10338 Notizie 31 dic

20121231 18:27:00 guglielmoz

EUROPA
ASIA E PACIFICO
MEDIO ORIENTE ed AFRICA
AMERICHE

EUROPA
Borse: Europa poco mossa, guarda ad Usa (ANSA) – MILANO, 31 DIC – Chiusura d’anno poco mossa per le Borse europee con l’indice d’area Stock 600 sopra la parità. L’attenzione è rivolta agli Usa nella speranza che repubblicani e democratici raggiungano un accordo sul fiscal cliff. Tra le principali Piazze, in una seduta dai toni pre festivi, sono rimaste aperte Londra, Parigi e Madrid ma ad orario ridotto. La City è stata l’unica a chiudere in negativo, attorno al mezzo punto invece il rialzo degli indici Cac-40 e Ibex-3

RUSSIA – Putin in tv, oppositori in piazza / Presidente chiede unità, poliziotti disperdono manifestanti
MOSCA, 31 DIC – La polizia antisommossa e’ intervenuta oggi nel centro di Mosca per disperdere una manifestazione organizzata dall’opposizione, mentre il presidente Vladimir Putin compariva in tv per il messaggio di fine anno chiedendo ”unita’ e senso di responsabilità”. I dimostranti intendevano difendere l’Articolo 31 della Costituzione secondo il quale ”i cittadini della Federazione Russa hanno il diritto di radunarsi pacificamente, senza armi, e indire raduni, dimostrazioni, cortei e sit-in’

BALCANI – La crisi economica travolge Skopje / Diverse migliaia di macedoni hanno manifestato ieri a Skopje chiamate in piazza dall’opposizione di sinistra che chiede le dimissioni del governo conservatore, accusato di essere responsabile della grave crisi economica che attanaglia il Paese balcanico. Lunedì scorso dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea macedone del bilancio per il 2013, erano scoppiati degli scontri fuori dal Parlamento con un bilancio di 17 feriti, tra cui 11 poliziotti. I tafferugli erano esplosi tra sostenitori dell’opposizione e i loro avversari. La manifestazione odierna, alla quale, secondo fonti della polizia, hanno partecipato circa migliaia di persone, si è svolta senza incidenti davanti alla sede del principale partito di governo (Vmro-Dpmne). In Macedonia la disoccupazione ha superato la soglia del 30%. Il budget 2013 prevede 2,7 miliardi di euro di spese e un fatturato di 2,4 miliardi di euro.

ITALIA
ROMA – IL SALUTO DI GENTE COMUNE E ALTE CARICHE AVEVA 103 ANNI. INSIGNITA NEL 1986 DEL PREMIO NOBEL, NEL 2001 NOMINATA SENATRICE A VITA. ‘IL CORPO FACCIA QUEL CHE VUOLE, IO SONO LA MENTE’ . Tante persone comuni fino a sera e tanti rappresentanti delle istituzioni hanno voluto dare un ultimo saluto a Rita Levi Montalcini, il premio Nobel per la medicina e senatrice a vita morta ieri, recandosi alla camera ardente allestita questo pomeriggio al Senato. La gente si è assiepata all’esterno di palazzo Madama, attendendo di entrare subito dopo l’omaggio reso dalle alte cariche dello Stato. Poco prima delle 15.30 sono arrivati il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente del Consiglio Mario Monti, entrambi accolti da un caloroso applauso sia quando sono entrati al Senato, sia all’uscita. Monti, che era accompagnato dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, era da poco rientrato da Venezia e in serata sarà a Milano, ma ha voluto comunque fare tappa a Roma. Anche il presidente del Senato, Renato Schifani, insieme al vice presidente Vannino Chiti, e il presidente della Camera Gianfranco Fini non hanno voluto mancare. Così come ha voluto essere presente per rendere omaggio alla scienziata scomparsa, l’ex premier Romano Prodi, accompagnato dalla moglie. "Non c’era solo il Nobel – ha poi detto Prodi lasciando il Senato – in lei c’erano una carica umana straordinaria e un’intelligenza e una capacità scientifica fuori dal comune". E ricordando la soddisfazione che Montalcini espresse quando fu nominata senatrice a vita, Prodi ha sottolineato che "dopo tanti anni trascorsi negli Stati Uniti, fuori dall’Italia, che l’aveva trattata certo non bene, questo è stato un esempio di affezione vera al Paese". Tra le personalità che si sono recate alla camera ardente, anche il vice presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, la presidente dimissionaria della Regione Lazio, Renata Polverini, l’ex presidente del Senato, Franco Marini, la presidente dei senatori Pd, Anna Finocchiaro, il senatore a vita Emilio Colombo, l’ex ministro della Giustizia, Giovanni Conso, il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Leonardo Gallitelli, e anche il presidente della Comunità Ebraica di Roma Riccardo Pacifici, che già aveva accompagnato il feretro all’uscita dall’abitazione romana, vicino a Villa Torlonia, portandolo insieme ad altri a spalla, mentre altri due rabbini leggevano alcuni brani della Torah per salutare questa grande donna di origine ebraiche. Intorno alle 18 al Senato sono giunti anche Marco Pannella e una delegazione di parlamentari Radicali. Ma a colpire di più sono le tante persone comuni, tra cui alcuni disabili in carrozzina, persone di tutte le età, che nonostante il giorno prefestivo e magari il cenone a preparare, dal primo pomeriggio e fino a sera, si sono messi in fila e hanno aspettato pazientemente il proprio turno per entrare, a scaglioni di 20 persone alla volta, nella sala dedicata ai caduti di Nassiriya e sfilare davanti alla bara, coperta di rose rosse, ai piedi due mazzi di rose bianche, fermandosi per qualche minuto di raccoglimento e lasciando un saluto personale scritto sul registro posto all’esterno della sala.
