10580 Notizie 4 aprile

20130403 14:18:00 guglielmoz

EUROPA
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EUROPA
EU – Come nasce la nuova guerra di – Mary Kaldor L’Unione europea è stata fondata per reazione alle guerre del ventesimo secolo. Con la crisi, gli interessi materiali comuni non alimentano più l’integrazione politica, e l’assenza di una politica europea di ampio respiro alimenta le spinte verso nuovi conflitti.
Ulrich Beck, nel suo meraviglioso libro German Europe, («L’Europa tedesca», Polity, 2013), sostiene che l’Europa non è stata fondata sulla logica della guerra, ma sulla logica del rischio. L’Unione europea – fa notare Beck – si regge su una rete di «non». Non è una nazione, non è uno stato e neppure un’organizzazione internazionale. Gli stati sono stati edificati sulla logica della guerra.
L’Unione europea rappresenta un diverso tipo di sistema governativo, costruito per reazione al rischio della guerra e, oggi, per reazione al rischio del collasso economico.
Gli economisti sostengono che l’unione monetaria sia stata un grosso errore in assenza di un’unione politica. Beck, invece, sostiene proprio il contrario: l’unione monetaria stabilirebbe un interesse materiale per un’unione politica. Senza l’unione monetaria non ci sarebbe alcuno slancio per l’unione politica.
Fin qui tutto bene. Ma c’è di più in questa storia. Nell’Europa di oggi le logiche economiche e politiche spingono in direzioni opposte. È vero che l’unione monetaria decide il bisogno dell’unione politica, e tutti lo capiscono a livello delle élites. Ma le conseguenze dell’unione monetaria e l’agenda neo-liberista a essa associata, stanno indebolendo, allo stesso tempo, quel che è noto come consenso passivo, indebolendo enormemente la legittimità delle élites europee e con esse il progetto europeo.
L’Unione europea è stata fondata per reazione a quella che chiamo la "vecchia guerra" le guerre del ventesimo secolo. Benché, a rigor di logica, questioni di interesse materiale dovrebbero condurre a un’accresciuta cooperazione politica, la politica europea contemporanea, o l’assenza di quest’ultima, suggerisce piuttosto la possibilità di nuovi conflitti, ciò che definisco la "nuova guerra". L’idea secondo cui la cooperazione economica condurrebbe alla cooperazione politica è stata un punto centrale fin dal principio dell’integrazione europea. I fondatori dell’Ue credevano che obiettivi di "alta politica" sarebbero stati raggiunti attraverso misure di "bassa politica". La cooperazione economica e sociale stabilirebbe legami fra le persone, e questo alla fine porterebbe all’unione politica. Nei primi tre decenni dopo la seconda guerra mondiale tale argomento sembrava effettivamente avere un qualche valore.
Il cosiddetto "metodo Monnet" implicava la cooperazione a livello di infrastrutture (carbone e acciaio), dell’agricoltura, così come delle politiche regionali. Piccoli passi venivano intrapresi in direzione di una più grande cooperazione politica. Ma dopo il 1989 tutto è cambiato. Da una parte l’89 è stato il punto alto raggiunto dai movimenti cosmopoliti del post-’68 – i "figli della libertà" ( freedom’s children ), come li chiama Beck. Il concomitante avvento della pace, dei diritti umani e la fine della guerra fredda portarono a una nuova ondata di europeismo. Dall’altra parte ci fu l’arrivo dell’età del neoliberismo. La stessa critica della rigidità, del paternalismo e dell’autoritarismo dello stato sviluppata dai "figli della libertà" fu usata per chiedere più mercato – deregolamentazione, privatizzazione e stabilizzazione macro-economica. I "figli della libertà" avevano dato la giustizia sociale per scontata e, nel reagire contro la "vecchia sinistra", avevano dato spazio a una nuova destra radicale. Il Trattato di Maastricht del 1991 può essere considerato come un contratto fra gli europeisti, guidati da Jacques Delors, e i sostenitori del libero mercato, simboleggiati da Margaret Thatcher. Ma logica del mercato è molto diversa dalla cooperazione tra stati. Negli ultimi due decenni è stata realizzata in Europa quest’unione contraddittoria di cosmopolitismo e mercato. Sul primo versante, l’Europa si è estesa verso est, sviluppando una politica di vicinato basata sull’applicazione del "metodo Monnet", estendendo i metodi della "bassa politica" ai paesi confinanti e, a volte, anche oltre. A livello internazionale la Ue ha elaborato politiche per la gestione delle crisi e per l’aiuto allo sviluppo che, seppur gestite spesso in maniera burocratica, l’hanno trasformata nella più grande donatrice di aiuti nel mondo e in una protagonista del dibattito globale sul cambiamento climatico, la povertà e la sicurezza globale. Sul secondo versante, le regole del mercato unico e dell’euro – i cosiddetti criteri di convergenza – associati con le altre riforme neoliberiste, hanno portato a un aumento delle disuguaglianze, dell’insicurezza e dell’atomizzazione, indebolendo il senso di comunità e la politica cosmopolita. Per di più, le politiche di sicurezza interna e la sorveglianza, specie ai confini dell’Europa estesa, hanno contribuito a crescenti diffidenze all’interno delle società.
-È vero, come nota Beck, che interessi materiali potrebbero imporre la cooperazione politica. Questa è la sola via per salvare l’euro. Ma l’" alta politica" della Ue è ancora assente – abbiamo solo Merkiavelli , il titolo di un brillante articolo di Ulrich Beck su opendemocracy.net . Le élites nazionali ora non hanno un sostegno popolare e il cosiddetto consenso passivo, che ha permesso l’avanzamento dell’integrazione europea, sta scomparendo rapidamente. Il destino dei Primi ministri tecnocrati, Mario Monti e Lukas Papademos, imposti a Italia e Grecia, illustra la fine del consenso passivo. Quella che l’Europa sta affrontando è una profonda crisi politica. Questa è la conclusione del nostro rapporto su "La politica sotterranea" ( The Bubbling Up of Subterranean Politics , in pubblicazione con Routledge). Le proteste e le manifestazioni, le nuove iniziative politiche e i nuovi partiti non sono soltanto una reazione all’austerità. Riflettono una profonda perdita di fiducia nelle attuali élite politiche – esprimono l’opinione che tali élite siano rinserrate dentro interessi materiali e mediatici e siano perciò incapaci di agire a vantaggio del bene comune, insieme alla percezione che la democrazia rappresentativa non riguardi più la partecipazione, ma miri soprattutto a riprodurre quell’ élite . Il problema è che, nell’assenza di un "cosmopolitismo dal basso", di un progetto di solidarietà europea, quest’assenza di fiducia politica può essere facilmente manipolata da partiti xenofobi, euroscettici ed elitari di vario genere. Partiti come l’Ukip ( UK Independence Party), i True Finns, il Dutch Freedom Party , Alba dorata in Grecia e altri analoghi stanno realizzando incursioni elettorali in quasi ogni paese europeo. E i partiti tradizionali, preoccupati da considerazioni a breve termine di carattere elettorale, tendono ad assecondare i sentimenti espressi da questi partiti, invece di dar voce agli interessi comuni di lungo termine.
È molto difficile capire come l’Europa possa sfuggire a questa spirale. L’analisi offerta dal volume di Ulrich Beck sottolinea che l’europeismo della stabilità monetaria è radicato a tal punto nella mentalità tedesca che è improbabile che un’Europa tedesca, guidata da un pragmatismo apolitico, possa cambiare il suo corso. L’assenza di una pressione dal basso in Europa, la debolezza della solidarietà trans-europea, la frammentazione della "politica sotterranea", tutto lascia intravedere tendenze politiche piuttosto buie. Lungi dall’essere un’eccezione, una dissonanza marginale, la Grecia potrebbe rappresentare il futuro per gran parte dell’Europa. Quanto accade in Grecia è tipico di ciò che chiamo "la nuova guerra", l’emergere di nuove forme di conflitto. I drammatici tagli nella spesa pubblica indeboliscono la capacità dello stato ed erodono ulteriormente fiducia e legittimità, dando spazio a una combinazione di criminalità e di politica estremista. Una tale mescolanza si autoriproduce perché chi ne è coinvolto trae vantaggio dal disordine. E’ una dinamica che è molto difficile fermare; si sta affermando un nuovo tipo di economia politica predatoria, che non conosce nessun limite. La sola risposta sarebbe un’autorità politica cosmopolita, ma da dove potrebbe venire? * Mary Kaldor è Professore di Global Governance alla London School of Economics. L’articolo è apparso su www. opendemocracy.net (traduzione di Elisa Magrì).www.sbilanciamoci.info.

