10667 IN BANGLADESH, GLI ASSASSINI DEL PRÈT-À-PORTER

20130614 02:47:00 guglielmoz

LA MACCHINA DA CUCIRE DEL MONDO .
Prima ancora che il crollo dei laboratori del Rana Piala, a Dacca, uccidesse oltre un migliaio di operai, altri drammi avevano già messo in luce le condizioni di lavoro nelle fabbriche dell’industria tessile bengalese. Come ha fatto il paese a giungere a questo punto? di Olivier Cyran * (Le monde diplomatique giugno 2013
VISIBILE a varie centinaia di metri tutto intorno, la scintillante torre di vetro che si erge solitaria sulla riva del lago Hatirijheel sembra un clone della City di Londra trapiantato nel cuore di una gigantesca bidonville.
È la sede dell’Associazione dei fabbricanti ed esportatori dell’industria tessile del Bangladesh (Bangladesh Garment Manufactures and Exporters Association, Bgmea), l’associazione degli imprenditori del prèt-à-porter.

Contrariamente all’immobile del Rana Plaza, che era totalmente fuori legge in fatto di costruzione e il cui crollo, il 24 aprile, ha provocato la morte di almeno mille centoventisette persone, in gran parte operai dell’industria tessile, la torre del Bgmea non rischia di crollare. Eppure sarebbe solo giustizia: con la sentenza emanata il 19 marzo scorso, l’Alta Corte del Bangladesh ha ordinato la distruzione entro tre mesi del gratta-cielo padronale, costruito illegalmente su un terreno pubblico di cui l’organizzazione si è impossessata senza alcun diritto né titolo, complice il ministero del commercio. Il Bgmea ha presentato appello. A prescindere dall’esito finale della procedura, nessuno immagina che « // tumore cancerogeno di Hatirijheel » come lo chiamano i magistrati, possa nel prossimo futuro ridursi in polvere.
All’ingresso, il visitatore ha diritto al saluto militare degli agenti di sicurezza. A Dacca, dove i turisti sono rari, l’uomo bianco è spesso confuso con un cliente di prèt-à-porter, un negoziante di MANGO, BENNETON o HENNES & MAURITS (H&M), verso cui vigili e portieri devono mostrarsi rispettosi. L’interessato appare felice di questo statuto signorile. La sua considerazione verso l’uomo della strada traspare nel libriccino Dhaka Calling, offerto ai clienti dei grandi alberghi, nel quale figura questa saggia raccomandazione: «Non ridete delle persone che si sono ammalate per povertà, non prendetele in giro».
È il 9 aprile e, a una ventina di chilometri dalla torre del Bgmea, il Rana Plaza è ancora in piedi. Il peggior massacro della storia industriale del Bangladesh non si sarebbe verificato che due settimane più tardi, cionondimeno, già si pone con insistenza la questione della sicurezza e delle condizioni di lavoro nell’industria tessile. Il 7 gennaio scorso, un incendio ha provocato la morte di otto operai di Smart Export Garment, un piccolo stabilimento di trecento lavoratori, nel centro di Dacca: «Avevano tutti meno di 16 anni», assicura Saydia Gulrukh, una antropologa che ha fondato un gruppo di solidarietà con le vittime dell’industria tessile. Un mese e mezzo prima, il 24 novembre 2012, un altro incendio devastava lo stabilimento di Tazreen Fashions a Ashulia, una periferia a nord della capitale, causando centododici morti e un migliaio di feriti, secondo il bilancio ufficiale.
Nei nove piani di Tazreen si accalcavano tre-mila lavoratori, in maggior parte giovani donne giunte dalle campagne più povere, in cerca di una fonte di reddito per le loro famiglie. Con 3.000 takas al mese, l’equivalente di 30 euro, queste ragazze confezionavano, per dieci ore al giorno e sei giorni su sette, i vestiti destinati a prestigiose marche, tra cui Disney, Walmart e il gruppo francese Teddy Smith. I prodotti altamente infiammabili erano stati immagazzinati al pianterreno, vicino al vano scale, a dispetto delle regole di sicurezza più elementari. Poiché le uscite di sicurezza erano state chiuse a chiave per impedire i furti, conformemente agli usi vigenti, le vittime intrappolate dalle fiamme sono bruciate vive o si sono ammazzate lanciandosi dalle finestre. Il loro padrone. Dolwar Hossain, non è mai stato interrogato dalla polizia ed è tuttora in libertà. Viene da chiedersi se per caso la sua appartenenza al Bgmea non sia stata presa in considerazione per garantirgli l’impunità.