Mi si è spenta tra le braccia" racconta Pina Tripodi, considerata la più stretta collaboratrice di Rita Levi Montalcini. Tripodi, che viveva con il premio Nobel, ricorda con serenità le ultime chiacchierate con la scienziata. "L’ultima volta che abbiamo parlato – dice – era raggiante, felice. Si parlava dell’attività della Fondazione da lei creata. La professoressa aveva da sempre un sogno nel cassetto: quello di prendersi cura delle donne africane, un sogno che si è avverato solo a 90 anni ma che la riempiva di gioia e soddisfazione. Sperava di poter salvare qualche centinaio di vite, non immaginava di raggiungere il risultato di oggi: 12 mila donne aiutate dalla sua fondazione".
La collaboratrice ha ricevuto personalmente i messaggi di cordoglio che sono arrivati alla Montalcini. "Ci hanno scritto tutti – racconta – cariche istituzionali, politici, collaboratori, amici e ricercatori. Al termine della funzione religiosa mi prenderò un po’ di tempo per rispondere ad ognuno di loro".
I funerali della scienziata si svolgeranno il 2 gennaio a Torino con rito ebraico e, in forma privata e sono "aperti a tutti". Chi vuole venire a rendere omaggio alla zia può farlo. Tutti le abbiamo voluto molto bene". A spiegarlo è stata la nipote del premio Nobel, Piera Levi Montalcini, incontrando i giornalisti nell’atrio dell’ abitazione romana dove ieri si è spenta la senatrice a vita. Il premio Nobel sarà sepolta accanto alla sorella.
"PER ESPRESSA VOLONTÀ DELLA PROFESSORESSA, NON FIORI MA OFFERTE ALLA FONDAZIONE RITA LEVI-MONTALCINI ONLUS": COSÌ SI LEGGE SUL NECROLOGIO DEI FAMILIARI DELLA SCIENZIATA PUBBLICATO DAL QUOTIDIANO TORINESE "LA STAMPA". LA FONDAZIONE SI DEDICA IN PARTICOLARE A PROGETTI CHE AIUTANO LE DONNE AFRICANE AD ACCEDERE ALL’ISTRUZIONE. "Certo – scriveva Rita Levi-Montalcini sull’home page del sito – si tratta di una goccia nel mare, al confronto delle altre grandi sofferenze del Continente africano, ma sono convinta che aiutando le donne nel raggiungimento di questo diritto, si possa guardare alla libertà di crescita e di sviluppo degli individui della propria società di appartenenza e di quella globale".
ROMA – 2013 è l’anno di Verdi, festa nel mondo / Rigoletto, Traviata, Trovatore, Nabucco, Macbeth, Aida, Don Carlo, Otello: senza queste opere i teatri lirici chiuderebbero. Il 2013 è l’anno verdiano, il bicentenario della sua nascita, e viene festeggiato, in ogni angolo della terra, come patrimonio universale dell’umanità. In Italia sara’ Viva Verdi da un capo all’altro della Penisola. Si comincia a Parma il 12 gennaio con un Ballo in Maschera e si chiude con La Scala il 7 dicembre 2013, con La Traviata diretta da Daniele Gatti.
ROMA – Pensioni: super Inps -18,5% nuovi assegni 11 mesi 2012 Tra Inps e Inpdap 267.732 assegni, non c’è ancora effetto Fornero . Da 2013 almeno 62,3 anni donne, stretta anzianità Nuovi coefficienti, per stessa pensione 1 anno in più. Calo delle nuove pensioni nei primi undici mesi del 2012: gli assegni liquidati dall’Inps, compresi quelli dell’ex Inpdap, sono stati 267.732 con un calo del 18,5% rispetto ai 328.549 dello stesso periodo del 2011. Il dato è l’effetto della finestra mobile e dello scalino scattati nel 2011 mentre la riforma Fornero ha effetti dal 2013. Il dato che tiene conto delle pensioni Inpdap, dal 2012 incorporato nell’Inps, è il risultato soprattutto dell’introduzione nel 2011 della finestra mobile (12 mesi di attesa per i dipendenti, 18 per gli autonomi una volta raggiunti i requisiti) e dello "scalino" previsto dalla riforma Damiano sempre per il 2011 per la pensione di anzianità con le quote (da 59 a 60 anni l’età minima a fronte di almeno 36 anni di contributi). Gli effetti della riforma Fornero invece si avvertiranno dal 2013 quando si esauriranno la gran parte delle uscite con le vecchie regole (chi ha raggiunto i requisiti entro il 2011 e poi ha atteso le finestre).