ITALIA
ROMA – 3 aprile I SAGGI DIVENTANO RICOGNITORI – Berlusconi teme l’asse fra Bersani, Monti e perfino M5S sul presidente. E c’è chi agita lo «spettro» di Ilda Bocassini. Tanto per capirsi. Si riunisce la commissione, mezzo Pd freddo, il Pdl già spara. Il Colle precisa: iniziativa «assolutamente informale e a tempo». In attesa della quadra sul nuovo capo dello stato. Bersani torna in campo e insiste: niente governissimo e subito una rosa di candidati per il nuovo presidente della Repubblica. Berlusconi teme l’esclusione dalla partita del Quirinale, vede sfumare il salvacondotto giudiziario e minaccia il ricorso alle urne. Napolitano riceve i saggi e ne ridimensiona i compiti: servono a prender tempo e saranno consulenti a breve scadenza.
Piovono critiche sulla scelta di Napolitano. E il presidente è costretto a precisare che i dieci saggi, tutti maschi, sono stati scelti con «criteri oggettivi». Convocati già da oggi al Quirinale, saranno a tempo e a «carattere informale». Freddo il Pd, il Pdl non ci sta e punta al voto, nel Movimento 5Stelle c’è chi dice «golpe bianco»

ROMA – 3 aprle. LE PAROLE DELLA CRISI – REMO BODEI “SCHIAVI DELLA PRECARIETÀ SERVE MINISTRO DEL FUTURO”. IL FILOSOFO CON SGUARDO AMERICANO PROPONE UNA FORMULA MAGICA E MAI VISTA PRIMA: “SIAMO INCHIODATI ALL’ISTANTE PER VEDERE I PROCESSI A LUNGO TERMINE E NON ACCAPIGLIARSI” di Antonello Caporale
In una società senza più passioni tocca bussare alla porta del filosofo Remo Bodei, cultore dell’idealismo.
Guarda l’Italia con occhi quasi americani (insegna alla Ucla in California).
Sorvola spesso l’oceano che lo riporta a Pisa dove ha studiato, prima allievo poi docente alla Normale. Siamo naufraghi in questo mare agitato, professore. “Lottare con le onde alte è la condizione del disperato, infatti affogano i migranti, chi è debole e la sua vita è precaria. Questo tempo ci consegna anzitutto questa parola: precarietà. E non solo o non tanto nel senso dell’etimo. Deriva da prex, precis, dunque preghiera, supplica. Ma la precatio vitae è certo e soprattutto il tragitto umano verso l’ignoto: il bimbo che nasce e avanza verso tappe sconosciute offre l’immagine della nostra esistenza”.
É TUTTO DIVENTATO precario: il lavoro fugge via, e con lui la vita nostra. “É frustante una condizione che ci permette di osservare il potere senza la capicità di controllarlo, di emendarlo, di condizionarlo. Bauman parla di democrazia liquida infatti. Certo che c’è un processo di infantilizzazione del pubblico e il solo apparire è divenuta una condizione essenziale della vita politica”.
Solo ciò che appare esiste. “Anche se c’è chi, come Grillo, ha fatto della invisibilità, dell’assenza un fattore decisivo, un punto di forza. Ma tutto questo va a scapito della serietà. Un tempo i partiti erano emissari di valori etici, adesso non esistono. É una perdita di autorevolezza che stiamo pagando cara e la conseguenza è questa invocazione perpetua alla società civile che non si sa cosa sia. Eppure rifletta con me: si dice apatia dei giovani, si parla della loro demotivazione. Appare così ai nostri occhi, vero? Dimentichiamo che c’è una cifra di italiani (questa cifra varia tra i quattro e i sette milioni), che devolvono ore della loro giornate, e alcuni ogni tempo della propria vita, a pratiche di volontariato. Pensiamo a medici senza frontiere, per dire di una associazione benemerita. Ecco, queste capacità, queste competenze, queste passioni si sottraggono alla politica, si dirigono altrove. La politica ha subito una diserzione di massa” .
Ci sarà un motivo. “Forse perchè la democrazia non ha curato l’educazione sociale? La scuola è stata smantellata, frantumata, ridotta a un luogo improduttivo e inutile. E il risultato è che i cittadini considerino l’élite semplicemente una casta”. Una società così labile, con aspetti di una crescente anarchizzazione. L’ultima incredibile vicenda di Ferrara dove poliziotti hanno scelto di solidarizzare con colleghi colpevoli di un omicidio, giudicati per un omicidio, sotto le finestre dove lavora la madre del ragazzo ucciso. E al ministro dell’Interno che ha chiesto loro più misura e più contegno civile hanno risposto con uno sberleffo. Sembra che con la crisi economica anche la speranza di far vincere la ragione sia fuggita via. “Caro amico, la speranza perde punti perché la democrazia ha smarrito la sua prospettiva di fondo che è la qualità dell’esistenza delle persone. Non guardiamo più al domani, le cose si fermano all’impressione, le notizie si agganciano al piolo dell’istante. I numerosi incontri anche televisivi, i cosiddetti talk show, sono commenti sulla parola”. A volte sono le stesse parole e i medesimi attori, un circo senza fine nel quale siamo comprimari anche noi giornalisti. “Vero. É quasi scomparso il giornalismo d’inchiesta, la voglia di approfondire, seguire, descrivere, indagare la singola questione e trovare il fondo, la ragione, un movente. L’apparenza sazia, l’impressione si fa verità. Ero alla Columbia University per un ciclo di lezioni quando ho conosciuto per esempio questa decisione presa dal governo Usa: avviare una grande indagine sul cervello umano,
concentrare ogni risorsa pubblica per mappare e capire nel più breve tempo possibile. Ecco: questa decisione guarda al futuro della nostra esistenza, è una prova che la politica investe nella ricerca scientifica per agevolare il nostro domani, risponde a un bisogno di crescita.
LA POLITICA ha dunque un futuro se guarda al futuro. Se investe sul futuro, se produce futuro. Se cioè ci fa avanzare dando prospettiva e speranza alla nostra vita, uno sbocco al nostro dolore, una possibilità di superare la nostra precarietà, le nostre paure. Sa cosa ci vorrebbe nella compagine di governo? Un bel ministero del Futuro”. Un ministro del Futuro , professore? “Sono un portatore sano del valore dell’inattualità. Vedere i processi a lungo termine non accapigliarsi sul significato sintomatico di una singola cosa. Siamo così legati all’oggi, all’ora, a questo preciso istante, che perdiamo di vista il quadro di riferimento. E diveniamo immediatamente disperati, per dire”. Siamo nel mondo del clic, del tweet. “Richard Sennet parlava della corrosione del carattere. Il nostro tempo è terribilmente spezzettato, volgiamo di qua e di là. Sono rantoli di pensiero”. Curiamo l’istante: “Ecco, questo ci frega. L’istante. Pensiamo al domani, però cerchiamo di capirlo questo domani”