I PADRONI HANNO IN PUGNO LE LEVE DEL PAESE
PER CHIARIRE il problema, abbiamo preso appuntamento con il presidente del Bgmea, Atiqul Islam. L’uomo forte dell’economia bengalese – dove l’industria tessile rappresenta dai quattro ai cinque milioni di lavoratori e l’80% delle esportazioni, sicché il paese è il secondo esportatore mondiale di prèt-à-porter dopo la Cina – occupa questo posto da un mese soltanto. La promozione di questo giovane, imprenditore poco noto in questo ambiente, ha sorpreso molti. «È un pesce piccolo, senza esperienza né personalità – dice un professionista del settore. Se lo hanno catapultato alla presidenza, è grazie alla sua duttilità che consente ai pezzi grossi di occupare i primi posti».
Nel dicembre 2012, una commissione ispettiva su iniziativa del Bgmea – iniziativa piuttosto inconsueta, come si può immaginare – identificava quattro stabilimenti ritenuti pericolosi perché costruiti in violazione dei regolamenti edilizi. Tra questi, Rose Dresses Limited, uno stabilimento costruito ad Ashulia e di proprietà di… Islam. Tre mesi dopo, Islam veniva eletto a capo del Bgmea. Se ci si ricorda che la stragrande maggioranza dei cinquemila laboratori di confezione del paese calpestano apertamente la legge, nasce il sospetto che il solo obbiettivo dell’ispezione fosse di «incastrare» il futuro presidente e di fargli sentire la cordiale pressione dei suoi protettori.
Mentre aspetto il capo dei capi, mi viene in mente la storia economica del paese. Anu Mohammed, docente di economia all’università di Jahangirnagar, la riassume così: «Il Bangladesh non è sempre vissuto sotto la tutela del prèt-à-porter. Fino alla metà degli anni ottanta, la prima ricchezza del paese era la coltivazione della iuta. Poi sono arrivati l’FMI e la Banca mondiale. Sotto la loro egida, i piani di privatizzazione e di riduzione della spesa pubblica provocano un decollo della disoccupazione, il ricorso massiccio alle importazioni e il declino delle industrie locali. I burocrati dei grandi partiti politici, gli ufficiali dell’esercito, i graduati della polizia e i figli di buona famiglia si precipitano su questa fortuna insperata». Le esortazioni a investire nell’industria tessile sono irresistibili: manodopera a basso costo, indebolimento dei sindacati per la privatizzazione delle aziende di Stato, soppressione delle tasse doganali sulle importazioni di macchinari destinati all’industria di esportazione. Poi la corruzione farà il resto.
L’Europa e gli Stati uniti, entrambi sedotti, ricompensano questa politica spalancando le porte agli abiti made in Bangladesh. In un discorso pronunciato a Dacca il 21 novembre 2001, Pascal Lamy, all’epoca commissario europeo al commercio, imita il «Je vous ai compris» del presidente francese de Gaulle: «L’Unione europea è disposta a sostenere il Bangladesh nei suoi sforzi per giungere a […] una migliore integrazione nel sistema commerciale mondiale, aprendo nuove possibilità commerciali e favorendo una maggiore penetrazione nel mercato». Dal 2000 al 2012, il volume d’affari dell’industria tessile bengalese sarà più che quadruplicato, passando dal 4,8 ai 20 miliardi di dollari. Goldman Sachs esulta: nel giugno 2012, la banca di New York cita il paese, uno tra i più poveri del mondo, in testa alla sua dista dei «NEXT ELEVEN» suscettibili di raggiungere le potenze emergenti dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica).