Dal 2013 si potrà andare in pensione di vecchiaia con almeno 62 anni e tre mesi se donne (63 anni e 9 mesi se lavoratrici autonome) e con 66 anni e tre mesi se uomini. La stretta sarà significativa anche per le pensioni di anzianità. Rispetto ai primi nove mesi si è registrata una attenuazione del trend di diminuzione (dal 35,5% dei primi nove mesi al 18,5% dei primi 11). Nei primi 11 mesi dell’anno, secondo i dati che l’ANSA è in grado di anticipare, l’Inps ha liquidato 186.832 pensioni nel settore privato (-19% rispetto alle 230.549 erogate nello stesso periodo del 2011) e 80.900 nel settore pubblico (98.000 nello stesso periodo 2011 con un -17,5%), quello finora gestito dall’Inpdap, ora incorporato nell’Inps. Nel complesso i nuovi assegni liquidati sono stati circa 60.000 in meno rispetto a quelli liquidati nei primi 11 mesi dell’anno scorso dai due enti. A ottobre e novembre c’é stata una accelerazione per le nuove pensioni (si è passati da 140.616 nuovi assegni nei primi 9 mesi a 186.832 nei primi 11) con 47.000 trattamenti in più ma il confronto era con un anno nel quale si usciva ancora con le finestre "fisse" (e quindi non nei mesi di ottobre e novembre). L’età media di uscita dal lavoro nel settore privato si conferma in crescita di un anno con il passaggio da 60,3 anni a 61,3 anni del 2012 mentre nel settore pubblico si è passati da 60,8 anni a 61,1 anni. Il calo più consistente è stato registrato per le pensioni di anzianità nel privato passate da 131.538 dei primi 11 mesi del 2011 a 93.404 dei primi 11 mesi del 2012 (-29%). Un calo molto più ridotto si è avuto nel periodo per le pensioni di vecchiaia nel privato passate da 99.011 dei primi 11 mesi 2011 a 93.428 nei primi 11 mesi del 2012 (-5,6%). Nel periodo sono cresciute le pensioni di vecchiaia dei lavoratori dipendenti passate da 49.079 dei primi 11 mesi 2011 s 66.812 (+36%) mentre si sono quasi dimezzate quelle dei lavoratori autonomi. Dal 2013 si esauriranno le uscite di coloro che possono andare in pensione con le vecchie regole e si comincerà ad uscire con le regole previste dalla riforma Fornero. Per le donne dipendenti del settore privato bisognerà avere compiuto almeno 62 anni e tre mesi nel 2013 (o 62 anni nel 2012 ma a quel punto si poteva uscire con le regole precedenti avendone 61 nel 2011 e avendo quindi anche scavallato la finestra mobile)
ROMA – Pensioni, il blocco dimenticato: sopra i 1486 lordi pensionato crepa. Ma anche i pensionati “d’oro” soffrono (un assegno annuo di 90mila euro è di fatto ridotto oggi a 70mila euro). Il rigore della coppia Monti/Fornero soffoca tutti i cittadini e affoga le loro pensioni di www.blitzquotidiano.it
ROMA. Ogni giorno che la Gazzetta Ufficiale manda in terra si parla di aumenti delle tariffe, delle imposte comunali, provinciali, regionali e nazionali, di rincari dei generi di prima e seconda necessità. Ma c’è una cosa che nel 2013 non aumenterà sicuro: le pensioni. Un mancato aumento che sarà invece la tassa più pesante per una buona fetta di italiani. Una tassa dimenticata. Una tassa occulta e permanente.
Con una norma inserita dal ministro del Welfare Elsa Fornero nel decreto “Salva-Italia” del dicembre 2011, dal 1° gennaio 2012 le pensioni con un assegno mensile superiore a 1441,59 euro lordi sono “bloccate”, ovvero non vengono “adeguate” all’inflazione. Per l’anno che sta per finire, si tratta di un mancato aumento del 2,7% (pari circa al 75% dell’inflazione). Sempre la stessa norma prevede che dal 1° gennaio 2013 la soglia oltre la quale le pensioni restano bloccate sia elevata a 1486,29 euro lordi mensili. L’aumento mancato nel 2013 sarà del 3%.
Non è una tassa, è peggio: è erosione della ricchezza. Ma può intendersi “ricchezza” una pensione mensile lorda di 1486,29 euro (che sono circa 1.200 euro netti)? È veramente questa una soglia oltre la quale si spalancano le porte della serenità economica?
Il Sole 24 Ore ha calcolato che nel biennio 2012-13 un pensionato che riceve un assegno mensile di 1.500 euro lordi si troverà con mille euro in meno all’anno. Mille euro in meno che non verranno recuperati in nessun modo, neanche al termine del biennio in corso.
Fino a quando si potrà sopportare questa erosione permanente delle pensioni, soprattutto tenendo conto che su redditi medio-bassi l’inflazione si fa sentire molto di più di quel 3% ufficiale annuo?
E se i poveri non ridono, anche i ricchi piangono, se sono ricchi pensionati. Se l’accoppiata Monti-Fornero aveva bloccato gli adeguamenti per le pensioni dai 1400 euro in su, la bastonata per le pensioni più alte era arrivata dal duo Berlusconi-Tremonti, che con il decreto legge 98, approvato nel luglio 2011, ha previsto un “contributo di perequazione“. In pratica è un prelievo, un’altra tassa. A partire dal 1° agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014, i pensionati che all’anno ricevono un assegno lordo da 90.000 euro a 150.000 euro verseranno un “contributo di perequazione”, prelevato direttamente alla fonte, del 5%. Contributo che sarà del 10% per i pensionati che ricevono dai 150.000 ai 200.000 euro all’anno e del 15% per le pensioni oltre i 200.000 annui. Sempre dall’agosto 2011 e fino al 31 dicembre 2014 le pensioni di alto importo sono ovviamente bloccate rispetto all’inflazione. Novantamila euro sono tanti, tantissimi ma perfino una pensione così in tre anni e mezzo di blocco (inflazione composta di più del 10%) e cinque per cento in meno di “contributo”, diventa di 70mila circa. Lordi, cioè 3.500 euro netti al mese. Un livello di reddito con il quale questi pensionati se la cavano certo, anche se diventa progressivamente difficile continuare a definire “d’oro” le loro pensioni. Quelli a 1500 e neanche lordi al mese, quelli a 25mila lordi all’anno progressivamente se la cavano molto meno. Il rigore li soffoca, affoga le loro pensioni. L’alternativa? A sinistra si chiede di sbloccare le pensioni fino a 3000 euro lordi mensili ma contemporaneamente di introdurre da questa soglia in poi una sorta di tassa patrimoniale su ogni reddito. Messa così, sarebbe un po’ uscire dalla padella per andare nella brace. E a destra che dicono sulle pensioni? Nulla, tranne che erano ricche e grasse quando c’era Berlusconi. Sperando che nessuno ricordi che c’era appena un anno fa.