ROMA – 28 marzo. NON SI PUO’ – FRA PD E PDL FINISCE MALE, IL LEADER DEMOCRAT ICI ACCETTA LO SCAMBIO PRENDE QUOTA IL GOVERNO DEL PRESIDENTE. GROSSO GUAIO NELLA «DITTA» Via crucis Bersani Ultima tappadi Daniela PREZIOSI.
Un paese fatto di ricatti…
«A NOI IL QUIRINALE O IL BERSANI I NON PARTE». Aut aut Pdl. Ma il leader «non tratta». E forse già oggi torna dal capo dello stato «La vicenda è chiusa e l’ha chiusa Bersani che ora si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato. Sta a lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e se può, nell’interesse del paese». La sportellata arriva di sera. È il segretario del Pdl Angelino Alfano a chiudere strada a Bersani, o almeno a lanciare un ultimatum alla vigilia del ritorno al Colle del premier pre-incaricato per riferire dell’esito delle consultazioni. Una trattativa, un confronto negato fino all’ultimo da Bersani, che invece c’era: a giudicare per esempio dal colloquio fra Enrico Letta e Alfano ieri a Montecitorio . Ma è andato male. Alfano scopre le carte, e dal Nazareno, il quartier generale Pd, non resta che attutire il colpo: «Se il Pdl allude a una trattativa sui nomi per il Quirinale, non c’è alcuna disponibilità da parte del Pd». Il leader si trincera nel silenzio.
La via crucis della settimana di passione di Bersani a ieri sera si chiudeva così. Il no al «ne impediatur» è arrivato in anticipo. Si aspettava per oggi, sotto forma di una dichiarazione di Roberto Maroni in cui, accettando la «Convenzione» sulle riforme che il presidente pre-incaricato ha illustrato martedì alla delegazione Pdl-Lega-Gal (il gruppo di autonomisti di destra al senato), di fatto si accettava di «non impedire» la nascita del Bersani I. Chissà perché nei pensieri di Bersani e dei suoi la presidenza di questo organismo doveva interessare Berlusconi, l’uomo che ha fatto saltare la Bicamerale, notoriamente affaccendato in tutt’altro ordine di problemi. Da quella parte è arrivato un giudizio liquidatorio: «Ridicola». E una provocazione: Bersani premier e Berlusconi al Colle, o viceversa.
È finita così, e cioè male, la sesta giornata di consultazioni al primo piano di Montecitorio. Una giornata senza brividi: dall’incontro con la delegazione a cinque stelle, in diretta streaming, arriva un’apertura verso il Bersani premier e il suo governo in 8 punti. «Sono condivisibili, collaboreremo», annuncia il capogruppo al senato Vito Crimi. Ma sulla fiducia il no è netto. Più tardi Crimi a scappa una frase ambigua: «Se Napolitano fa un altro nome è tutta un’altra storia». Il portavoce del leader Pd Stefano Di Traglia replica via twitter: «Nel corso delle consultazioni l’ultima provocazione del M5S non l’abbiamo sentita». Crimi smentisce, tutta colpa dei giornalisti.
La polemica è pirotecnica, ma non è sull’M5S che Bersani aveva puntato per ottenere la fiducia delle camere; anche se può annotare la loro disponibilità a far marciare il governo. Il suo successore farà bene ad annotarlo. Il nodo era l’atteggiamento delle destre. E c’è poco da girarci intorno: decide Berlusconi e il suo team di avvocati. Il Cavaliere chiede un uomo suo al Colle, ma può accontentarsi di un «garante» «non ostile». Tradotto: che lo aiuti a far fronte alla caterva di processi di cui è imputato. La Lega e il ‘Gal’, uscendo dall’aula di Palazzo Madama, gli esecutori finali della sua decisione.
Ma ci si può fidare della parola di Berlusconi? Per allontanare l’accusa di inciucio Bersani giura che in ogni caso nel suo programma «la tacca della legalità non scende»: non sarebbero derubricate le riforme sul conflitto di interesse e l’anticorruzione. E nega con forza l’esistenza di una trattativa sul nome del prossimo capo dello stato. Ma a Montecitorio le voci corrono.
Ma con la sportellata di Alfano la vicenda sembra chiusa. Stamattina Bersani consulterà la sua coalizione, e l’incontro potrebbe già trasformarsi nella ricerca del famoso piano B negato da settimane. Al Colle, con il suo canestro di fichi secchi, potrebbe salire anche oggi pomeriggio. E dire che ieri Maroni aveva fatto una mezza apertura: la Convenzione proposta da Bersani «ci interessa».
Lo scetticismo, fra i suoi, è alle stelle. Anche se il leader, ieri, prima del niet del Pdl si stava disponendo a chiedere di essere mandato comunque alle camere. Anche senza numeri: «Devo portare una valutazione conclusiva fatta di numeri ma anche di valutazioni politiche».I grillini dovranno ripetere anche «in parlamento» il no pronunciato in diretta streaming. Quanto al Pdl «in caso di risposta negativa, sta a loro dire cos’altro fare». Con un avvertimento: «Non c’è governabilità senza cambiamento». Vuol dire che il Pd non accetta larghe intese. E un governo del presidente, anche a guida super-tecnica, quotatissimo a Palazzo («Non ne parlo, non so cosa vuol dire», lo liquida Bersani), è solo un’altra maniera per fare le «larghe intese». Quelle che Bersani esclude. Ma che ogni giorno che passa nel Pd hanno nuovi fan. E Bersani ora rischia di trovarsi d’un colpo trasformato da possibile premier di minoranza a reale segretario di minoranza.
ROMA – 28 marzo. MOVIMENTO 5 STELLE «Via lui e si cambia» La linea con il Colle E con Casaleggio di – A. FAB.
Alla caccia delle sfumature per cogliere anche una minima disponibilità del Movimento 5 Stelle, la differenza di atteggiamento tra la capogruppo alla camera Roberta Lombardi e il capogruppo al senato Vito Crimi durante l’incontro con Bersani non è sfuggita a nessuno di quelli che hanno seguito in diretta streaming la consultazione. E soprattutto è stata colta dal segretario Pd, al quale ha fatto piacere che Crimi abbia definito condivisibili gli otto punti di programma attorno ai quali sta tentando di raccogliere una maggioranza. La convergenza «operativa» nelle commissioni tra centrosinistra e M5s però potrebbe arrivare troppo tardi, quando cioè Bersani avrà già dovuto rinunciare al suo tentativo. Forse per questo, per la prima volta, il segretario Pd al termine dell’incontro ha lasciato cadere una suggestione: «Si può valutare un regime parlamentare senza il governo…».
Impossibile, la doccia fredda è arrivata come al solito dall’oracolo web, quando Grillo ha postato sul blog il solito catalogo di insulti. Bersani si è sentito chiamare «padre puttaniere» in compagnia di D’Alema e Berlusconi che – ha scritto Grillo – «ci prendono allegramente per il culo ogni giorno con i loro appelli quotidiani per la governabilità». L’insulto, al quale il segretario Pd ha replicato con stile («auguri ai salvatori della patria»), ha fatto da prologo a un’altra pesante porta in faccia, sbattuta da Crimi tramite Facebook nella forma di un elenco dei 30 motivi per i quali non si può votare Pd (e nell’elenco c’è anche l’approvazione dell’indulto).
Crimi però a un certo punto del pomeriggio ha anche dato voce a una serie di ragionamenti che sono presenti nelle assemblee dei parlamentari grillini, dove è diffusa la voglia di non restare alla finestra assistendo al fallimento della legislatura, quando ha detto che «se, dopo Bersani, Napolitano fa un altro nome, allora è tutta un’altra storia. Un nome che è meglio il Pd non faccia, se no lo brucia». Il segretario del Pd ha immediatamente colto i segni di un «secondo tempo» giocato alle sue spalle del quale Grillo potrebbe aver parlato con il capo dello stato, ricordando che all’uscita dalle consultazioni al Colle l’ex comico aveva detto di essere stato molto ben impressionato da Napolitano. Solo che la disponibilità a sostenere un altro premier sarebbe per i 5 Stelle una correzione della linea ufficiale che recita «fiducia solo a un governo 5 Stelle». Ragione per cui Crimi, come gli capita ormai spesso, poco dopo ha smentito: «L’affermazione "se Napolitano fa un altro nome è tutta un’altra storia" è stata estrapolata dopo la consueta raffica di domande a cascata dei giornalisti, e si deve intendere nel senso di tutto un altro percorso istituzionale».
Il segnale però è lanciato. Chiuso ogni spiraglio a Bersani, i grillini saranno in campo per il dopo. E potranno farlo se riusciranno a tenere compatto il gruppo, specie al senato, ecco perché riuscire a fermare il segretario Pd sulla soglia delle camere, evitando un pericoloso appello alle coscienze a 5 Stelle, è considerato da Grillo un obiettivo importante. Tanto da meritare il bombardamento web. Del quale ieri è stato chiesto conto a Crimi nell’aula del senato. Nel frattempo alcuni parlamentari si riunivano direttamente con Casaleggio per discutere del nuovo portale che servirà a consultare gli attivisti. E, ancora, della comunicazione.