La gallina dalle uova d’oro partorisce una nuova élite, che viaggia in fuoristrada 4×4, cena al Pizza Hut (il massimo dello snobismo a Dacca), gioca a golf e manda i figli a studiare negli Stati uniti. «Il prèt-à-porter è la promessa del denaro facile, un mezzo redditizio per investire in qualsiasi settore o brigare per un seggio in parlamento», aggiunge Anu Mohammed. «Ufficialmente, su trecento deputati, ventinove sono proprietari di uno stabilimento tessile. In realtà, se si tiene conto di quanti si nascondono dietro un prestanome, sono molti di più. In Bangladesh è difficile trovare uomini di potere che non siano legati al mondo del tessile. Ed è il 3gmea che tiene in pugno le leve del comando del paese.»
Sono tuttora nella sede dell’organizzazione imprenditoriale. Mentre Islam si fa aspettare, uno dei suoi collaboratori mi fa compagnia nel salone vicino all’ufficio del presidente Hassan Shahriar Chowdhury è appena rientrato dagli Stati uniti dove dice di aver collaborato con un gruppo di congressisti per una «vicenda dicono-terrorismo». Questo fan di Angela Merkel, ufficiale d’aviazione, non possiede uno stabilimento tessile – almeno è quanto afferma. Ma :osa ci fa al Bgmea? Elude la domanda ma si lice molto felice di chiacchierare con un giornalista francese, «lo adoro la Francia. Sa che 5 Stato bengalese prevede di acquistare due sommergibili? Di solito, noi acquistiamo gli armamenti dalla Cina, lo conosco bene la prima Ministra, Sheik Hasina. Quindi le ho sussurrato all’orecchio che sarebbe meglio acquistare sommergibili francesi. Sono più costosi, ma c’è meno corruzione, non crede?». Di fronte allo scetticismo del suo interlocutore, Chowdhury ambia argomento aprendomi con noncuranza la sua agenda di indirizzi. «Visto che è un giornalista, le piacerebbe incontrare mia cugina, che è ministro della condizione femminile? Posso anche farle incontrare i direttori dei grandi giornali del Bangladesh, siamo amici.»
L’arrivo di Islam interrompe questo scambio promettente. Seguito da vicino da cinque consiglieri, il capo dei capi annuncia di aver cambiato idea: l’appuntamento è annullato. «Lei deve essere accreditato dal ministero dell’Interno – dice con aria cupa – in caso contrario, non posso riceverla, soprattutto su argomenti così sensibili.» Avviandomi verso l’ascensore, noto il monito incollato sul vetro dietro il quale si danno da fare manager e segretarie: «Parlate meno, lavorate di più».
Per valutare il potere del Bgmea, forse le donne sopravvissute di Tazreen mi aiuteranno ad apprezzare meglio la situazione. Guidato da Sherin, il perno della Federazione nazionale dei lavoratori del tessile (National Garments Wor-kers Federation, Ngwf), un sindacato vicino al Partito comunista, partiamo per Ashulia. Poco a poco, l’inverosimile caos urbano di Dacca diventa un paesaggio lunare, irto di camini che vomitano fumo nero in cui adolescenti vestiti di stracci infornano lingotti di terra. I mattoni che escono dai forni serviranno a costruire case per le classi medie, che si scorgono in lontananza, ma anche gli stabilimenti industriali che si moltiplicano più a nord. Lasciando la strada, ci si av¬via lungo un sentiero sterrato. In fondo, la carcassa carbonizzata di un cubo in calcestruzzo rivestito di impalcature fatti di bambù: benvenuti a Tazreen Fashions, che poco fa era ancora il fornitore ufficiale delle camicie di Disney.