(Testo in http://www.blitzquotidiano.it/economia/pensioni-blocco-pensionato-crepa-1433999/ )

ASIA e PACIFICO
AUSTRALIA – Capodanno, mega-show pirotecnico Sydney / Costa est Australia e Nuova Zelanda sono gia’ entrati nel 2013 – Capodanno, mega-show pirotecnico Sydney (ANSA) – SYDNEY (AUSTRALIA), 31 DIC – Le isole del Pacifico del Sud, la Nuova Zelanda e la costa orientale dell’Australia sono gia’ nel 2013. In particolare, piu’ di un milione e mezzo di persone ha assistito nella baia di Sydney (Australia) al grandioso spettacolo pirotecnico che per tradizione saluta l’arrivo dell’anno nuovo nella metropoli portuale. Il mega-show di fuochi d’artificio che ha dato il benvenuto al 2013 e’ costato 6,9 milioni di dollari. (ANSA).

PAKISTAN – attacco drone Usa, 5 uccisi – ISLAMABAD, 28 DIC – Almeno cinque presunti militanti islamici sono stati uccisi nel raid di un aereo americano senza pilota (drone) nella regione tribale del Nord Waziristan, al confine con l’Afghanistan, dove sorgono le basi dei talebani e di Al Qaida. Lo ha riferito una fonte dell’intelligence. L’attacco e’ avvenuto nell’area di Shawal. ”Tre missili hanno colpito la casa di un comandate talebano locale noto come Abdur Rehman Mehsud” ha precisato la fonte. (ANSA)

INDIA – Ancora manifestazioni contro la violenza sulle donne nella capitale – Ragazze in piazza, Delhi blindata di Ma. Fo.
DELHI – Il governo promette misure di legge e ordine. Ma in Punjab una ragazza si suicida: la polizia voleva che ritirasse la denuncia dello stupro subìto
Decine di giovani, soprattutto studentesse e studenti universitari, si sono raccolti ieri nel centro della capitale indiana New Delhi, per l’ennesima volta nelle ultime due settimane. Volevano manifestare contro le aggressioni sessuali, lo stupro, gli uomini che odiano le donne, la polizia che non le difende: giovani e ragazze, alcune in uniforme scolastica. cartelli che dicevano «vogliamo sicurezza», «vogliamo giustizia», o «il mio corpo, i miei diritti». Da due settimane manifestazioni così si susseguono a New Delhi, da quando il 16 dicembre una giovane donna è stata selvaggiamente pichiata e violentata da sei uomini su un autobus dove era salita insieme a un amico, a sua volta pestato brutalmente. La giovane, una studentessa paramedica, è da allora in rianimazione in condizioni gravissime e ieri è stata trasferita a Singapore per cure più specializzate.
Ieri però le manifestanti non sono riusciti a muoversi dal Gate of India, monumento nel cuore della zona più ufficiale della città: a fronteggiarli c’erano barricate e cordoni di polizia in pieno assetto antisommossa, con lacrimogeni e idranti. Le ragazze hanno cercato di forzare il blocco al grido «riconquisteremo la nostra libertà», ma alla fine il corteo non si è formato. La scorsa settimana proteste simili erano finite in scontri, e da allora la zona degli uffici governativi è off limits per i manifestanti.
E’ la prima volta che New Delhi assiste a un’ondata di proteste così ampia su una questione come la violenza sessuale. In gran parte è stata una reazione spontanea a un caso così feroce, e riflette la rabbia di tante donne, soprattutto giovani e studentesse. Ovviamente sull’indignazione pubblica suscitata dall’ennesimo stupro sono saltati anche diversi partiti politici: l’opposizione di centrodestra ha lanciato gravi accuse al partito di governo, il Congress, che non sarebbe in grado di fare fronte a una questione di legge e ordine – in alcune manifestazioni sono comparsi cartelli con il disegno del cappio e appelli alla castrazione o alla pena di morte contro gli stupratori.
Preso in contropiede dalle proteste pubbliche, il partito di governo è stato lento a rispondere. E ora sembra alla rincorsa: dapprima ha annunciato maggiori controlli sul personale degli autobus privati, poi costituito commissioni di inchiesta sull’operato della polizia nel caso del 16 dicembre, infine incaricato una commissione di giuristi di rivedere la legislazione attuale in materia di aggressioni sessuali. Ieri un viceministro degli interni federale, R.P.N. Sigh, ha annunciato che sarà creato un data base su tutti i condannati per stupro, un archivio con nome, foto e indirizzo consultabile sul sito web della polizia. Sempre ieri una commissione parlamentare ha convocato il capo della polizia metropolitana di New Delhi, per chiarire gli eventi: la chief minister (capo del governo) del territorio federale di new Delhi, signora Sheila Dixit, ha chiesto le sue dimissioni accusandolo di aver tentato di coprire le inefficenze della polizia nei casi di aggressioni sessuali.