ASIA & PACIFICO
AFGHANISTAN/1 – DUE BAMBINI UCCISI A GHAZNI DAGLI ELICOTTERI DELLA NATO Un raid aereo della Nato-Isaf condotto con elicotteri da combattimento ha ucciso ieri due bambini che andavano a scuola nel sud dell’Afghanistan: lo riferisce il vicegovernatore della regione di Ghazni, secondo il quale nell’operazione sono rimasti uccisi anche nove talebani. Altri sette civili sono stati feriti, ha affermato il funzionario afgano. Un portavoce della Nato ha detto che l’Alleanza sta raccogliendo informazioni sull’«incidente». Il presidente Karzai di recente ha proibito alle forze afgane di chiedere il supporto aereo della coalizione, per ridurre il numero delle vittime civili, Sempre questa settimana quattro civili, fra cui un bambino, sono stati uccisi in un altro raid aereo contro i talebani, nella provincia di Logar.
AFGHANISTAN/2
KARZAI IN VISITA NEL QATAR OK ALL’AMBASCIATA TALEBANA
Il presidente afgano Hamid Karzai è da ieri in Qatar su invito dell’emiro Hamad Bin Khalifah al-Thani. Ufficialmente la visita di due giorni serve ad esaminare il piano di pace afgano, ma l’occasione è propizia per autorizzare l’apertura a Doha di un ufficio politico di rappresentanza dei talebani seguaci del mullah Omar.
LE DUE COREE AI FERRI CORTI

COREA – SEUL MINACCIA PYONGYANG DI «REAZIONE DURISSIMA»Dopo le violente schermaglie dei giorni scorsi e prefigurando una «provocazione armata», il ministro della Difesa della Corea del Sud, Kim Kwan-jin, avverte: «Se provocati, mobiliteremo non solo tutta la nostra forza militare, ma anche quella americana per sopprimere il Nord in un solo colpo». Kim è ex capo di Stato maggiore delle forze armate sudcoreane ed è considerato un «falco» nei rapporti con Pyongyang. La tensione tra le due Coree ha subito una brusca impennata dopo l’esercitazione congiunta Corea del SudUsa con impiego del bombardiere B-2,
QATAR

AMERICA MERIDIONALE

CUBA- L´AVANA 30 marzo. I cuentapropisti, così nasce il libero mercato di Roberto LIVI – Le nuove generazioni si lanciano nel privato. Sono ormai l’8% della popolazione attiva, e usano parole come efficienza, redditività domanda e offerta
Per discutere della situazione cubana di fronte a un drink, un amico che vive nel quartiere residenziale di Koly mi porta in un paladar (bar-ristorante privato) vicino a casa. Lo gestisce una giovane coppia che ha deciso di mettere a frutto la terrazza della casa ereditata da uno dei genitori. Il luogo è fresco gradevole, con un bel panorama. Nella terrazza entrano quattro tavolini, dentro, nella sala, altri tre. I due giovani hanno deciso di arricchire il menu «classico» cubano con alcune specialità messicane, tacos, guacamoles. «La concorrenza è grande, i prezzi delle materie prime abbastanza alti, ma abbiamo deciso di impegnare i nostri risparmi e gli aiuti inviatici da parenti residenti a Miami (Florida) e cogliere l’occasione per renderci indipendenti e migliorare la nostra vita», afferma la giovane proprietaria, Yanelis. A poco più di cento metri, nel garage del piccolo giardino di casa, un altro giovane, Jesus, ha aperto una pizzeria, la cui insegna sfoggia il verde, bianco e rosso della bandiera italiana, pur non avendo alcun legame con la penisola. Anche Jesus ha deciso di buttarsi nel lavoro por cuenta propria , ovvero privato, tanto «peggio che un lavoro per lo stato a 400 pesos (meno di quindici euro, ndr) al mese non può andare» afferma il giovane pizzaiolo. La coppia e il giovane sono accomunati dalla volontà di rendersi indipendenti da uno Stato onnipresente, che non lascia (meglio lasciava) nessuno senza impiego, ma con salari che non permettono di arrivare alla fine del mese, nemmenoi dalla «libreta», la tessera che assicura una serie di prodotti di base a costo praticamente nullo. Solo un paio d’anni fa, un giornalista del quotidiano del partito comunista, Granma , si lamentava che i cubani sono come piccoli piccioni «che aprono la bocca in attesa che lo Stato vi versi il cibo». Jesus e Yanelis, la pensano in modo diverso, sono pronti a rischiare, «basta che il governo ci dia una piccola chance (un filito , in gergo cubano)». E non sono solo le nuove generazioni a pensarla in questo modo, ovvero a rimboccarsi le maniche e a lanciarsi nelle acque aperte e agitate del lavoro por cuenta propria abbandonando le acque sicure del porto statale. Secondo i dati forniti dall’agenzia stampa Prensa latina , i lavoratori privati e i loro impiegati hanno raggiunto il tetto delle 400.000 unità, ovvero l’8% della popolazione attiva. In poco meno di due anni, dall’approvazione dei «Lineamenti per la modernizzazione del socialismo cubano», i cuentapropisti nell’isola sono raddoppiati. In gran parte operano nel settore dei servizi, con prevalenza nella ristorazione, e si tratta nella grande maggioranza dei casi di «microaziende» familiari. Ma sul loro sviluppo in quantità e soprattutto in qualità conta il governo guidato da Raúl Castro per portare avanti la riforma che dovrebbe, in sostanza, passare da un modello CUBA, SAGRA LA GRANDE, MERCATO CON LA VENDITA DIRETTA DEI CONTADINI. A DESTRA IL CARDINALE JAIME ORTEGA /FOTO REUTERS sovietico, con lo Stato che controlla tutta l’economia, a una produzione più decentralizzata, con diverse forme di proprietà, dalla cooperativa alla privata. I «Lineamenti» prevedono che entro i prossimi tre anni più di un milione di lavoratori dovranno essere dismessi dagli organici statali. Pena il collasso economico, con le relative conseguenze sociali. All’inizio di marzo, il governo ha fatto un passo decisivo per dare un filito ai lavoratori privati. È stata formata una compagnia statale incaricata di vendere all’ingrosso, sia ai privati che alle aziende statali, una serie di prodotti alimentari e industriali. La richiesta di un mercato all’ingrosso era avanzata da tempo dai lavoratori privati, stretti tra l’incudine degli alti prezzi dei prodotti che dovevano acquistare nei negozi statali e il martello del basso reddito dei cubani che impone di tener bassi i prezzi (per non parlare delle tasse). «È l’ultimo, e questa volta concreto, segnale di come il governo voglia far crescere il settore privato in modo che possa generare nuovi posti di lavoro e permetta di portare avanti la riforma del socialismo cubano», sostiene un economista legato alla Chiesa cattolica dell’isola. Alla fine dell’anno scorso, secondo dati governativi, nell’isola vi erano 1736 ristoranti privati, 5000 bed and breakfast e migliaia di caffetterie, pizzerie, piccoli negozi e banchetti che vendono prodotti alimentari (panini, dolci ecc). Fino all’inizio di marzo le compagnie statali che controllano la totalità dei prodotti d’importazione all’ingrosso non potevano vendere al settore privato. Non si sa quanto tempo occorra perché entri in funzione il mercato all’ingrosso per privati. Fino ad allora, buona parte dei cuentapropisti a cui ho chiesto un parere sono restii a mettere da parte lo scetticismo nei confronti di una burocrazia statale onnipresente e potente e spesso corrotta. «È una misura che veniva richiesta a gran voce, finalmente il governo si muove e fa qualcosa di concreto. Ma prima di dare un giudizio aspetto di vedere che cosa verrà messo in vendita e a quali prezzi», mi dice Rosa, una matura signora dalla quale mi rifornisco di pastel di guayava, un dolce assai comune a Cuba. Comunque qualcosa si è mosso. E oggi i cubani usano parole come mercato, efficienza, redditività, costi e benefici e domanda ed offerta senza paura di scomuniche ideologiche. Ma certamente senza l’appoggio di una parte dell’apparato di Stato e del partito comunista restii – se non decisamente opposti- alla messa in pratica di molti punti previsti dai «Lineamenti» per la riforma del modello socialista cubano. Uno di questi settori è la promessa, ma finora non attuata, informatizzazione della società cubana. L’anno scorso è stato dichiarato operativo il cavo sottomarino proveniente dal Venezuela e che avrebbe dovuto far fare un salto di qualità alla capacità di connessione. Di recente sono stati annunciati sia nuove applicazioni per i cellulari, sia una sorta di Linus, sistema operativo, cubano. Ma di fatto la connessione alla rete e l’estrema lentezza con cui si può navigare continuano, anzi le cose sembrano peggiorare senza che nessuno, in primis il Ministero delle comunicazioni, dia una qualche spiegazione. Tutto quello che attiene a Internet sembra continuare a essere un segreto di Stato. Una situazione questa che rende più problematici i progressi nel settore della produzione privata, ma che colpisce anche il settore strategico del turismo.

