopo qualche minuto sono di nuovo tutti in strada. Una folla composita, fatta di giovani e non, laici e islamici anticapitalisti, curdi e kemalisti, ambientalisti e tifoserie, donne, operai, disoccupati. «Erdogan non è altro che un capitalista, sta vendendo il Paese agli interessi di pochi" afferma Ozqur Kivong, uno dei cosiddetti «Anticapitalisti islamici», le cui bandiere nere avevano trovato istantanea integrazione nella cornice laica e leftish del parco Gezi e di piazza Taksim. Lo sciopero generale, dichiarato dai sindacati e marchiato come «illegale» dal primo ministro, porta in piazza anche chi ha i capelli bianchi. Orsman Akman ha sessant’anni e di professione fa il professore di turco per migranti. «Non pensavo che Erdogan potesse giungere fino a questo punto – osserva – sembra che abbia deciso di sfidare il popolo turco e il mondo. Si fa beffe dell’opinione pubblica internazionale e dichiara di non riconoscere il Parlamento europeo, arresta i giornalisti, minaccia un intervento militare. Questo è un colpo di Stato. Per la prima volta stiamo conoscendo il volto oscuro di un governo che si professava liberale. I turchi, specie quelli di Istanbul, non possono accettarlo». I casi di aggressione e gli arresti da parte delle forze dell’ordine si moltiplicano. Come quello del fotografo livornese Daniele Stefanini. Avvengono soprattutto nelle strade più anguste, come Siraselviler Caddesi, dove la polizia ha ingaggiato nei giorni scorsi una battaglia quasi ininterrotta con migliaia di manifestanti. Oyku Iz, attivista del Collettivo femminista di Istanbul, ha scampato l’arresto per un soffio. Peggio è andata all’amica che era con lei: «L’hanno picchiata e portata in commissariato – racconta Oyku – quindi l’hanno costretta a denudarsi. La nostra ormai non è più una battaglia di genere. Qui è in gioco la dignità del nostro Paese».

SIRIA – I DIRITTI DEI RIFUGIATI / La rivista medica THE LANCET richiama l’attenzione sulla salute degli 1,6 milioni di rifugiati siriani sparsi tra Turchia, Libano, Egitto, Iraq e Giordania. E su quella dei 4,2 milioni di rifugiati interni. Si tratta per la maggior parte di donne e bambini che vivono in condizione di sovraffollamento e di scarsa igiene, con il rischio di epidemie di epatite, tifo, colera e dissenteria. Il problema più grande è che i servizi sanitari sotto pressione non riescono a garantire le cure necessarie. Servono interventi sanitari di base e d’emergenza, in particolare cure ostetriche e assistenza alle vittime di stupro. In questi casi, che rappresentano un’emergenza umanitaria a sé, servirebbero almeno i tratta-menti per prevenire il contagio di malattie sessualmente trasmissibili e le gravidanze
SIRIA – PAESI VICINI IN ALLERTA / II 18 giugno i leader del G8 riuniti a Lough Erne, in Irlanda del Nord, hanno terminato il verti-ce invocando una soluzione po-litica per la guerra in Siria e l’organizzazione di una conferenza di pace. Nella loro dichiarazione non si fa riferimento alla caduta di Bashar al Assad, nonostante gli Stati Uniti abbiano annunciato una linea più dura contro Damasco. "Il 13 giugno la Casa Bianca ha fatto sapere di avere la conferma che l’esercito siriano ha usato le armi chimiche contro le forze dell’opposizione. È stata superata la ‘linea rossa’ fissata dal presidente Barack Obama", scrive The National. "Secondo alcuni, gli Stati Uniti avrebbero deciso di cambiare li-nea dopo aver visto che l’organizzazione libanese Hezbollah e l’Iran svolgono un ruolo sempre più attivo nei combattimenti. La Casa Bianca spera di riequilibrare le forze sul campo per poi spingerle intorno al tavolo dei negoziati". Mentre i combattimenti in Siria si concentrano su Damasco e Aleppo (nella foto, un ribelle ad Aleppo il n giugno 2013), i vicini della Siria alzano i toni. La Giordania, che ospita gli aerei e i missili statunitensi, ha fatto sapere che "si proteggerà dalle minacce di guerra provenienti dalla Siria". L’Egitto ha rotto i rapporti diplomatici con il regime di Assad. L’Iraq ha deciso di spostare migliaia di soldati sul confine con la Siria e la Giordania per prevenire infiltrazioni di combattenti stranieri.