Nasreen ha 25 anni ma ne dimostra quaranta. Contrariamente ad altre donne sopravvissute, che sono precipitosamente rientrate nel loro villaggio, non ha lasciato Nishchintapur, il quartiere-dormitorio dalle stradine quiete e quasi dolci che si stende sotto la fabbrica. Il 24 novembre 2012, alle 18.50, Nasreen era curva sulla sua macchina da cucire, al secondo piano, quando ha sentito la sirena, «il caporeparto ci ha detto che si trattava di un’esercitazione, che dovevamo rimanere ai nostri posti – racconta Nashreen con voce atona -. Poi l’allarme ha suonato una seconda volta e allora ci ha preso il panico. L’odore di bruciato cominciava a farsi sentire. Anche se il caporeparto continuava a impedirci di muoverci, ci siamo messe a correre. C’erano due vie di uscita, una aperta, l’altra chiusa. La scala di accesso dalla porta aperta era già in fiamme. Se avessimo potuto prendere l’altra, che non bruciava, saremmo tutte ancora vive». Ci sono anche finestre chiuse a chiave. Con alcune compagne, Nasreen riesce ad aprirne una e a buttarsi nel vuoto. Ne uscirà con una gamba rotta, incubi che la tormenteranno per tutta la vita e la paura tremenda di dovere, un giorno o l’atro, rimettere piede in una fabbrica.
Eppure non ha scelta. Finora ha ricevuto, come unico aiuto, «venticinque chili di riso, venticinque chili di cipolle e un litro d’olio». Poiché il povero salario di suo marito non basta a nutrire la famiglia, Nasreen dovrà vincere le sue insonnie e sedersi di nuovo davanti alla macchina da cucire. Nel Bangladesh, quando una fabbrica brucia o crolla, è il Bgmea che indennizza le vittime. Le tariffe sono ridicole: 100.( takas (1.000 euro) per ogni ferito a titolo di ai sanitario, 600.000 takas (6.000 euro) per c cadavere, a titolo di compenso per la famiglia Né il datore di lavoro né la giustizia sono ce volti. Soltanto i più fortunati percepiranno briciole distribuite dal Bgmea, che stabili; l’elenco delle vittime. Come per la maggior parte delle assunzioni, che si fanno oralmente senza contratto, molti sopravvissuti non hanno alcun documento che attesti la loro buona fede Dopotutto, chiunque può rompersi la gambe cadere in un camino acceso.
Nel caso di Tazreen, la vicenda s’inasprì? ulteriormente per l’impossibilità di identificare i corpi, troppo danneggiati o ridotti in ceni Secondo Saydia Gulrukh, che segue da vi no le famiglie abbandonate, almeno ventisei operaie scomparse nell’incendio sono state escluse dall’elenco delle vittime. Si parla anche di una cifra da cinque a dieci volte superiore. bilancio ufficiale non ha nulla a che vedere c quanto è successo. Ognuno di noi ha colleghe che non sono mai uscite vive dalla fabbrica che il Bgmea si rifiuta di riconoscere, con il pretesto che non ne sono rimaste tracce – insorge Shilpee, un’altra donna sopravvissuta – Ma che tracce puoi lasciare se sei morta e se la famiglia non ne è nemmeno al corrente?»
Mentre Tazreen bruciava ancora, il governo nella persona della sua prima ministra, imp tava l’incendio a una «azione di sabotaggi* – cosa che tutti i bengalesi hanno immediatamente interpretato come il pretesto per tirare ballo gli islamisti. Questa sorprendente accuse che nessun altro avrebbe sostenuto in seguito non tendeva forse a tutelare il proprietario del fabbrica e il Bgmea? Anu Mohammed non dubbi. La prova migliora – dice – è che «in I dei conti, nulla è successo: nessuna indagine nessun mandato di arresto contro il padrone ( suoi capomastri, nessun provvedimento per ti telare i lavoratori contro i rischi d’incendio. A esclusione delle stesse vittime, nessuno pei sa di chiedere conti al datore di lavoro, Dolwar Hossain. Da mesi il suo nome è scomparso d. giornali, come se non fosse mai esistito».

CARREFOUR: «STIAMO MOLTO ATTENTI!»