L’atteggiamento della polizia di fronte alla violenza sulle donne è parte del problema, come sottolinea una nuova, atroce notizia proveniente da Amritsar, capitale del Punjab indiano. Una ragazza di 17 anni, vittima di uno stupro di gruppo denunciato lo scorso novembre, si è sentita ripetutamente chiedere dalla polizia di ritirare la denuncia, accettare un matrimonio «riparatore» con uno degli aggressori, o almeno un risarcimento: al punto che la giovane si è tolta la vita. La televisione Ndtv, che riferisce la notizia, dice che solo dopo il suicidio sono stati arrestati tre stupratori, un ufficiale di polizia è stato licenziato e un altro sospeso. «Il fatto è che la cultura dominante riguardo alla violenza sessuale è terribilmente arretrata», commenta Kalpana Sharma, giornalista di Bombay che nella sua ultima rubrica chiede «cosa succede agli uomini indiani?». La violenza sessuale non è certo cosa nuova, ma in una megacittà come New Delhi, osserva Sharma, è relativamente nuovo che tante giovani donne siano nelle scuole, nel lavoro, nello spazio pubblico: e si scontrano con una cultura maschile che non le rispetta. «La società urbana è in transizione, e le donne ne pagano il prezzo».

INDIA – Mentre il paese piange la morte della 23enne Amanat, il branco uccide Femminicidio • ancora vicino a Calcutta: una donna di 45 anni violentata e ammazzata da otto vicini di casa INDIA • La morte della giovane stuprata due settimane fa spinge mi «Cosa c’è di sbagliato nei nostri uomini?» di Marina Forti
Per la prima volta la violenza sessuale è discussa in modo pubblico. E anche i pregiudizi sessisti Cortei e veglie a New Delhi, Mumbai e altre città. C’è chi urla «impiccateli», chi chiede rispetto
Migliaia di persone, donne e uomini di ogni età, hanno riempito ieri le vie di New Delhi e di altre città indiane per commemorare la giovane donna violentata e massacrata di botte il 16 dicembre scorso nella capitale indiana. Lei, la giovane che alcuni giornali in cerca di un nome hanno soprannominato Amanat (in lingua urdu significa «tesoro»), non è sopravvissuta all’aggressione: è morta nella notte tra venerdì e sabato nell’ospedale di Singapore dove era stata trasferita nell’estremo tentativo di salvarle la vita. Ma non c’è stato molto da fare. Gli aggressori avevano usato una spranga di ferro non solo per picchiare lei e l’amico con cui viaggiava, ma anche per stuprarla, prima di gettarla fuori dall’autobus, nuda e con la testa e il ventre lacerati. La notizia della morte, giunta ieri mattina, ha spinto migliaia a partecipare a manifestazioni protesta, cortei, veglie funebri a New Delhi, Mumbai, Calcutta, Bangalore e altre città. Nella capitale già al mattino un corteo di studentesse e studenti della Jawaharlal Nehru University, una delle grandi università del paese, ha raggiunto la fermata degli autobus dove la ragazza e il suo amico erano inconsapevolmente saliti sul’automezzo che si è rivelato una trappola mortale (ci sono state molte polemiche nelle ultime due settimane sulla mancanza di controlli nel sistema di trasporti privati, dove può succedere che una compagbnia sia abusiva o che il personale scorrazzi con l’autobus fuori servizio, come nel caso in questione). Proteste pacifiche quelle di ieri, dopo gli scontri visti la scorsa settimana nella capitale dove la polizia aveva fatto ampio uso di lacrimogeni e idranti per disperdere i dimostranti. Anche ieri in effetti le barricate di polizia isolavano la zona governativa di New Delhi, l’intero centro era presidiato fin dal primo mattino da migliaia di agenti in tenuta antisommossa, dieci fermate del metrò chiuse per sicurezza, alcune strade chiuse al traffico. Ma per una volta la polizia ha controllato senza disperdere la folla che per tutto il giorno ha riempito Jantar Mantar, un grande viale con giardini vicino al parlamento spesso usato per pubbliche manifestazioni. Anche il governo è stato più sollecito di due settimane fa. «E’ il momento di un dibattito spassionato e una ricerca dei cambiamenti critici necessari nella nostra società», ha detto ieri il Primo ministro Manmohan Singh: dopo l’orribile aggressione il premier era rimasto in silenzio per quasi una settimana, mentre la polizia disperdeva le proteste, prima di dire qualcosa. Sull’indignazione pubblica era invece saltata l’opposizione di centrodestra, che ha alimentato parte delle manifestazioni al grido di «pena di morte per gli stupratori». Anche ieri sono risuonati slogan del tipo «impiccateli». Ed è sul terreno della legge e ordine che il governo ha reagito finora all’ondata di proteste: promettendo controlli sui bus abusivi, inchieste, più polizia nelle strade. Gli imputati dell’aggressione (cinque uomini tra 20 e 40 anni e un ragazzo di 15), arrestati il giorno dopo, saranno formalmente imputati anche di omicidio, ha dichiarato ieri il vicecapo della polizia di New Delhi, e il ministro dell’interno federale Sushilkumar Shinde ha dichiarato che «saranno puniti in modo esemplare». Giorni fa aveva già detto che per certi casi di stupro si può considerare l’impiccagione; in ogni caso, per l’omicidio è prevista in India la pena capitale. Al di là degli appelli a misure di sicurezza e leggi più draconiane, la terribile aggressione avvenuta a New Delhi ha aperto un dibattito sulla violenza sessuale che per la prima volta coinvolge il mainstream. Sui giornali, o almeno quelli in lingua inglese, si leggono appelli a misure di sicurezza più draconiane ma anche riflessioni sul posto delle donne in una società urbana in trasformazione, sulle discriminazioni di genere, i pregiudizi sessisti. Giorni fa un dirigente della polizia è stato rimbrottato dopo aver detto che le donne dovrebbero evitare di uscire di sera. Il fatto è che