LIMA – 30 marzo – Bachelet si candida alle presidenziali CILE SONDAGGI POSITIVI, IN UN CLIMA DI PROTESTA – GE. CO.
L’ex presidente del Cile, Michelle Bachelet, sarà candidata alle prossime elezioni che si svolgeranno il prossimo 17 novembre. Lo ha annunciato con una prima conferenza stampa a El Bosque, quartiere popolare a sud della capitale Santiago, dove ha trascorso una parte dell’infanzia: «Sono pronta a raccogliere la sfida – ha detto Bachelet – e a interpretare il malessere dei cittadini stanchi degli abusi di potere». «Il Cile – ha affermato – è uno dei paesi con maggior disuguaglianza al mondo, e questo è insostenibile e inaccettabile». Poi, ha assicurato che intende portare a termine «le riforme promesse e non concluse» durante il suo governo, tra il 2006 e il 2010.
STUDENTI IN PIAZZA
Una risposta alla cinquantina di giovani che hanno accolto la ex direttrice di Onu Mujer all’aeroporto: per ricordarle le promesse mancate alla «rivoluzione pinguina» del 2006, portata avanti dagli studenti delle scuole secondarie. Quegli stessi che, nelle generali proteste studentesche che hanno attraversato il paese nel 2011, hanno portato la popolarità dell’attuale capo di stato, Sebastian Pinera, ai minimi storici. E che l’altroieri hanno ripreso a manifestare contro storture, disuguaglianze e repressione. Per quella che è stata la prima giornata di manifestazioni studentesche dell’anno, a cui hanno partecipato 4.000 persone, i carabineros hanno arrestato 60 ragazzi, coinvolti negli scontri tra Avenida España, la Alameda e l’Università di Santiago.
LA QUESTIONE MAPUCHE
«Se parlerà del popolo mapuche – ha gridato un giovane alla ex presidente – si ricordi di Patricia Troncoso, che ha fatto lo sciopero della fame, e della repressione alle comunità durante il suo governo. Si ricordi delle termoelettriche che ha approvato. E non si faccia vedere dalle parti di Alto Maipo, perché non è gradita». Le richieste dei mapuche, sempre respinte con manganelli e leggi speciali, sono ancora sul tavolo e Bachelet non potrà evitare di affrontarle in campagna elettorale.
Così come dovrà prendere impegni con i movimenti studenteschi e sindacali, che chiedono risposte concrete. Tra i progetti incompiuti, l’agenda in tredici punti, stabilita nel dialogo bilaterale, iniziato tra Cile e Bolivia nel 2006: per risolvere lo storico conflitto dello sbocco al mare per La Paz, perso con la Guerra del Pacifico e il trattato del 1904. Un tema che i movimenti cileni hanno posto con forza, accogliendo con calore il presidente boliviano Evo Morales, durante il Vertice dei popoli, che si è svolto a Santiago a fine gennaio, nell’ambito della Celac.
Bachelet ha comunque portato a termine l’incarico – la Costituzione vieta l’esercizio di due mandati consecutivi – con un alto tasso di gradimento. E ora le previsioni indicano che la rappresentante di centrosinistra per la Concertación è la candidata con le maggiori possibilità di vincere sull’avversario di centrodestra, Laurence Golborne, un imprenditore sostenuto da Piñera. Da un sondaggio di pochi mesi fa, il 53% dei cileni è favorevole al ritorno alla presidenza di Michelle Bachelet, 61 anni, medico di formazione, prima donna ad aver governato il paese. L’ex presidenta dovrà affrontare tre candidati di centrosinistra nelle primarie del 30 giugno, dove è favorita, e per questo ha annunciato che inizierà la campagna elettorale da lunedì prossimo.
PERICOLO ASTENSIONISMO
In un sistema politico bloccato, ancora dipendente dalla costituzione varata ai tempi del dittatore Augusto Pinochet, il candidato principale rischia però di essere nuovamente l’astensionismo.
Infatti, dopo le ripetute manifestazioni di massa, che hanno unito studenti e lavoratori contro la morsa delle politiche neoliberiste della destra, il Cile di oggi non è più quello del 2010. Il paese è cresciuto in termini di Prodotto interno lordo, ma a goderne sono pochi e sempre gli stessi, e i giovani non ci stanno più. Bachelet stavolta dovrà tenerne conto.

CARACAS – Una sfida A COLPI DI TWITTER di – Geraldina Colotti – Dopo la morte di Chávez il Venezuela verso le elezioni del 14 aprile. L’oppositore Capriles in campo contro Maduro, vincente per tutti i sondaggi. È già campagna elettorale sul web, dove lo sfidante gioca sporco Alla Candelaria, quartiere di classe media, il furgoncino trasmette una canzonetta elettorale: per il candidato di opposizione Henrique Capriles Radonski, che corre per la Mesa de la Unidad democratica (Mud) e che sfiderà Nicolas Maduro alle elezioni del 14 aprile. «Questa sì che è musica – dice il commerciante di liquori -, altroché il tormentone chiavista di Patria e socialismo. Ti darò il voto, mio Capriles». La parrucchiera di fianco brontola infastidita, espone opuscoli e bandierine bolivariane. Due donne discutono davanti all’edicola: hanno entrambe comprato un numero monografico – ma di orientamento opposto – sulla morte di Chávez: «Vedi che ha detto qui? – s’accalora indicando le pagine – "se il clima fosse una banca, lo avrebbero già salvato". E qui: "un serpente è più umano di un fascista o di un razzista"». E l’altra replica: «Sì, come no? Ha dato i nostri soldi a Cuba e guarda come ha ridotto le classi medie». «Non mi sembri malridotta», rintuzza la prima signora. Alcune ragazze ridono, fanno la coda per farsi dipingere le unghie. Trafficano con i telefonini, si scambiano i twitter di Maduro o di Capriles.
La campagna per le presidenziali comincerà il 2 di aprile, ma i candidati già si scambiano accuse e sfide. Il twitter è uno strumento per mantenersi al diapason con le reti sociali e con il ritmo battente del paese. Con l’account @chavezcandanga, aperto nel 2010, il defunto presidente aveva collezionato oltre 4 milioni di affezionati: ed era risultato il secondo capo di stato più popolare in twitter dopo Barack Obama. L’ultimo messaggio inviato da Chávez attraverso la rete sociale è stato il 18 febbraio del 2013, mentre tornava a morire nel suo paese. Il candidato della destra usa questo strumento dal 2009, è presente su Facebook e ora su Instagram. Fu però nella campagna elettorale del 7 ottobre del 2012 – quando venne battuto da Chavez con oltre il 56% di preferenze – che superò la soglia dei 2 milioni di seguaci. Attraverso l’account @hcapriles lancia strali contro il governo, spera di «realizzare il sogno di un Venezuela unito e prospero» e sintetizza il suo programma «in tre cose, Speranza, Fede e Coraggio!». A volte riunisce i sostenitori nelle chiese tra una selva di braccia tese, a metà fra il giuramento e il saluto fascista. Però, per evitare che Maduro usufruisca dell’ondata emotiva dopo la morte di Chávez, tenta ancora la carta progressista, alludendo al «modello brasiliano» inaugurato da Lula. Dopo aver criticato in tutti i modi l’insistente ricorso chavista all’eroe dell’indipendenza, adesso ha chiamato il suo comitato elettorale «comando Simon Bolivar», che gli avversari hanno prontamente ribattezzato «comando Saimon Bush Bolivar». Ma Capriles grida: «Non siamo l’opposizione, siamo la soluzione», invita l’avversario a un confronto diretto in tv e dice che «Nicolas» non vale un’unghia del defunto presidente. Poi accusa il governo di tutto – infrastrutture obsolete, inflazione, insicurezza e scarsità di prodotti nei supermercati. Dimenticando che lo stato Miranda, da lui governato, presenta uno dei più alti tassi di violenza registrati. «Qui in Venezuela – dice una stimata docente di economia che intende mantenere l’anonimato – funziona una strana logica: quando aumenta il benessere e c’è più richiesta, non si aumenta la produzione, ma si aumentato i prezzi. Gli imprenditori ricevono prestiti dal governo, aiuti e infrastrutture: a differenza della borghesia di altri paesi non rischiano niente, quindi non fanno niente per lo sviluppo del Venezuela. E a ogni scadenza elettorale i grandi gruppi privati della distribuzione non mandano i prodotti nei supermercati. Ma il popolo venezuelano ormai conosce l’antifona, e non ci casca».
Tutti gli istituti di sondaggio, di opposte tendenze, danno vincente il candidato chavista: Datanálisis gli attribuisce 15 punti di vantaggio, Hinterlaces lo dà al 53% contro il 35% di Capriles, 18 punti di differenza. Il candidato della destra adotta un discorso aggressivo, incita i giovani sostenitori a cercare lo scontro. Qualche giorno fa, la polizia ha lanciato qualche lacrimogeno per dividere giovani studenti di entrambe le fazioni. Quelli di destra, detti della «mano bianca» – un’allusione alla mano nera del gruppo Otpor creato nelle stanze di Washington, attivo durante le cosiddette «rivoluzioni colorate» – hanno tentato di raggiungere la sede del Consiglio nazionale elettorale, accusato di aver favorito il candidato governativo.
Per Jorge Rodriguez, che dirige il comando di campagna «Hugo Chávez» – fino al 7 ottobre si chiamava «comando Carabobo» – l’opposizione «sta preparando il terreno per dire che non parteciperà a queste elezioni». Per Rodriguez, Maduro riceverà 10 milioni di voti. Alla riunione con il Polo patriottico, una delle formazioni che compone l’alleanza chavista, Rodríguez ha accusato l’opposizione di ricevere finanziamenti da Otto Reich e Roger Noriega, i due funzionari Usa espulsi dal paese il giorno della morte di Chávez con l’accusa di preparare piani eversivi. Le relazioni diplomatiche col Nordamerica sono state congelate, anche se il Venezuela continua a rifornire di petrolio gli Stati uniti. Intanto, dall’Argentina, le reti sociali sono in allarme per un convegno internazionale, previsto tra l’8 e il 12 aprile, in cui ex golpisti e affaristi della destra europea e latinoamericana si riuniranno con quella venezuelana: rappresentata da Marcel Granier (presidente dell’emittente Rctv) e dalla deputata Maria Corina Machado, entrambi coinvolti nel colpo di stato a Chávez dell’aprile 2002. Qualche giorno fa, Maduro ha denunciato un complotto della Cia per uccidere Capriles e creare il caos.
L’attuale presidente incaricato va ai comizi guidando un autobus. Una risposta all’avversario che lo accusa di avere truccato la sua biografia per sembrare più radicale. Maduro visita fabbriche e pozzi petroliferi, snocciola i dati in positivo dell’economia venezuelana, illustra i piani di sviluppo in costruzione. Ribadisce la continuità con la politica di Hugo Chávez. Così piace al popolo: «Chávez era magico – dice Evelia applaudendo le parole di Maduro – non facevo in tempo a pensare una cosa, e lui subito la realizzava. Ha cambiato il volto del paese, ci ha cambiato tutti». «Per me e per tanti ragazzi – aggiunge Ivan, un giovane del Psuv – non era solo il comandante, era un padre, un grande leader per l’America latina. Ci ha lasciato il Piano della Patria in cinque punti, un programma per costruire il nuovo socialismo».
Anche l’attuale presidente incaricato si rivolge agli elettori attraverso il twitter @NicolasMaduro, che in poco più di una settimana ha registrato oltre 430.000 simpatizzanti. Una strategia elettorale utilizzata solo da tre dei sei candidati alla presidenza. Se ne serve María Bolívar, che nella precedente elezione fece effetto con la frase «dammi un aiutino». Con @mariabp2012 conta 24.026 affezionati. Reina Sequera ha solo un profilo in Facebook. Gli altri due candidati, Julio Mora e Eusebio Méndez non contano sulla rete.
Per sostenere Maduro, sul web e in piazza, cento collettivi hanno dato vita al Comando di campagna popolare Hugo Chávez (Capucha): il simbolo è un passamontagna modello zapatista, da cui spuntano gli occhi del presidente morto: per dire «siamo tutti Chávez, e con Maduro la lotta continua».