ANCHE I SUOI clienti esteri lo hanno car celiato dalla propria memoria. Il 15 aprile su iniziativa del sindacato internazionale IndustriALL, e di una rete di Ong, i marchi che ; approvvigionano da Tazreen sono stati invita a Ginevra a un incontro in vista della predisposizione di un fondo di risarcimento. Disney h declinato l’invito: gli amici di Donald dicono c aver fatto le valigie dopo l’incendio, sostituendo il Bangladesh con la Cambogia e il Vietnam, i quindi se ne lavano le mani. Altro rifiuto categorico da parte di Walmart, che in un primo tempi ha negato qualsiasi legame con Tazreen, poi h; fatto voltafaccia scaricando la responsabilità della vicenda sui consulenti che avevano garantito la conformità di questa fabbrica modello Quanto al presidente direttore generale (PDG DI TEDDY SMITH, PHILIPPE BOUDOUX, indaffarate a vendere del «LOOK ROCK’N’ROLL» a 163 euro nel suo negozio parigino dell’Opera, egli non è rag-giungibile, né al telefono né tramite posta elettronica. A forza di insistere, siamo riusciti a par-lare con una sua collaboratrice e a strapparle questa informazione: "Siamo una piccolissima azienda, non possiamo permetterci di andare a Ginevra…».
Quanto al gruppo CARREFOUR, finge di cadere dalle nuvole quando lo contattiamo. Il numero uno francese della grande distribuzione, che ha una sua sede a Dacca, (sotto il marchio di CARREFOUR GLOBAL SOURCING Bangladesh), ammette certo di essere stato cliente di TUBA GROUP, l’azienda di Hossain, ma nega con forza di aver mai fatto un’ordinazione a Tazreen. Vero è che il fornitore bengalese possedeva almeno dieci fabbriche e che le tee-shirt vendute da CARREFOUR non provengono necessariamente dalla fabbrica che è per ora la più letale. Ma stando al parere di un bravo conoscitore del tessile bengalese, questo argomento non vale niente: «Quando un cliente fa un ordine, non contatta questo o quello stabilimento, ma un fornitore. Ed è lui che firma il contratto, la carta sociale, etica, ambientale, e tutto il resto. Nel caso di un ordine importante, com’è inevitabilmente il caso con un cliente come Carrefour, il fornitore suddivide la produzione tra tutti i siti di cui dispone. Nel nostro caso, Tazreen serviva da soluzione ultima quando le altre unità di Tuba Group erano sovraccariche. Carrefour non poteva non sapere. Peraltro, per quali ragioni avrebbe cancellato dalla sua lista quella fabbrica, che nulla distingueva dalle altre?».
Ma il gigante francese non demorde. «Abbiamo i nostri parametri e le perizie dei nostri consulenti, ragione per cui abbiamo formalmente cancellato Tazreen come luogo di produzione. Stiamo molto attenti!», protesta BERTRAND SWIDERSKI. direttore dello sviluppo a lungo termine Saremmo stati felici di poter consultare queste famose perizie, ma ci dicono che, purtroppo, sono «riservate».

«AL PRIMO VOLANTINO, SAREMMO FERMATI DALLA POLIZIA»
IN COMPENSO, Swiderski accetta volentieri di comunicarci la «carta sociale» che il suo gruppo è fiero di far sottoscrivere ai fornitori esotici. Questo documento risplende come una carta regalo sulla strage delle sarte bengalesi. Alla voce sul -rispetto della libertà di associazione», la carta di CARREFOUR stabilisce espressamente, ad esempio, che i lavoratori hanno il diritto di aderire al sindacato di loro scelta o di crearne uno, e di procedere a negoziati collettivi, senza il preventivo accordo della direzione».
Immaginiamo che Hossain abbia firmato ben volentieri questa pia esortazione. Nelle fabbriche del suo gruppo, ogni forma di vita sindacate era rigorosamente vietata, come è prassi in Bangladesh.