queste «gaffes» rivelano una cultura molto radicata. Shoma Chaudhury, caporedattore del settimanale Tehelka , scriveva la scorsa settimana: «Ammettiamolo: lo stupro è culturalmente quasi sanzionato in India», in ogni strato della società, da discorsi che guardano a ogni fatto di violenza «attraverso il prisma della responsabilità della donna: com’era vestita, se era accompagnata da un maschio protettore, se aveva un atteggiamento irreprensibile». L’eterna storia della vittima trasformata in colpevole. Proprio Tehelka lo scorso aprile aveva interrogato e segretamente filmato decine di dirigenti di polizia della regione metropolitana di Ne w Delhi a proposito di violenza sulle donne: risultava un pregiudizio fortissimo (quelle che frequentano locali pubblici, bevono con gli amici, vanno in giro, sono donne «che ci stanno ma poi ti accusano di stupro»), lo stesso che trattiene le donne dal denunciare, o spinge poliziotti e perfino magistrati a consigliare il matrimonio «riparatore». «Che succede agli uomini indiani» si chiedeva giorni fa la giornalista Kalpana Sharma sulle colonne di The Hindu , autorevole quotidiano progressista. «La violenza contro le donne chiama in causa la cultura maschile», mi dice Sharma, che raggiungo al telefono: «Dovremmo sentirci più sicure in uno stato di polizia? considera che tra l’80 e il 90 per cento delle violenze sessuali denunciate sono attribuite a un uomo noto alla vittima: parente, vicino di casa, amico di famiglia – non lo sconosciuto che ti assale per strada. Il fatto è che viviamo una transizione culturale. Molte più donne sono nello spazio pubblico, nell’istruzione, nel lavoro, ma la società maschile non si è adattata». Ma le aggressioni sessuali non sono cosa nuova e «il femminismo urbano dovrà denunciare i quotidiani stupri di contadine fuoricasta, o nelle zone in conflitto: è una battaglia culturale profonda». l’India, dice Sharma, «sta vivendo una trasformazione, quasi uno scontro di culture: e le donne ne pagano il prezzo». MUMBAI, LA PROTESTA DELLE DONNE CONTRO LO STUPRO AVVENUTO A NEW DELHI DELLA RAGAZZA MORTA IERI A SINGAPORE /REUTERS

MEDIO ORIENTE e AFRICA
PALESTINA – A Gaza / INCONTRO CON ROSA SCHIANO CHE CONTINUA L’OPERA DI VIK «Con "Benvenuti in Palestina" testimoniamo contro il blocco» / Una delegazione composta da nove attivisti della Freedom Flotilla Italia nell’ambito della quarta missione internazionale «Benvenuti in Palestina», si trova da due giorni a Gaza. Nei giorni precedenti, mentre erano ancora in Egitto, gli italiani hanno voluto esprimere solidarietà al presidio permanente di Piazza Tahrir al Cairo dove i rivoluzionari egiziani continuano la battaglia contro la Costituzione di matrice islamica che il governo dei Fratelli Musulmani sta imponendo al paese. Ad Al Arish, nel Sinai, la delegazione ha incontrato poi militanti del Fronte Socialista. Nonostante gli ostacoli che ancora sono posti al passaggio del valico di Rafah, la delegazione che comprende anche Marco Ramazzotti Stockel, l’italiano ebreo a bordo della nave Estelle bloccata lo scorso ottobre da Israele, ha attraversato il confine ed è stata accolta da rappresentanti del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), principale organizzazione della sinistra palestinese. A Gaza City il gruppo ha incontrato i dirigenti del Fplp e di molte associazioni che operano sul territorio. In particolare i palestinesi hanno rilanciato l’appello al boicottaggio dell’economia e dell’immagine stessa di Israele nel quadro della campagna internazionale BDS. Nel corso della riunione la delegazione italiana ha avuto un piccolo assaggio della quotidianità vissuta dalla popolazione di Gaza, quando si è interrotta l’erogazione della energia elettrica facendo continuare il dibattito al buio. Infatti in tutta Gaza ogni giorno l’elettricità è erogata saltuariamente con gravi conseguenza che si possono facilmente immaginare pensando soprattutto alle strutture sanitarie. Uno dei momenti più emozionanti della giornata è stato l’incontro con Rosa Schiano, la giovane attivista napoletana che lavora da oltre un anno a Gaza a fianco dei pescatori e dei contadini, continuando l’opera di Vittorio Arrigoni. Il programma prevede incontri con associazioni e organizzazioni che si occupano dei vari settori della vita sociale: assistenza ai prigionieri, organizzazione dei lavoratori (in particolare pescatori e contadini, le categorie maggiormente penalizzate dall’assedio), sostegno all’educazione, diritti delle donne. La prima visita della delegazione italiana sarà presso l’ospedale Al Awda che opera in una delle zone più colpite della Striscia di Gaza, la città e il campo profughi di Jabalia, vicino al confine israeliano. Freedom Flotilla Italia

ISRAELE – A gennaio elezioni, senza una vera opposizione di centrosinistra. È forte l’obiettivo di intensificare le colonie / Netanyahu vira ancora più a destra di Michele Giorgio
GERUSALEMME – Per una maggioranza di ultradestra che prepari (con il via libera di Obama) la guerra all’Iran Tra meno di un mese gli israeliani andranno alle urne e la campagna elettorale sta mettendo in luce due aspetti: l’ulteriore virata a destra del partito Likud e l’assenza di una opposizione di qualche peso alla maggioranza di ultradestra che Benyamin Netanyahu, dopo il 22 gennaio, costruirà per fare la guerra all’Iran (se arriverà il via libera di Barack Obama) e intensificare la colonizzazione dei territori palestinesi occupati. Non sono in grado di impensierire Netanyahu i «sette nani» del centrosinistra: dalla laburista Yechimovic alla «movimentista» Tzipi Livni fino al telegenico Yair Lapid, senza dimenticare che Kadima, quattro anni fa entrato alla Knesset come il partito più votato, è destinato a sparire.