MALI
ACCORDO PRELIMINARE – Cominciati il 7 giugno a Ouagadougou, in Burkina Faso, i colloqui di pace tra il governo maliano e i ribelli indipendentisti tuareg sono terminati solo undici giorni dopo, con un accordo preliminare che garantisce l’integrità territoriale e la laicità del Mali. Inoltre l’esercito maliano potrà riprendere Kidal, la città del nordest del paese che era ancora sotto il controllo dei ribelli tuareg. Il Journal du Jeudi, settimanale satirico burkinabé, scrive che la Francia (intervenuta in Mali a gennaio) ha fatto pressioni perché si raggiungesse presto un accordo in modo da non far slittare le elezioni presidenziali maliane, annunciate per il 28 luglio. Parigi, che ha già cominciato a ritirare i suoi soldati dal paese africano, ha fatto sapere che alla fine di luglio avrà ancora fra i tremila e i 3.500 soldati sul campo. La Francia prevede di passare gradualmente il testimone all’esercito maliano e alla forza di peacekeeping dell’Onu, composta da 12.600 soldati, che entrerà in azione a luglio e includerà le seimila truppe provenienti da diversi paesi dell’Africa occidentale già presenti sul terreno.

ZIMBABWE – MUGABE RINVIA LE EIEZIONI / Dopo aver fissato le elezioni generali al 31 luglio, il presidente Robert Mugabe ha chiesto una proroga di due settimane fissando la nuova data al 14 agosto. La Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale ha invitato Mugabe ad approvare delle riforme prima di andare alle urne, scrive The Zimbabwean. Al potere da 25 anni, Mugabe si candida per un nuovo mandato presidenziale.

UGANDA
Tasse sui bonifici mobili L’Uganda vuole imporre una tassa del 10 per cento sulle somme di denaro trasferite attraverso il cellulare, un sistema molto comune nel paese. La misura, scrive il settimanale ugandese The Observer, colpirà 8,9 milioni di utenti. Il governo spera così di incassare dodici milioni di dollari all’anno per colmare il buco di bilancio di 214 milioni di dollari creato dalla riduzione degli aiuti dei paesi donatori, i quali hanno ridotto il loro impegno dopo che il primo ministro Amama Mbabazi è stato accusato di corruzione e di appropriazione indebita.

KUWAIT – II 16 giugno la corte costituzionale ha sciolto il parlamento dopo aver invalidato le ultime elezioni legislative, boicottate dall’opposizione.

NIGERIA – II 19 giugno un gruppo di banditi ha ucciso 48 abitanti del villaggio di Kizara, nello stato di Zamfara (nordovest).

SOMALIA – Almeno 15 persone, tra cui quattro stranieri, sono morte il 19 giugno in un attacco di Al Shabaab contro una sede dell’Onu a Mogadiscio.

ASIA & PACIFICO
AUSTRALIA
SYDNEY – A giovani 18-30 anni contratti di sei mesi a 78 mila euro / Da Australia 6 lavori piu’ belli mondo – Tourism Australia offre non più uno, ma ben sei ‘lavori piu’ belli del mondò a giovani dei cinque continenti. Riprende su scala nazionale la campagna di successo del 2009 (vinta dal britannico Ben Southall), in cui 35 mila giovani di 200 paesi si contesero il lavoro di guardiano di un’isola tropicale della Grande barriera corallina australiana: un contratto di sei mesi con un compenso di 78 mila euro per attività come dar da mangiare alle tartarughe o osservare le balene di passaggio.

GIAPPONE
TOKIO – Il nucleare cambia L’8 luglio il Giappone dovrebbe introdurre nuove regole sul nucleare modificando i requisiti di sicurezza previsti per i reattori commerciali, scrive l’agenzia Kyodo. È probabile che entro la fine di luglio quattro fornitori di energia elettrica in Hokkaido, Kansai, Shikoku e Kyùshù chiederanno all’autorità che regola il nucleare una valutazione della sicurezza per riattivare 12 reattori in sei impianti. Le nuove regole, ufficializzate il 19 giugno, obbligheranno per la prima volta le centrali a introdurre misure specifiche contro l’eventualità di incidenti gravi come la fusione del nocciolo di un reattore o uno tsunami eccezionale.
TOKIO – La Sony deve cambiare / Un miliardario statunitense vuole rivoluzionare la Sony, scrive il Guardian. Si tratta di Daniel S. Loeb, fondatore dell’hedge fund Third Point e noto a Wall Street per le sue battaglie con i vertici delle aziende in cui investe. Loeb, spiega il quotidiano, ha "silenziosamente accumulato una quota del 7% nel capitale della Sony, diventando uno dei principali azionisti". Secondo l’investitore, il gruppo dovrebbe scorporare la sua produzione cinematografica, quella musicale e il ramo assicurativo, perché sono le unità più redditizie. Invece, l’unità elettronica, sconfitta dal-la concorrenza, va ristrutturata. Loeb potrebbe innescare "una battaglia in grado di sconvolge-re la cultura aziendale giapponese". In passato, perfino "i grandi investitori giapponesi hanno incontrato ostacoli quando proponevano cambiamenti nelle aziende, figuriamoci il capo di un hedge fund straniero".

