10581 Osservazioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale.

20130403 14:20:00 guglielmoz

Osservazioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale nel conflitto tra il Presidente della Repubblica e i magistrati di Palermo

Lo scorso anno il Presidente della Repubblica, dopo essere stato intercettato telefonicamente nel corso delle indagini riguardanti la c.d. trattativa Stato-mafia che vedeva indagato tra gli altri l’ex Ministro dell’Interno, Nicola Mancino, ha sollevato un conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte Costituzionale contro la Procura di Palermo.

Il conflitto è stato risolto dalla Corte Costituzionale in favore del Presidente della Repubblica lo scorso mese di dicembre, mentre la sentenza è stata depositata solo un mese più tardi, a gennaio.
Essa è stata, tuttavia, scarsamente presa in considerazione dal sistema mediatico, come sempre impegnato in tutt’altro, eccezion fatta per il commento del Prof. Cordero che, nell’immediatezza della decisione (vale a dire senza conoscerne le motivazioni), ha legittimamente criticato su Repubblica la decisione della Corte, in particolare l’uso improprio che ha fatto dell’art. 271 del Codice di Procedura Penale in tema di intercettazioni telefoniche.
Premesso che era già stato indicato in passato come fosse ben possibile che la Corte Costituzionale arrivasse a conclusioni favorevoli al Presidente della Repubblica e premesso ulteriormente che nella dottrina costituzionalistica le posizioni favorevoli ai magistrati palermitani erano minoritarie, ancorché molto autorevoli trattandosi di giuristi come Zagrebelsky e Lorenza Carlassarre, va fin dal principio osservato che la sentenza della Corte, letta per intero, lascia non solo un senso di amaro in bocca per il modo in cui la Corte è stata costretta (poi diremo da chi) ad affrontare il tema, ma anche molto banalmente per l’impressione di un testo involuto, poco piano e non chiaro, volto dunque a risolvere una contraddizione di sistema ai limiti dell’insanabilità. In altre parole, la Corte è stata chiamata ad assolvere un compito semi impossibile con gli strumenti a disposizione, compito che avrebbe dovuto piuttosto essere svolto dal legislatore molto tempo prima.
Ricapitoliamo brevemente le posizioni delle parti, così come ricavabili oltretutto dalla sentenza stessa della Corte:
1) il Presidente della Repubblica, nel sollevare il conflitto di attribuzioni, aveva richiamato l’art. 90 della Costituzione in tema di irresponsabilità del Presidente della Repubblica salvo che per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione e l’art. 7 della Legge 219 del 1989 relativo al divieto di intercettazione del Presidente della Repubblica a meno che non ne sia disposta la sospensione dalla carica dalla Corte Costituzionale, sostenendo dunque che nel nostro ordinamento vigesse un divieto generale senza eccezioni di intercettazione telefonica del Presidente della Repubblica; in seguito, l’Avvocatura dello Stato ha precisato più puntualmente gli argomenti sollevati dal Quirinale, richiedendo alla Corte Costituzionale di dichiarare che le intercettazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, quantunque avvenute casualmente poiché intercettato direttamente era un soggetto diverso dal Presidente e non penalmente rilevanti, dovessero essere interrotte e, qualora non fosse stato così, dovessero essere distrutte immediatamente sotto il controllo del giudice, ai sensi dell’art. 271 del Codice di Procedura Penale in quanto intercettazioni avvenute al di fuori dei casi consentiti dalla legge (secondo la dizione del primo comma dell’art. 271), senza pertanto essere sottoposte al vaglio di un’apposita udienza camerale e senza dunque che le controparti interessate potessero accedere al testo delle intercettazioni;
2) la Procura di Palermo, dopo aver richiesto che il conflitto di attribuzioni fosse dichiarato inammissibile, ha domandato in subordine che non fosse accolto nel merito sostenendo, in buona sostanza, che le intercettazioni in questione erano avvenute soltanto causalmente (4 casi a fronte di oltre 9.000 conversazioni telefoniche di Mancino intercettate) mentre era sottoposta a controllo l’utenza di Nicola Mancino; che nel nostro ordinamento non vige un divieto di intercettazione indiretta del Presidente della Repubblica; che l’art. 7 della Legge 219 non prende in considerazione il caso ora richiamato; infine, che, in via generale, non esiste una prerogativa presidenziale di immunità totale dal controllo penale, essendo questa una prerogativa tipica delle monarchie assolute e non degli Stati costituzionali di diritto.