Ne è prova il racconto di Faizul (1). Questo ex operaio di Tazreen ci riceve in una stanza nuda coperta da un tetto di lamiere in una viuzza in terra battuta di Nishchintapur. È la sede locale della NATIONAL GARMENTS WORKERS FEDERATION (NGW.F), il sindacato di cui egli è il segretario per il settore di Ashulia. Segretario clandestino, ovviamente. Della favola uscita dai cervelli della direzione dello sviluppo sostenibile di CARREFOUR, egli ci dà una versione più lapidaria: «In fabbrica, se tu pronunci la parola "sindacato", ti buttano fuori immediatamente e dopo non ritroverai mai un posto di lavoro. A Tazreen, eravamo un centinaio di operai sindacalizzati, ma in segreto. Non se ne parlava mai sul lavoro».
Dopo l’incendio, il suo locale è stato rapida-mente invaso dagli assembramenti spontanei dei sopravvissuti, decisi a battersi ma disperatamente impotenti quanto all’azione. «Tutti gli operai che ci conoscevano sono venuti per condividere il loro lutto. Cinquantatré tra i nostri compagni sono morti nell’incendio. Eravamo furenti contro il padrone che li ha portati alla morte, e contro il governo e il BMEA che lo proteggono. Ma non abbiamo saputo che cosa fare». Distribuire un volantino, organizzare un’assemblea? Lanciare un appello allo sciopero nelle altre fabbriche? FAIZUL ci lancia uno sguardo pieno di dolore, a disagio di fronte all’ingenuità del suo ospite francese: «Nulla di questo è possibile qui. Al primo volantino ci faremmo fermare dalla polizia. E non ritroveremmo mai più un lavoro».
Quando gli chiedo quali sono le sue attività sindacali dopo l’incendio… ci dice di «aver preso contatto con operai di altri stabilimenti affinché si controlli che le porte e le uscite di sicurezza siano lasciate aperte, come si è impegnato a fare il padrone». E se non lo sono? "In quel caso i compagni ci avvertono con un sms. Qui abbiamo tutti un cellulare, ed è così che comunichiamo tra di noi». Difficile capire se Faizul non si auguri interventi più aperti: parla in presenza e sotto il controllo di un dirigente del sindacato venuto da Dacca. Finiamo il tè allo zenzero offerto dal nostro ospite. Prima di riaccompagnarmi, mi dà la fotografia con la carta d’identità di sua moglie: operaia a Tazreen come lui, è morta il giorno dell’incendio, gettandosi dal terzo piano.
Si chiama «casa degli acquisti» il luogo strategico che funge da intermediario tra i marchi esteri e i fornitori locali. Ce ne sono all’incirca duecento nel Bangladesh. Quella di Nizam Uddin si fa un punto d’onore che tutti i suoi clienti – per la maggior parte europei – «si rechino nel Bangladesh per vedere di persona come funzionano le fabbriche. Li accogliamo, li coccoliamo, li riceviamo molto bene». Al primo piano, una decina di operatori telefonici tratta le ordinazioni con toni smorzati, mentre nella cantina tre sarti confezionano in silenzio i modelli destinati al fabbricante, secondo le specifiche tecniche del cliente: «il nostro principale cliente ha ridotto i suoi ordini, sicché siamo costretti a contattare nuovi compratori. È la prima volta che ci succede in tredici anni», sospira NIZAM UDDIN. Su un espositore del suo ufficio, l’elegante direttore espone le coppe e le medaglie che ha vinto al golf, la sua «passione».
È sorprendente che la sua azienda funzioni a pieno regime mentre l’opposizione islamista del Jamaat-e-lslami ha decretato per questa mattina un giorno di HARTAL (sciopero), svuotando le vie di Dacca e bloccando l’attività economica. Uddin alza le spalle: «Questo non ci preoccupa. A prescindere dalle loro posizioni, i manifestanti non attaccano i nostri interessi. A volte bruciano le macchine o i negozi, ma lasciano stare le fabbriche. Il Bgmea ha aderenti in tutti i grandi partiti. Oggi, appoggia la lega
Awami della prima ministra Sheikh Hasina, ma nondimeno va d’accordo con i nazionalisti del Bnp (BANGLADESH NATIONALIST PARTY), o persino con gli islamisti del Jamaat».