MONGOLIA – Presidenziali alle porte / Il 26 giugno si terranno le elezioni presidenziali in Mongolia e il presidente uscente Tsakhia El-begdorj è il favorito. Il potere politico è nelle mani del primo ministro e del parlamento, ma il presidente è a capo dell’esercito e ha il potere di veto sulle leggi. Elbegdorj, candidato del Partito democratico, è stato uno dei leader del movimento che ha portato alla fine del dominio sovietico nel 1990. Il principale sfidante è BatErdene, del Partito popolare mongolo, erede del Partito comunista al potere per 70 anni, scrive The Diplomat.

AFGHANISTAN
KABUL – "Poche ore dopo aver inaugurato a Doha, in Qatar, l’ufficio per i colloqui di pace, i taliban afgani hanno attaccato un convoglio statunitense; nel frattempo il governo di Kabul sospendeva i colloqui con gli americani sulla cooperazione militare. Nella migliore delle ipotesi si è trattato di un preludio burrascoso ai negoziati di pace", commenta il New York Times. L’apertura dell’ufficio di Doha, avvenuta il 18 giugno, era attesa da tre anni e Washington si è detta pronta ad avviare colloqui diretti con i taliban. Un annuncio non molto gradito da Kabul, le cui forze armate poche ore prima avevano ricevuto formalmente dagli statunitensi la gestione della sicurezza nel paese. Il 19 giugno, infatti, il governo afgano ha deciso di sospendere i colloqui con gli Stati Uniti nell’ambito dell’accordo di sicurezza bilaterale e ha annunciato che non parteciperà ai negoziati con i taliban a meno che non siano condotti da Kabul. L’accordo, scrive Al Jazeera, serve a fornire una cornice strategica alla permanenza dei militari statunitensi in Afghanistan dopo il ritiro formale delle truppe dal paese, previsto entro la fine del 2014. Il motivo della sospensione, ha spiegato Aimal Faizi, il portavoce del presidente afgano Hamid Karzai, è "la contraddizione tra quello che il governo statunitense dice e quello che fa in merito ai colloqui di pace". In particolare, ha aggiunto Faizi, "al presidente Karzai non piace il nome che i taliban hanno dato all’ufficio. Rifiutiamo la dicitura ‘Emirato islamico d’Afghanistan’ perché non esiste. E gli Stati Uniti lo sanno". Ma non è solo una questione di nome, spiega il New York Times: mentre per le autorità di Kabul l’ufficio di Doha è solo un "indirizzo" dove avviare i colloqui da spostare poi in Afghanistan, i taliban lo descrivono come un ufficio politico a tutti gli effetti, "dove ricevere i rappresentanti della comunità internazionale, interagire con i mezzi d’informazione e, se necessario, incontrare i funzionari afgani". È probabile, quindi, che il vero scopo dei taliban sia essere riconosciuti come un’alternativa al governo Karzai sostenuto dagli occidentali. Sull’attentato al convoglio statunitense, in cui sono morti quattro marines, Al Jazeera commenta: "Sembra che i taliban vogliano mantenere una doppia strategia: quella diplomatica e quella militare".

TAIWAN – Adultere nel mirino / All’inizio dell’anno la ministra della cultura Lung Yingtai ha criticato la legge che punisce gli adulteri con condanne fino a un anno di reclusione. La legge è un retaggio del codice penale tedesco adottato dalla Repubblica cinese negli anni trenta e punisce soprattutto le donne. Questo perché, se la denuncia è ritirata, il caso è chiuso e nella maggior parte dei casi sono le donne a rinunciare alla causa perché i mariti sono la fonte di sussistenza della famiglia. La custodia dei figli è un altro elemento decisivo. Così il 50 per cento delle donne ritira la de-nuncia, contro il 23 per cento degli uomini. Secondo un sondaggio commissionato dal ministro della giustizia, favorevole alla legge, l’82,2 per cento dei taiwanesi vuole mantenerla, scrive Asia Sentinel.