Ciò premesso, vale la pena osservare l’opera di "taglio e cuci" che la Corte Costituzionale ha dovuto effettuare sul sistema per dare ragione al Presidente della Repubblica, sensazione, questa, che ben si ricava fin dall’inizio della lettura delle considerazioni in diritto della Corte.
Innanzitutto, la Corte parte da un assunto certamente fondato, ossia la necessità di adoperare il metodo dell’interpretazione sistematica nella risoluzione del caso, metodo che viene privilegiato rispetto a quello dell’interpretazione letterale delle norme ritenuto (quest’ultimo) più primitivo del primo. Ora, che la Corte, chiamata a risolvere un conflitto non su una singola competenza presidenziale ma su un intero regime di attribuzioni presidenziali (come era stato osservato legittimamente da Zagrebelsy e più modestamente in passato da noi), adotti il metodo dell’interpretazione sistematica dell’ordinamento costituzionale non lascia perplessi. Ciò che provoca perplessità è il fatto che la Corte non abbia adottato un approccio misto, cioè sì sistematico nella ricostruzione del sistema normativo ma anche letterale, osservando ad esempio le differenze di formulazione esistenti tra l’art. 68 della Costituzione che parla di immunità dei parlamentari e l’art. 90 che per contro si riferisce all’irresponsabilità del Presidente della Repubblica, e soprattutto tralasciando di utilizzare un metodo storico (nient’affatto primitivo) di ricostruzione dei dettati normativi ora citati, che viceversa avrebbe aiutato la Corte a cogliere alcuni aspetti di differenza sostanziale tra il regime di tutela penale dei parlamentari e il regime di tutela penale del Presidente della Repubblica.
In pratica, tanto in questo caso quanto nel resto della sentenza, la Corte ha impiegato un metodo definibile "ellittico" per risolvere il conflitto, avvicinando la posizione del Presidente a quella dei parlamentari, ma negando in pari tempo che il loro regime sia assimilabile, e affermando ad esempio che confermava la sua precedente giurisprudenza in materia di prerogative e immunità delle alte cariche dello Stato (come la sentenza di censura sul lodo Alfano che imponeva l’adozione di una legge costituzionale per riconoscere alle più alte cariche dello Stato prerogative e immunità costituzionali non ricavabili esplicitamente in Costituzione perché, in caso contrario, si avrebbe una rottura del principio di eguaglianza previsto dall’art. 3 della Costituzione oltreché una violazione dell’art. 138 sulle procedure di revisione costituzionale), ma che essa non fosse richiamabile nel conflitto in questione quando era oltremodo evidente che il regime dell’immunità del Presidente non è definito in dettaglio, contrariamente a quanto accade con l’art. 68 per i parlamentari, dall’art. 90 della Costituzione.
La Corte ha, dunque, omesso di considerare che la differenza di formulazione tra l’art. 68 e l’art. 90 ha un significato storico-politico e, di conseguenza, giuridico. Mentre i parlamentari godono dell’insindacabilità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni e godono di alcune immunità senza che il Parlamento abbia previamente autorizzato misure coercitive o intrusive nei loro confronti, il Presidente della Repubblica gode, dice l’art. 90 della Costituzione, dell’irresponsabilità per gli atti compiuti (già il fatto che la tutela dei parlamentari sia preventiva, mentre quella presidenziale sia per gli atti compiuti, lascia intendere che i due regimi non sono affatto assimilabili). Seguendo il metodo di ragionamento della Corte Costituzionale, allora, dovremmo concludere che le differenze di formulazione letterale risultanti dalla lettura degli artt. 68 e 90 della Costituzione dipendono da un uso puramente casuale delle parole impiegate dal Costituente. Il che è un assunto, con ogni evidenza, assurdo, sia perché il legislatore costituente era sufficientemente attrezzato in termini di scienza giuridica per evitare un simile difetto nel testo della Costituzione, sia perché in verità il legislatore costituente, redigendo la Costituzione, aveva ben chiaro la storia, appunto, il valore e le funzioni degli istituti in questione.