AMERICACENTRO NORD
USA – NEW YORK. LA MAGGIORANZA DEGLI AMERICANI È A FAVORE DELLE NOZZE GAY, DIFESE DA POLITICI, CORPORATION E WALL STREET Matrimoni omosex, è battaglia legale di – Giulia D’AGNOLO VALLAN.

Le sentenze arriveranno entro giugno ma, dopo il secondo giorno di audizioni sul tema, la Corte Suprema degli Stati uniti lascia intravedere che potrebbere non arrivare ad una decisione miliare sulla costituzionalità dei matrimoni gay (sul modello di quella che legalizzò l’aborto nei 50 stati, nel 1973).
Solo il 27 per cento degli americani era favorevole alle nozze omosessuali nel 1996. Erano il 41 per cento nel 2004. Adesso, secondo alcuni sondaggi, si tratterebbe addirittura dell’81 per cento. In ogni caso, anche nelle stime più conservatrici, sicuramente sono oltre la metà. A favore della legalizzazione sono scesi (tra gli altri) la Casa bianca, Hilary Clinton, l’ex presidente Bill Clinton (firmatario, durante il suo mandato, di una legge che proteggeva l’eterosessualità del matrimonio), Wall Street, una cordata di grosse corporation e persino l’Academy of American Pediatrics. Anche alcuni repubblicani al Congresso hanno dato il loro appoggio. Ma, nonostante lo scarto nell’opinione pubblica, la Corte dà segni di voler esercitare prudenza.
Sono due i casi di fronte al massimo tribunale statunitense che si prestano a una decisione che potrebbe legalizzare i matrimoni gay in America. In entrambi, i giudici, sia di orientamento democratico che repubblicano, nelle domande agli avvocati che relazionavano di fronte a loro, sembrano esitare nella prospettiva di far valere la giurisdizione della Corte al di sopra di singoli stati stabilendo una legge che valesse per l’intero paese.
Il primo caso, presentato martedì è quello contro la Proposition 8, il referendum che ha reso illegale il matrimonio gay in California. «Il matrionio tra due persone dello stesso sesso è una cosa nuova», ha affermato il giudice conservatore Samuel Alito. «Le coppie gay hanno ogni altro diritto. In questo caso è solo questione di etichetta», ha detto il presidente della Corte, John Roberts, repubblicano anche lui. Anthony Kennedy (solitamente il voto "a sorpresa") ha parlato di «acque inesplorate». Ma anche Sonia Sotomayor, liberal nominata da Obama (e presumibilmente a favore della legalizzazione), ha sollevato esitazioni: «Se il punto (della costituzione) è lasciare che gli stati sperimentino e la società abbia dunque più tempo di individuare la propria direzione, perchè la risposta dovrebbe stare in una sentenza proprio adesso? Normalmente si aspetta che questioni come questa maturino. Abbiamo lasciato che la questione della segregazione razziale maturasse per 50 anni, tra il 1898 e il 1954. Qui si sta parlando, al massimo di quattro anni».
Il secondo caso, presentato mercoledì, riguardava il Defense of Marriage Act, firmato nel 1996 da Bill Clinton e che definisce il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna. L’ottobre scorso, una corte d’appello federale a New York ha definito quella legge incostituzionale sulla base del caso di una donna, sposata in Canada nel 2007, che alla morte della sua consorte ha dovuto pagare 360 mila dollari in tasse d’eredità cui non sarebbe stata soggetta in caso di matrimonio etero. Anche Obama e il suo ministro della Giustizia, Eric Holder, hanno definito la legge incostituzionale. Ma i giudici della Corte suprema sembravano guardinghi anche su questa possibile sentenza. «La questione è se il governo federale, in un sistema federalista, abbia o meno la giurisdizione di regolare il matrimonio», ha obiettato Kennedy. E Roberts ha rimandato la palla direttamente al presidente: «Non capisco perché non ha il coraggio delle sue convinzioni. Se pensa che questa legge sia incostituzionale basta che non la applichi».

AFRICA
EGITTO – 3 APRILE -PARODIA DI MORSI, ARRESTATO IL COMICO BASSEM YOUSSEF . Un mandato d’arresto è stato emesso contro il celebre presentatore egiziano bassem youssef (nella foto). il comico è l’autore del programma «el-barnameg» (lo spettacolo) che ha ottenuto un incredibile successo di pubblico prima su internet e poi in televisione. In particolare la satira caustica contro prominenti figure del movimento salafita gli era costata dure critiche e la grave accusa di «insulti all’islam». ma ad avviare il provvedimento giudiziario è stata una parodia del presidente islamista mohammed morsi. in una trasmissione andata in onda sulla cbc, youssef ha mostrato un’intervista con il presidente morsi, con il commento ironico che avrebbe avuto diritto all’oscar come miglior attore e regista. da allora il comico è accusato di diffamazione e attacco all’ordine pubblico. ed è solo uno dei gravi episodi di censura contro giornalisti e uomini di spettacolo dall’inizio della presidenza morsi. nelle settimane precedenti all’annuncio del referendum costituzionale di dicembre, decine di giornalisti e magistrati hanno manifestato contro le restrizioni alla libertà di espressione e gli estesi poteri presidenziali, subendo arresti e accuse. pochi giorni fa, cinque attivisti al cairo, tra cui il blogger abd el-fatteh, e decine ad alessandria, tra cui la socialista mahi el-masry, sono stati arrestati per le proteste contro sedi della fratellanza dello scorso venerdì.