PAKISTAN – II 16 giugno 14 studentesse sono morte in un attentato a Quetta. Altre 11 perso-ne sono morte in un attacco all’ospedale dove erano state trasportate le ragazze ferite. Il 18 giugno 27 persone sono morte in un attentato a Shergarh, nel distretto di Mardan.
COREA DEL NORD – II 16 giugno il regime ha proposto agli Stati Uniti un dialogo per mettere fine alle tensioni nella penisola

CINA- II governo ha ordinato il 15 giugno alle industrie più inquinanti di ridurre le emissioni del 30 per cento entro il 2017

AMERICA CENTRO MERIDIONALE
NICARAGUA
L’ALTERNATIVA A PANAMA / Il parlamento nicaraguense, controllato dai sandinisti di Daniel Ortega, ha concesso all’azienda cinese Hk Nicaragua Canal Development Investment una licenza di cinquant’anni per progettare, costruire e gestire un canale che collegherà l’oceano Atlantico al Pacifico. La struttura, spiega il Los Angeles Times, costerà 40 miliardi di dollari e offrirà un’alternativa al canale di Panama sia alle aziende statunitensi sia agli esportatori asiatici che vogliono arrivare più rapidamente sulla costa orientale degli Stati Uniti.

AMERICA SETTENTRIONALE
NYC – Il Beatle che spaventò l’America di Nixon e Fbi / EVENTI • Torna in sala, ma solo lunedì 17 giugno, «Usa Vs. John Lennon» di Cristina Piccino / Ritorna in sala (grazie a Lucky Red) The U.S Vs John Lennon , Gli Usa contro John Lennon (2007), il film di David Leaf e John Scheinfeld che racconta da una prospettiva intimamente radicale (i due registi hanno lavorato in complicità con Yoko Ono e perciò hanno avuto accesso a archivi rari) la persecuzione messa in atto contro l’ex Beatle dal governo degli Stati uniti. Sarà possibile vederlo un solo giorno – lunedì 17 – come vuole quella «strategia» dell’evento che sembra oggi l’unica strada per la circuitazione di film altrimenti valutati troppo eccentrici. Non perdetelo, perché è davvero un bel film, e come capita di rado con la sensibilità giusta sa rendere attuale lo spirito di un’epoca, quelle dinamiche del ricatto e del controllo con cui abbattere gli antagonismi politici, tra violenza mascherata da follia individuale e scandali costruiti con abilità.Leaf e Scheinfeld ripercorrono gli anni tra il 1966 il 1976, l’8 dicembre del 1980 davanti al Dakota Building, a New York, Mark David Chapman aspetterà John Lennon con in una tasca un pistola, e nell’altra I l giovane Holden , per sparargli. «Si è capito subito che gli anni Ottanta sarebbero stati un decennio di merda: al loro inizio ammazzarono John Lennon» scriveva su questo giornale ( cfr. il manifesto 17 marzo del 2007 ) Tommaso Pincio – la frase contestualizzata prevedeva una certa autoironia nell’articolo anche nei confronti di sé stessa. E in effetti quegli anni Ottanta erano cominciati da un pezzo, lungo una scia di altri decenni precedenti che hanno innescato quei «pazzi» fanatici fondamentalisti per ammazzare i Kennedy o Martin Luther King mentre migliaia di giovani americani venivano spediti in Vietnam. I Beatles erano un mito in tutto il mondo, e quando nel ’66 Lennon disse parlando dei Beatles: «Adesso a Londra siamo più famosi di Gesù Cristo», aveva ragione, ovviamente. Ma la dichiarazione, che in Inghilterra passò inosservata, scatenerà un vero delirio tra i puritani d’America. Le canzoni dei quattro non vennero trasmesse più alla radio, e in diverse città degli States i loro dischi, poster e foto vennero dati alle fiamme. Questa frase da sé basterebbe a nutrire le follie dell’«esaltato» di turno, però Lennon e Yoko Ono osarono di più. Combattevano la guerra e le bombe coi loro corpi artistici, gli bastava un letto dove farsi fotografare nudi – dal «Bed in » di Amsterdam – per «minacciare» la rivoluzione. E magari spingere le folle di pacifisti verso il candidato democratico McGovern contro Nixon, raccogliendo un fronte allargato di militanti radicali e leader dei movimenti. L’Fbi, ci dice il film, aveva un dossier secretato (quelli che oggi si sono aperti), Lennon era tra i «nemici della democrazia americana», e quando il grado della sua pericolosità diviene intollerabile