Come abbiamo già ricordato in passato, mentre il regime immunitario previsto dall’art. 68 della Costituzione si spiega in considerazione, tra le altre cose, del carattere primario della legittimazione del deputato scaturente dalla volontà popolare, altrettanto non può dirsi per il Presidente della Repubblica la cui legittimazione è viceversa di secondo grado, in quanto non eletto dal popolo. Inoltre, le immunità di cui gode il deputato discendono evidentemente dall’esigenza, marcatamente funzionale, di assicurare il libero esercizio delle sue funzioni (così garantendo peraltro la stessa insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati), mentre andrebbe ad ogni modo osservato che sempre l’art. 68 della Costituzione stabilisce delle ipotesi di privazione della libertà personale del deputato quali, per esempio, l’esecuzione di una sentenza di condanna penale passata in giudicato e l’arresto in flagranza di reato. Altrettanto non si ricava dalla lettura dell’art. 90 della Costituzione quanto al Presidente della Repubblica. Perché? Perché evidentemente, quale che sia l’interpretazione della Corte, la Costituzione non ha inteso garantire al Presidente della Repubblica uno status analogo a quello del parlamentare, assicurandogli piuttosto che egli non verrà processato, e quindi punito, per reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni, fatta eccezione per l’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione, il che vuol dire che egli non è processabile, né punibile, in linea generale, per i reati funzionali, fatta eccezione per i due reati ora indicati oltre ai reati compiuti a titolo privato. Ciò porta alla conclusione inevitabile che atti d’indagine devono essere possibili ove si voglia scoprire eventuali reati finalizzati a sovvertire ad esempio l’ordine costituzionale o anche gli stessi reati extrafunzionali.
Al contrario, la Corte è arrivata a sostenere che, alla luce del sistema nella sua globalità, il Presidente dispone, per la sua attività funzionale, del più ampio diritto alla riservatezza, che comporta conseguentemente un divieto generale di intercettazione telefonica del Presidente, a prescindere persino dal fatto che l’intercettazione sia avvenuta fortuitamente e indirettamente.
Cosa avverrebbe, tuttavia, se in gioco fosse in qualche modo la responsabilità penale del Presidente della Repubblica? Partendo dall’assunto che la Corte non era chiamata a giudicare sul punto, visto che non era questo il tema del conflitto, avendo la Procura di Palermo riconosciuto l’irrilevanza penale delle intercettazioni del Presidente, la Corte non ha affrontato il punto. In altri termini, nel decidere sul conflitto, essa ha fatto saltare ogni connessione tra ricerca del mezzo di prova e responsabilità penale dell’imputato, limitandosi ad affermare che, comunque sia, le intercettazioni telefoniche erano proibite dall’ordinamento (da quale norma di rango costituzionale seguendo l’orientamento prevalso nel caso del lodo Alfano?) in funzione del diritto alla riservatezza del Capo dello Stato, diritto che finirebbe persino per prevalere in caso di conflitto tra attività compiuta dal Presidente a titolo funzionale e attività compiuta a titolo privato. Ovverosia, il Palazzo del Quirinale non è penetrabile, per via di intercettazione telefonica, neanche là dove si tratti di accertare reati compiuti dal Presidente a titolo di soggetto privato. Salta immediatamente agli occhi la gravità di una simile affermazione, quando per contro è ben possibile, sia pure caso per caso, far valere la responsabilità extra funzionale del Presidente. Per questa strada, viene fatto saltare il diritto di difesa, definito inviolabile dall’art. 24 della Costituzione, dei cittadini eventualmente offesi da reati compiuti dal Presidente a titolo privato, così come il più generale principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione. Non a caso la vicenda, anche se la questione riguarda l’esercizio delle funzioni presidenziali, non è terminata e se ne sta occupando, proprio per tale ragione, la Corte di Cassazione.