Il campione di golf ci presenta uno dei suoi collaboratori, GEORGES PAQUET. Questo espatriato francese sessantasettenne fuma le Gitane che porta da Dubai dove vive metà dell’anno. Giunto nel Bangladesh nel 1994, dice di essere «alla fine della sua carriera», e si permette una libertà di linguaggio rinfrescante: «Qui si fa di tutto, comprese le mutande per incontinenti che si vendono in Francia nella grande distribu¬zione. Il problema è che i miei clienti schiacciano sempre di più i prezzi. Cosa vogliono? Che la gente lavori gratuitamente? I marchi europei hanno per lo meno un margine di sette, vale a dire che rivendono i nostri prodotti a un prezzo sette volte superiore al prezzo di acquisto, per non dire dieci volte. La volontà di profitto non ha limiti. Vecchi clienti ci lasciano da un giorno all’altro perché un concorrente gli offre 10 centesimi di meno su un articolo. Vige una incredibile ipocrisia. Si figuri che mentre i dirigenti di H&M incontravano Sheik Hasina per reclamare un miglioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche del paese, i loro dipendenti trattavano un calo del 15% sul prezzo di vendita dei loro fornitori. "Arrangiatevi come volete, il resto non ci interessa", ecco la loro filosofia.»
A proposito dell’incendio di Tazreen, Paquet alza gli occhi al cielo e trattiene il respiro. «Conosco Dobwar Hossain da dieci anni. È un uomo perbene, un uomo pio: ha pagato di tasca sua la moschea vicino a casa sua. All’inizio, ero il suo secondo migliore cliente, ma il successo gli ha dato alla testa. Ha acquistato una fabbrica dopo l’altra, una dozzina in tutto, poi si è ritrovato padrone di una azienda che faceva 65 milioni di volume d’affari. Ha perso il controllo. Quando Tazreen è bruciata, non ci aveva messo piede da un anno». L’impunità del suo amico non pone alcun problema a quel veterano delle mutande assorbenti. «Non credere che se la passi bene. Tazreen gli è costato un occhio della testa. Dolwar è pieno di debiti. Non gli resta più un solo cliente, e tutti gli voltano le spalle, persino i suoi amici del Bgmea. Cosa si vuole? Che vada in carcere?». Peccato che questa domanda pertinente non sia rivolta alla riflessione di Rehanno la cui immagine mi viene in mente in questo attimo: da quando si è infilata nella conduttura d’aria del quarto piano per lanciarsi nel vuoto, questa giovane operaia di Tazreen ha perso un braccio e una gamba. Adesso, utilizza una carriola a mo’ di sedia a rotelle.

«NON CAMBIERÀ NULLA FINCHÉ QUESTO SISTEMA NON SARÀ SMANTELLATO»

I SOPRAVISSUTI dell’ecatombe industriale di Ashulia non intravedono un futuro ridente per i loro colleghi delle fabbriche vicine. «Altre catastrofi sono prevedibili, forse persino peggiori di questa», teme un giovane sopravvissuto dal braccio avvolto in un panno sporco. Anche Saydia Gulrukh condivide questo pronostico: «Tazreen non ha modificato di un pelo la situazione rovinosa degli operai dell’industria tessile, a causa dell’indifferenza delle élite verso la sorte degli operai. Dobbiamo quindi aspettarci altri orrori. Certamente ci saranno alcuni provvedimenti cosmetici affinché Bgmea rassicuri i suoi clienti esteri e questi rassicurino i propri clienti. Ma non cambierà nulla finché questo sistema non sarà smantellato, sciolto e ricostruito su basi filosofiche nuove». Due settimane dopo, la carneficina del Rana Plaza contava un nume¬ro di morti dieci volte superiore rispetto a quello dell’incendio di Tazreen, suscitando l’epitaffio del ministro bengalese delle finanze, Abul Maal Abdul Muhith: «Non credo che si tratti di un fat¬to molto serio. Soltanto un incidente, null’altro». Di OLIVIER CYRAN
(1) Il nome è stato cambiato. (Traduzione di M.-G. G.)

 

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