Il primo ministro ad inizio settimana ha lanciato ufficialmente la campagna elettorale del Likud con il tono di un capo di stato maggiore. Davanti a migliaia di sostenitori ha detto che il partito in Parlamento ci deve arrivare non come una barchetta qualsiasi ma come una poderosa portaerei, grazie anche all’alleanza che ha stabilito con il partito "Yisrael Beitenu" (accusato da più parti di razzismo). Tuttavia il patto elettorale con Yisrael Beitenu non sta dando i frutti sperati. Dal listone con gli ultranazionalisti Netanyahu contava di ottenere poco sotto i 50 seggi. Invece i sondaggi, pur dandolo in ampio vantaggio su tutti gli altri partiti, gli assegnano 35-37 seggi su 120. Pochi per raggiungere la maggioranza di 61 deputati e il premier, conscio che le coalizioni diminuiscono il potere della formazione di maggioranza relativa, ha addirittura avvertito chi non voterà per il suo partito, «indebolirà» Israele in un periodo molto delicato per il Medio Oriente. Ad incitarlo l’altro giorno c’era anche la popolare cantante ebrea sefardita Sarit Haddad che gli ha dedicato la sua canzone di maggiore successo: «Sei un cannone!…Sopra a te non c’è nessuno».
Eppure il cannone Netanyahu non spara tanto lontano come vorrebbe. Un formidabile avversario lo sta sfidando con successo sul terreno dell’oltranzismo nazionalista: Naftali Bennett, il leader di HaBayit HaYehudi (Focolare ebraico), ossia lo storico partito Nazionale-religioso coalizzato con altre forze dell’estrema di destra. In poche settimane Bennett ha risucchiato a Netanyahu 6-7 seggi e ha consolidato, almeno nei sondaggi, la sua posizione di terza forza (15 seggi) alla Knesset. Anzi, dato che procede come un rullo compressore, HaBayit Ha Yehudi comincia ad insidiare i laburisti, secondi con 17-18 seggi. Bennett, 40 anni, figlio di ebrei statunitensi, è un personaggio che piace parecchio all’israeliano medio che vota a destra. E’ religioso ma non è un rabbino, sa parlare e, soprattutto, dice senza esitazioni quello che pensano molti: mai uno Stato di Palestina, mai l’evacuazione delle colonie, i soldati hanno il diritto di non rispettare gli ordini dei superiori contrari alla loro coscienza sionista (poi ha un po’ corretto il tiro), la terra (occupata dei palestinesi) appartiene tutta a Israele. Predica i «valori della famiglia», il rispetto dei fondamenti dell’Ebraismo e ha fatto capire di non avere tempo per i diritti delle minoranze: non solo gli arabi israeliani (i palestinesi con cittadinanza israeliana) ma anche gli omosessuali. Piace inoltre per il suo passato di ufficiale delle unità di elite dell’esercito, Sayeret Matkal e Maglan, incaricate di eliminare arabi dietro le «linee nemiche», e per la sua abilità di uomo d’affari: a soli 27 anni creò una security software company che ha poi venduto sei anni dopo per 145 milioni di dollari. Nel 2011 ha fondato "Yisraelim", un network con 90mila iscritti, con l’obiettvo di diffondere on line i valori del sionismo.
Bennett è un misto di religione, modernità, tradizione, nazionalismo sfrenato che sta mettendo alle corde Netanyahu. Il premier quelle cose le pensa anche lui – i due hanno cooperato negli anni passati – ma non può dirle tutte e apertamente come il leader di HaBayit HaYehudi, perchè deve tenere conto del ruolo di fronte al mondo. Cerca di contrastarlo a colpi di colonizzazione e di attacchi ai palestinesi e ai loro sostenitori, però con risultati scadenti. Allo stesso tempo si prepara alla possibilità concreta di accogliere Bennett nella futura coalizione, dato che non avrà i numeri per escluderlo dal governo. Certo potrebbe far ricorso ancora al sostegno dello Shas ma il feeling con il più importante (ma in leggera decadenza) dei partiti religiosi non è più quello di un tempo. Lo dimostra anche la decisione del Likud di «riprendersi», nel futuro governo, i ministeri dell’interno e delle costruzioni oggi nelle mani dello Shas. Ministeri che potrebbe poi cedere agli alleati di Yisrael Beitenu o proprio al partito di Naftali Bennett. In quel caso nascerebbe una coalizione da combattimento, quel governo di guerra che piace al premier e all’ultradestra ma che sarebbe insostenibile a livello internazionale.

RCA – REPUBBLICA CENTRO AFRICANA – L’Onu si ritira, il governo chiede l’intervento di Francia e Ue
I ribelli avanzano verso Bangui – Raffaele K. Salinari – «Ansia» è la parola che aleggia a Bangui, la capitale della Repubblica Centro Africana in merito all’avanzata dei ribelli del nord che hanno, in poche settimane, conquistato gran parte del paese, ultimo il centro minerario di Bambari, terza città in ordine di grandezza. Mentre l’Onu fa evacuare il personale «non necessario» e gli Usa invitano i loro cittadini a fare altrettanto, i residenti francesi temono il peggio se i guerriglieri arrivassero nella capitale.