Ma non finisce qui. La Corte ricava l’immunità presidenziale in parola da un’analogia con l’immunità di sede delle Camere. Queste, difatti, godono dell’inviolabilità della sede grazie ai regolamenti parlamentari che la prevedono, pur non essendo formalmente ed esplicitamente prevista dall’art. 68 della Costituzione. Trattandosi di immunità incontestate e poiché legittimamente i regolamenti parlamentari possono stabilire una simile immunità giacché questa tende a garantire le più ampie immunità dei parlamentari formalmente previste dall’art. 68 della Costituzione, la Corte ne deduce che una simile impostazione è valida anche per il Palazzo del Quirinale, una simile immunità essendo appunto deducibile dall’art. 90 della Costituzione (che, però, ricordiamolo ancora una volta non parla di immunità bensì di irresponsabilità del Presidente). Ci si permetta, tuttavia, una semplice domanda alla Corte: e quale sarebbe l’atto normativo che legittima il Presidente della Repubblica e il Quirinale a godere di una simile immunità, a parte l’art. 7 della Legge 219 del 1989 che comunque si riferisce al Presidente e non al Palazzo del Quirinale (e la differenza non è da poco)? Sarebbe un regolamento interno del Quirinale? E quale valore avrebbe nella gerarchia delle fonti del diritto italiano? Rendersi conto delle conseguenze abnormi e assurde di una simile impostazione non è difficile. Mentre infatti le immunità di sede parlamentari servono a garantire l’attività di più di 900 parlamentari, quando tutti godono del medesimo regime immunitario particolarmente ampio, le medesime immunità (per di più valevoli anche in tema di reati extrafunzionali) dovrebbero garantire l’intero Palazzo del Quirinale poiché ogni attività compiuta al suo interno è diretta all’espletamento delle funzioni presidenziali. Attenzione, però, delle funzioni di una singola persona. In ultima analisi, il ragionamento della Corte porta alla conclusione (non esplicitata nel testo ma ricavabile perfettamente dal senso delle parole ivi contenute) che il Quirinale sia una zona franca, al di fuori dell’applicazione del diritto comune vigente in Italia, perché ogni attività che vi viene svolta, essendo mirata all’espletamento di funzioni presidenziali, è coperta dal diritto alla riservatezza riconosciuto alle attività del Presidente. In teoria, quindi, dovrebbero esser coperte da riservatezza anche le attività dei collaboratori del Presidente, sebbene ciò la Corte non lo affermi esplicitamente.
Una simile impostazione, oltre a non essere condivisibile, dimentica peraltro un punto richiamato in precedenza, qualora si volesse persistere in un’attività di confronto-assimilazione di regimi, cioè che anche per i parlamentari vigono comunque alcune eccezioni all’immunità assoluta, come ad esempio l’arresto in flagranza di reato. La sentenza della Corte nulla dice in proposito circa il Presidente e il Quirinale.
Tutta questa serie di ragionamenti, che qui si è costretti a sintetizzare fortemente, portano la Corte alla considerazione per cui l’art. 7 della Legge 219 del 1989 sul divieto di intercettazione del Presidente della Repubblica ha un valore assoluto e prescinde, pertanto, persino dal contesto legislativo in cui la disposizione si trova inserita, ovverosia una legge tendente a fare in modo che il Presidente della Repubblica possa comunque essere sottoposto a procedimento penale là dove si verta nell’ipotesi di alto tradimento e attentato alla Costituzione. In pratica, mentre la legge in parola venne elaborata (peraltro nello stesso anno in cui entrò in vigore il Codice di Procedura Penale; particolare, questo, da non trascurare) per assicurare che il Presidente potesse essere sottoposto a indagine e responsabilità penale, secondo forme prestabilite, per i reati "costituzionali" e per quelli extrafunzionali, la Corte con la sentenza che ora si commenta finisce per smentire se stessa, rinnegando il metodo dell’interpretazione sistematica che sembra non valere nel caso dell’art. 7 della Legge 219 che in tal modo viene estrapolato dal contesto della legge in cui si trova, non si comprende a quale titolo, per valere, sembra, in astratto.
Ne discende, ad avviso della Corte, che la Procura di Palermo avrebbe dovuto applicare l’art. 271 del Codice di Procedura Penale. Perché ciò? L’art. 271 dice che le intercettazioni eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge vanno distrutte unicamente sotto il controllo del giudice. Poiché le intercettazioni del Presidente non sono avvenute esattamente fuori dei casi consentiti dalla legge visto il carattere occasionale e casuale delle intercettazioni, secondo la Corte, allora trova applicazione per analogia il secondo comma dell’art. 271 che prevede la medesima procedura quando siano intercettate alcune categorie di persone, ossia quelle legate al segreto professionale (tipo gli avvocati) ed esattamente elencate nell’art. 200 del Codice di Procedura Penale, dove non a caso non trova posto il Presidente della Repubblica, dal momento che oltretutto per esso, contemporaneamente all’approvazione del Codice di Procedura Penale, veniva redatta un’apposita legge, per quanto essa fosse carente esattamente sul punto in discussione.