NIGERIA -. 28 MORTI IN SCONTRI SETTARI E INTER-ETNICI
Ventotto persone sono state uccise nel corso di violenze in Nigeria, nello stato centrale del Plateau, dove scontri tra gruppi di etnie e religioni diverse hanno provocato centinaia di morti negli ultimi anni. Il Plateau negli ultimi anni è diventato il luogo simbolo degli scontri di matrice tribale e religiosa che periodicamente sconvolgono soprattutto la parte centrale del paese, la più popolosa del continente con 165 milioni di abitanti. Il bilancio è stato annunciato da fonti militari. Gli attacchi si sono verificati il 20 e 21 marzo nell’area del "Middle Belt", al centro di forti tensioni, in un Paese diviso tra una popolazione a maggioranza musulmana nel nord e per lo più cristiana e animista al sud. Un portavoce militare, il tenente colonnello Jude Akpa, ha riferito di 11 membri della minoranza etnica Fulani (per lo più musulmani), costituita prevalentemente da pastori nomadi, sono stati uccisi il 20 marzo scorso dopo aver attraversato il territorio appartenente ai membri della tribù cristiana Ataka. Il giorno dopo, un gruppo di uomini armati Fulani sarebbe tornato nella stessa zona per mettere in atto una "rappresaglia". Nello stato del Plateau le controversie su questioni legate al territorio e ai diritti politici sono degenerate in violenze che hanno ucciso circa 4.000 persone dal 2001.

MALI – 3 aprile – IN MANETTE DUE ATTIVISTI ANTI GUERRA IN MALI
In una lettera aperta foirmata con altre 70 persone avevano chiesto alla Francia di non intervenire militarmente in Mali. Per questo da una settimana Muhammad Issa al Bakr e Mansur ben Rashed al Matrushi si trovano in carcere. La notizia si è diffusa ieri attraverso canali non ufficiali.
MALI – ARRIVANO A BAMAKO I PRIMI SOLDATI BRITANNICI
Una ventina di soldati britannici sono arrivati in Mali, nel quadro della missione europea per la formazione del nuovo esercito del paese africano nell’ambito dell’attacco militare francese contro gli islamisti che avevano conquistato il nord del paese. Ventuno soldati del Reggimento Reale Irlandese sono arrivati a Bamako ieri e saranno raggiunti nelle prossime ore da Royal marines e soldati dell’artiglieria, per un totale di 40 uomini, ha annunciato oggi il ministero britannico della Difesa. «I soldati britannici non vogliono avere un ruolo di combattimento ma si occuperanno dell’addestramento delle forze armate maliane, possono contribuire a ripristinare l’ordine e impedire ai terroristi di trovare rifugio in questo paese», ha sottolineato nel comunicato il ministro della Difesa Philip Hammond. Dall’inizio del conflitto, sarebbero 600 i jihadisti rimasti uccisi nel corso dell’operazione Serval, avviata l’11 gennaio scorso per la riconquista delle città del nord del Mali cadute in mano agli integralisti islamici. Lo ha reso noto il portavoce dell’Esercito maliano, il tenente colonnello Souleymane Maiga, che ha sostenuto che le truppe di Bamako hanno perso da parte loro 63 effettivi.

REPUBBLICA CENTRO AFRICANA – UNICEF, OLTRE 600 MILA BAMBINI COLPITI DALLA CRISI Sono 600.000 i bambini nella Repubblica Centrafricana colpiti dalle conseguenze del conflitto in corso in tutto il paese. Lo ha reso noto l’Unicef, invitando tutte le parti a deporre le armi e a garantire il benessere dei bambini, e lanciando un appello per 11,1 milioni di euro, necessari per fornire aiuti salvavita alle famiglie colpite dal conflitto. Sebbene l’Onu abbia temporaneamente trasferito il personale non essenziale nel vicino Camerun, dopo il golpe di domenica scorsa, più di 60 operatori dell`Unicef stanno ancora lavorando nel paese per consegnare aiuti ai bambini, stando a quanto precisato oggi in un comunicato. «La situazione è difficile – si legge nella nota – il blocco delle strade, la presenza di gruppi armati e il potenziale rischio di saccheggi e attacchi stanno impedendo la distribuzione massiccia di aiuti». Già prima che la crisi si acuisse, ricorda l’Unicef, 13.500 bambini quest`anno soffrivano di malnutrizione, con rischio di morire. In seguito alla crisi, molti medici sono fuggiti e molti centri nutrizionali sono chiusi e sono stati saccheggiati.

TUNISI – INTERVISTA TENGO TENGELA, UN SINDACALISTA CONTRO LA DERIVA NEOLIBERISTA DELL’ANC Il vero oro del Sudafrica di Antonio TRICARICO
«La strage di Marikana è un punto di svolta. E ora la transizione energetica, basta con il mito estrattivista»
Tengo Tengela lavora al dipartimento educazione del sindacato dei metalmeccanici del Sudafrica, il secondo più grande affiliato della confederazione Cosatu. È molto attivo nel promuovere una nuova alleanza tra una parte dei sindacati e componenti della società civile per contrastare l’egemonia dell’African National Congress, sempre più di stampo neoliberista.
A DURBAN IL VERTICE DEI PAESI BRICS SI È CHIUSO CON L’ANNUNCIO DI UNA NUOVA BANCA MULTILATERALE CHE SI OPPORREBBE ALLA BANCA MONDIALE E AL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE. COME GIUDICHI L’AZIONE DEL GOVERNO DI PRETORIA?
Il nostro paese è ormai una potenza egemone nell’Africa subsahariana, direi imperiale nell’Africa australe. Non mi stupisce che il governo Zuma voglia forgiare alleanze con altre economie emergenti per opporsi alle vecchie potenze. Ma ho dei dubbi che il nostro esecutivo si discosti dalla stessa logica neoliberale seguita dalla Banca mondiale e dall’Fmi. Non è chiaro a cosa servirà questa nuova banca. Parlano di finanziare le infrastrutture, con il rischio di alimentare ancora di più il devastante estrattivismo di minerali e l’utilizzo dei combustibili fossili che affliggono già i nostri territori.
PENSI A NUOVE MINIERE IN SUDAFRICA, CHE PRODUCONO PER L’EXPORT CONTRO GLI INTERESSI DEI POVERI? COSA HA INSEGNATO IL RECENTE MASSACRO DI MARIKANA, DOVE LA POLIZIA HA SPARATO E UCCISO 47 MINATORI LO SCORSO AGOSTO?
È stato orribile, ma politicamente un punto di svolta come non l’abbiamo vissuto dal crollo del regime dell’apartheid. Finalmente potrebbe cambiare qualcosa a sinistra. La confederazione sindacale del Cosatu è stata sempre intimamente legata all’Anc. Ma oramai l’ossessione neoliberale del governo non è più sopportabile e l’assassinio dei compagni minatori in sciopero contro la Lonmin per migliorare i propri salari da fame e chiedere voce in capitolo sullo sviluppo industriale ha aperto finalmente un dibattitto acceso nel sindacato. Al Congresso nazionale del Cosatu di dicembre, le critiche di una parte della base alla leadership sono state esplicite, così come gli attacchi di alcuni sindacati, tra cui il nostro, all’Anc e anche ai comunisti.
CHE SUCCEDERÀ A QUESTO PUNTO? QUALI SONO LE ALTERNATIVE POLITICHE?
L’Anc continua a lavorare solo per migliorare le condizioni per gli investitori e le multinazionali straniere. Adesso è in discussione il nuovo piano di sviluppo del paese per i prossimi quattro anni. L’ennesimo documento di apologia estrattivista e liberista che noi metalmeccanici abbiamo rifiutato, a differenza dei vertici del Cosatu. Dobbiamo ripartire dalla lotta di Marikana per costruire alleanze alternative. Diversi sindacalisti nella base, e ora anche più in alto, stanno rompendo le file. Alle prossime elezioni non ci sarà nessun assegno in bianco per l’Anc di Zuma e chi lo appoggia.
MA CHE ALTERNATIVA SI PUÒ COSTRUIRE?
Noi abbiamo capito che non si tratta più di una crescita economica collegata allo sviluppo dei mercati globali e del grande capitale. Un paese come il nostro ha risorse naturali enormi, ma non possiamo più affidarci al mito estrattivista, serve un’altra gestione più moderata. Abbiamo posto con forza anche ai sindacati internazionali la questione della transizione energetica, tema che oggi viene discusso sempre nella logica neoliberale. Ci sono problemi anche con le energie rinnovabili, se pensate per servire solo il grande capitale. A margine del vertice dei Brics, noi abbiamo discusso con i movimenti degli altri paesi la nostra visione per rinnovabili controllate socialmente secondo una visione di lotta di classe e contro i cambiamenti climatici.
CHE INTENDI?
Per avere una vera transizione dobbiamo prima riprendere un controllo pubblico dei combustibili fossili. Per poter poi discutere di quale trasformazione dell’intero sistema energetico capitalista è necessario e di chi lo deve controllare. Servono poi nuove forme di governance partecipata, non basta solo entrare nei consigli di amministrazione. Questi i temi al centro della nostra campagna nazionale dal basso per un milione di posti di lavoro «per il clima».
ALLORA IL FUTURO DELLA CLASSE OPERAIA PASSA PER NUOVE ALLEANZE TRA GLI ATTORI SOCIALI DEI CONFLITTI NEI PAESI BRICS?
Ci siamo chiesti per anni perché una volta liberati dall’apartheid non ci fosse stata la stessa solidarietà dei sindacati del Nord per gli impatti dei piani di aggiustamento strutturale impostici da Washington. Ora ci chiediamo dove è la solidarietà politica e umana dei sindacati nei confronti di quello che succede in Grecia, che è la replica di quello che abbiamo conosciuto noi. Oggi l’egemonia culturale nel nostro paese, come credo anche in Brasile, muove ancora gran parte dei lavoratori a pensare che il fronte del Brics è progressista. Ci vuole ancora tempo per essere maggioranza nella nostra critica anche ai governi Brics e creare alleanze internazionali tra i lavoratori e forze sociali nuove e radicali in questi paesi. Ma abbiamo iniziato. Si può ancora cambiare, dobbiamo crederci in nome di chi si è sacrificato a Marikana.