lo minaccia di espulsione dagli States utilizzando una vecchia storia di droga accaduta in Inghilterra anni prima. Un ricatto, metodo, che però come ci dice il film, sfinisce Lennon che infatti non partecipò alla «Woodstock politica» contro la convenzione repubblicana, assenza determinante secondo il movimento. Debolezza? Paura? Molti dei suoi vecchi fan lo avevano anche accusato di essere diventato troppo radicale, troppo politicizzato per colpa di Yoko Ono, altra storia antica questa delle donne che «rovinano» i grandi geni. Anche se quel ragazzo della working class inglese era stato sempre insofferente, a gradi diversi, a certe regole … Certo è che essere costantemente osservati, spiati, minacciati anche nelle cose più intime, anche quando si esce per una passeggiata fa male. «Se reagisci con violenza il potere sa sempre come batterti» dice Lennon, lui quando il «flower power» non bastava più ne aveva inventato un altro. Ecco perché un pacifista armato di performance radicale, poesia e musica, incarnava agli occhi dei reazionari, di Cia e Fbi e delle multinazionali della guerra un nemico numero 1: cosa è infatti più pericolosamente sovversivo che qualcuno capace di agire profondamente nell’immaginario collettivo?
USA
41,5 – Il sindacato statunitense Veba possiede ancora il 41,5 per cento del capitale della Chrysler. Per comprare questa quota, Fiat sta trattando su un prezzo che oscilla fra i tre e i cinque miliardi di dollari, una differenza non piccola. A breve un tribunale del Delaware dovrebbe esprimersi sul valore di una quota del 3,3 per cento del capitale della Chrysler, fissando un valore di riferimento per l’intero pacchetto. Come ha osservato Fabiano Schivardi su lavoce.info, i soldi richiesti per l’operazione sono solo una piccola parte dell’investimento necessario. Infatti servirà una ristruttura-zione del debito contratto durante la fase di salvataggio della casa automobilistica. Inoltre, il piano di riposizionamento di Fiat-Chrysler nel segmento medio alto della domanda di autovetture ha costi rilevanti: saranno necessari molti investimenti nella progettazione, nel marketing e nella riqualificazione degli impianti. E siamo molto lontani dalla cosiddetta "soglia Marchionne", quei sei milioni di autoveicoli all’anno necessari per essere competitivi nel mercato automobilistico. So-glia più volte evocata dall’amministratore delegato del gruppo torinese. Dobbiamo quindi aspettarci altre opera-zioni di acquisizione-fusione? Se è così, non bisogna sottovalutare i nuovi rischi: la struttura finanziaria dell’impresa nata dalla fusione potrebbe essere troppo fragile, con poca liquidità e un alto indebitamento. In vista di altre potenziali aggregazioni, la differenza tra una struttura finanziaria solida e una fragile potrebbe essere la stessa che c’è tra una preda e un predatore.
UE – G8 I leader degli otto paesi più industrializzati del mondo, riuniti in Irlanda del Nord, hanno firmato un accordo sulla lotta all’evasione fiscale. Tra i provvedimenti ci sono dei controlli sulle società di comodo. È previsto anche l’obbligo da parte delle multinazionali di comunicare quante tasse pagano, e dove, alle agenzie fiscali. I governi si sono accordati anche sull’accesso automatico alle informazioni fi-scali dei loro cittadini.
USA
BIOTECNOLOGIE – Ogm , indeboliti / Le piante transgeniche che con-tengono la tossina insetticida Bt, prodotta dal batterio Bacillus thuringiensis, stanno perdendo efficacia. Sono sempre di più gli insetti che resistono alla tossina. Nel 2005 solo una specie mostrava resistenza alla Bt, contro le cinque di oggi, su 13 analizzate. Per conservare l’efficacia delle piante modificate, scrive Nature Biotechnology, serve un miglior controllo del loro uso.
(Articoli da : Le Monde, The Diplomat, The Observer, Los Angeles Time, NYC Time, Clarin, NuovoPaese, TheZimbabwe, A THE LANCET , Arthritis Care & Research, Nature Biotechnology, NoveColonne, Il Manifesto,)

 

Views: 2

AIUTACI AD INFORMARE I CITTADINI EMIGRATI E IMMIGRATI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.