In definitiva, si può affermare che la sentenza della Corte Costituzionale non ha offerto una corretta lettura del regime delle immunità e delle irresponsabilità delle più alte cariche dello Stato oltre a rappresentare forse un passo indietro rispetto alla sua precedente giurisprudenza al riguardo. Va, tuttavia, aggiunto che una simile sentenza non è stata resa in un giudizio di costituzionalità di una legge, ma nell’ambito di un conflitto tra poteri dello Stato, peraltro – come si è già osservato – non su una singola competenza o potere del Capo dello Stato bensì su un intero regime di garanzie che lo riguarda. In questa ipotesi, è del tutto evidente che la Corte, pur essendo chiamata a esercitare una funzione giurisdizionale, è tenuta a orientare la sua azione secondo ragioni politiche considerato che essa è anche e soprattutto un’istituzione politica. Era quindi inevitabile che il risultato fosse quello che abbiamo fin qui discusso. La responsabilità di risultati così assurdi non può perciò che ricadere, in ultimo, sul Presidente della Repubblica il quale, sollevando il conflitto di attribuzioni, non si è minimamente preoccupato, benché ciò fosse suo dovere nella sua qualità di Capo dello Stato, di esporre la Corte a una brutta figura soprattutto sul piano argomentativo, oltreché a una funzione di legislazione che la Corte può anche operare in casi singoli ma da cui dovrebbe essere chiamata ad astenersi là dove in gioco siano questioni, come questa, di portata così generale da rientrare piuttosto nella competenza del legislatore.
Sarebbe auspicabile che il prossimo Capo dello Stato eserciti le sue competenze e i suoi poteri con un rigore, anche analitico, maggiore di quello che ha ispirato fin qui, invero alquanto modestamente, Giorgio Napolitano e che il nuovo Parlamento intervenga sulla materia per sterilizzare, per così dire, gli effetti più regressivi della sentenza della Corte, che si spera possa rimanere un unicum.
Inoltre, sul piano pratico, i partiti dovrebbero domandarsi, alla luce dell’andamento del caso e dei suoi risultati, se non sia giunta l’ora di metter mano al sistema di funzionamento della Corte Costituzionale per dotarla, una buona volta, di strumenti di lavoro più ampi e diversificati di quelli attuali. Domandiamoci, per esempio, se l’attribuzione di una funzione consultiva, come avviene con l’analoga funzione svolta dalla Corte Internazionale di Giustizia, non avrebbe aiutato anche le parti di un simile caso a trovare una via d’uscita migliore rispetto a quanto la Corte stessa si è trovata costretta a fare, posta dinanzi a un’alternativa secca e brutale quale quella di dover dare ragione al Presidente o ai magistrati.
Infine, un’ultima annotazione sull’ammissibilità del conflitto, anche se ve ne sarebbero alcune anche con riguardo alla linea difensiva individuata dalla Procura di Palermo e che lascia perplessi da vari punti di vista. Sotto questo profilo, la Corte nella sua sentenza ha fatto notare di aver considerato ammissibile il conflitto in quanto ha escluso, in uno dei passaggi finali della sentenza da cui traspare con ogni evidenza tutta la sua irritazione per l’assurdità dell’argomento sottoposto al suo vaglio, che la Presidenza della Repubblica, e con essa l’Avvocatura dello Stato, intendesse effettivamente richiedere (come invece aveva effettivamente richiesto) alla Corte di stabilire che, a partire dal momento in cui fosse intercettato il Presidente della Repubblica, l’intercettazione dovesse essere interrotta. Poiché la Presidenza aveva richiesto ciò o comunque che fosse applicato, appunto, l’art. 271 del Codice di Procedura Penale, la Corte ha omesso di considerare la prima richiesta per valutare solo la seconda, poiché è cosa ben nota persino forse agli studenti del primo anno di giurisprudenza che le intercettazioni telefoniche avvengono con sistemi automatizzati che non possono essere interrotti, a garanzia della genuinità e dell’integrità dell’intercettazione. Interrompere una intercettazione, d’altronde, significherebbe commettere, con ogni probabilità, un reato penale.
Spiace allora osservare che, per l’ennesima volta, le istituzioni politiche italiane, peraltro proprio quelle che maggiormente dovrebbero avere a cuore l’integrità del nostro ordinamento in considerazione della loro funzione giuridica e di garanzia, come la Presidenza della Repubblica e l’Avvocatura dello Stato, non si facciano scrupolo di ricorrere, per proprie finalità politiche, a simili argomenti che corrodono progressivamente l’unitarietà del sistema e determinano oltretutto uno scadimento della sua qualità, in particolare del lavoro della Corte Costituzionale. Karl

 

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