TUNISI- wsf 2013 – L’ALTRA METÀ DEL MEDITERRANEO. Decine di migliaia di attivisti da tutto il mondo. Restano assenti gli asiatici, molto ridotta la partecipazione di nord e sudamericani di – Giuliana Sgrena
Al centro del Forum sociale mondiale la Palestina, la cittadinanza e le migrazioni. Tiene banco il caso del rettore dell’università, accusato di aver maltrattato due ragazze velate Oggi alle 9 il rettore dell’università di Manouba dovrà comparire davanti al giudice di primo grado (sciopero dei giudici permettendo) per la quinta volta. Il rettore è stato accusato di aver maltrattato due ragazze velate che avevano partecipato all’occupazione del suo ufficio. I salafiti avevano occupato l’università, alla fine del 2011 e inizio 2012, perché il rettore non voleva ammettere alla facoltà le studentesse con velo integrale. Il rettore Habib Kazdaghli era stato sequestrato nel suo ufficio ma, nonostante questo, sostenuto da tutto il corpo docente della facoltà di lettere e arti, non ha mai ceduto alle imposizioni degli integralisti islamici, tollerati invece dal governo. Le accuse delle donne hanno fatto rinviare a giudizio il rettore.
Oggi è la quinta comparizione e, come tutte le altre, è stata fissata durante le vacanze scolastiche per evitare la mobilitazione degli studenti. Questa volta però i giudici non hanno calcolato che la comparizione avviene nel pieno svolgimento del Forum sociale mondiale, che si tiene proprio in un campus universitario, anche se non quello di Manouba. Così ieri alle 2.500 firme raccolte tra docenti universitari a livello internazionale a sostegno di Kazdaghli si sono espressi anche gli universitari presenti al Forum. «Quello contro Kazdaghli è un processo politico orchestrato da quelli che vogliono rimettere in causa la modernità dell’università, non si tratta tanto del niqab (velo integrale) ma di un altro modello di società che vuole imporre il governo nato dalle elezioni ma che è contro i valori della rivoluzione», ha sostenuto Habib Mellakh, docente di letteratura francese a Manouba, durante una conferenza stampa che si è svolta ieri nel centro stampa del Forum. A dimostrare la montatura sarebbero i continui rinvii non giustificati, tutte le prove contro il rettore sono state smontate dai difensori di Kazdaghli e anche un giudice l’aveva scagionato ma poi ha tardato ad emettere la valutazione per oltre due mesi, sostiene Habib Mellakh, a causa di contrasti e pressioni. Intanto a sostegno di Kazdaghli, che continua a difendere l’autonomia della sua università garantita dalla legge, si sono mobilitate una sessantina di associazioni tunisine e altre straniere.
Ma il caso del rettore non è l’unico all’interno della facoltà. L’ultimo è quello di Raja Ben Slama, accusata di diffamazione ma in realtà, sostiene lei, sottoposta a un processo per un reato di opinione. Ben Slama durante una trasmissione televisiva aveva accusato il relatore dell’Assemblea costituente Habib Kheder di «abuso di fiducia». Trascrivendo un articolo il costituente di Ennahdha aveva infatti modificato il contenuto di un articolo relativo alla libertà di espressione trasformando il senso con una formulazione liberticida, sostiene Ben Slama. L’utilizzo della giustizia per impedire la libertà di espressione riguarda anche Nadia Jelassi, professoressa alla scuola delle belle arti a Tunisi, e la giornalista Khédija Yahaoui. «Ormai siamo passati dai processi alle minacce di morte», sostiene una rappresentante dell’Osservatorio delle libertà accademiche.
La denuncia del caso Kazdaghli è stato solo uno dei momenti della prima giornata del Forum sociale mondiale, ma la solidarietà espressa è importante per rendere concreto il sostegno al processo rivoluzionario e di democratizzazione della Tunisia. La prima giornata del Forum all’interno del campus universitario è iniziata all’insegna della confusione e della messa a punto dell’organizzazione, volonterosa ma a volte ancora insufficiente a soddisfare una partecipazione di decine di migliaia di stranieri. Guardando i dibattiti, le partecipazioni, le facce, si tratta sicuramente di una grande manifestazione-incontro del Mediterraneo. Ma la scarsa presenza di africani, americani del sud e del nord (salvo il Canada e il Brasile) e l’assenza di asiatici non sembrano togliere importanza all’happening. La partecipazione ai dibattiti sul Mediterraneo (cittadinanza, migrazioni, diritti), a quelli sulle donne e i loro diritti nelle varie declinazioni che vedono fra le principali protagoniste le tunisine, la centralità assoluta della Palestina sono la ricchezza di questo Forum. E poi, come non notare il protagonismo dei sahrawi, gli iracheni e i kurdi, la presenza forte e organizzata marocchina, gli algerini che litigano tra di loro facendo emergere le fratture che la concordia nazionale di Bouteflika non ha mai sanato, il tutto circondato da bancarelle di tutti i tipi, da partite di calcio perché «lo sport è per tutti», concerti e canti. Anche l’arte deve avere la sua parte, soprattutto in un paese dove gli artisti vengono repressi. Non basta il campus per le loro performance, la sera si occupano anche i teatri e l’avenue Burghiba.
TUNISI. 29 marzo. «Esprit de Tunis» e diritti di cittadinanza di FRANCESCO MARTONE
Il Forum sociale mondiale (Fsm) in corso a Tunisi fornisce l’occasione per una serie di considerazioni e riflessioni sulla politica, le pratiche di movimento, le sfide globali. A maggior ragione con il mondo arabo in permanente sommovimento, attraversato da scosse telluriche che non accennano a diminuire. Fa fede lo stato di mobilitazione permanente che si osserva in Egitto, la preoccupazione dei movimenti sociali e sindacali per il destino politico ed economico della Tunisia, la guerra in Siria, la crisi politica apertasi recentemente in Libano. Per contro il dramma sociale in Grecia, e non solo, si allarga a macchia d’olio a Cipro, apre una faglia che attraversa il Mediterraneo, offre spazi inediti di alleanze e piattaforme comuni. Quel Mediterraneo diventato tomba per migliaia di migranti e che può essere invece uno spazio di quella che Claus Leggewie chiama "cittadinanza transnazionale".
Oggi il Fsm, stretto com’è "tra ipotesi di rilancio, riconfigurazione, rielaborazione" è di fronte ad un bivio. Dopo le sue tappe propedeutiche nel Brasile ormai superpotenza,

 

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