L’avanzata è opera della Seleka Coalition, formata da soldati appartenenti ai vari gruppi ribelli che, nel 2007, l’attuale presidente Francois Bozize aveva promesso, invano, di reintegrare nell’esercito nazionale, dopo gli accordi di pace. I ribelli denunciano che anche l’impegno di provvedere ad un sostegno economico per coloro i quali avessero deposto le armi, non è stato rispettato. Le voci su una possibile conquista di Bangui si susseguono contraddittorie: alcuni capi ribelli sostengono che non intendono farlo, se il presidente rispetterà gli accordi. In questa situazione la comunità internazionale, Europa in testa, appare senza una chiara visione di ciò che si dovrebbe fare, mostrando un arretramento drammatico rispetto all’analisi di ciò che avviene in questa parte del mondo. Da una parte c’è la Francia, che ha un piccolo contingente di circa 200 soldati nella capitale. Il presidente Hollande ha dichiarato che non interverrà a favore del regime in carica: «I tempi dell’intervento diretto sono finiti» ha affermato, «la nostra presenza non serve a proteggere il regime ma i nostri compatrioti». Nei giorni scorsi gruppi di dimostranti hanno bruciato la bandiera francese e tirato pietre di fronte all’ambasciata; i manifestanti volevano che l’ex potenza coloniale intervenisse a favore dei ribelli, segno che sotto la cenere cova anche nella capitale un importante dissenso verso il presidente, che ha perso il potere con un colpo di stato nel 2003 e che a sua volta viene dai ranghi dell’esercito. D’altra parte anche l’Unione Europea ha una contingente di circa 400 uomini con il mandato di proteggere i civili, e dunque la sovrapposizione tra i due mandati, francese ed europeo, appare evidente e foriero di ulteriori indecisioni. La situazione è invero molto confusa, dato che Bozize chiede da giorni un intervento sia della Francia sia dell’Unione Europea a sostegno delle sue truppe per sconfiggere la ribellione; le motivazione del presidente sono che la ribellione può facilmente contagiare sia il vicino Ciad, che ha problemi simili e la cui instabilità è acclamata, sia il Sudan, provato da decenni di guerra civile ed oggi ancora in tensione per la mancata definizione delle frontiere tra il Nord ed il Sud.
A fronte di questa crisi regionale, dunque, appare chiaro come, ancora una volta, non vi sia alcuna politica estera europea «preventiva» degna di questo nome e come la Francia, sino a Jacques Chirac impegnata a sostenere la sua politica di ingerenza nel «pré carré africaine», lascia un vuoto che sembra essere a beneficio degli interessi delle compagnie minerarie e diamantifere che, sin dai tempi di Bokassa, gestiscono il fiorente traffico clandestino dei diamanti. Si annuncia dunque una periodo di estrema turbolenza, un arco di crisi che partendo dalla Siria attraversa la Libia ed arriva ad interessare tutto il Maghreb ed oltre, includendo ormai Mali, Ciad, Sud Sudan e Repubblica Centro Africana. Certo le materie prime che interessano l’Occidente, materiali radioattivi inclusi, verranno comprati a minor prezzo, ma la politica europea non sembra considerare il maggior prezzo di vite umane che nessuna missione umanitaria sarà mai in grado di salvaguardare.

AMERICHE
STATI UNITI – «Fiscal cliff», pronto nuovo piano di Obama
WASHINGTON – Il presidente americano, Barack Obama, invierà nelle prossime ore al Congresso un nuovo piano per evitare il «fiscal cliff», il baratro fiscale. Lo annuncia la Cnn citando fonti democratiche e repubblicane. Obama ha interrotto le vacanze alle Hawaii e, lasciate moglie e figlie, è tornato a Washington nell’ultimo tentativo di evitare il baratro fiscale in cui rischiano di precipitare le classi meno abbienti del Paese una volta che il primo gennaio scadrà tutta una serie di agevolazioni fiscali. È arrivato alla Casa Bianca alle 18 (ora italiana) e non ha risposto alle domande dei giornalisti. I parlamentari del Congresso sembrano aver respinto ogni ipotesi di compromesso dopo lo scontro fra il leader democratico al Senato, Harry Reid e i repubblicani, accusati di aver provocato lo stallo.
Il filo si era interrotto il 21 dicembre, quando il leader dei repubblicani alla Camera, John Boehner aveva dovuto ritirare la sua proposta («il piano B») semplicemente perché i suoi compagni di partito non l’avrebbero votata. La misura top, in quel caso, era un (leggero) aumento delle tasse per le famiglie con un reddito annuale superiore al milione di dollari. Il fatto è che il «fiscal cliff» è un puzzle che somma le politiche degli ultimi trent’anni, compresa la presidenza di Ronald Reagan. C’è da una parte l’idea liberista (e repubblicana): la fascia più ricca della popolazione è quella che produce reddito e posti di lavoro e dunque va agevolata, non certo colpita da imposte pesanti. Le risorse vanno cercate tagliando la spesa pubblica, soprattutto lo stato sociale. Dall’altra c’è la concezione più redistributiva (e quindi dei democratici): occorrono risorse fiscali da prelevare sui redditi più cospicui per sostenere i disoccupati e lo stato sociale (pensioni, assistenza medica per anziani e poveri). Una frattura insanabile da 18 mesi, perché ciascun campo chiede di intervenire pesantemente nella base sociale di sostegno dell’altro.
Senza un”intesa, due milioni di americani rischiano di restare senza sussidi di disoccupazione e la payroll tax, la tassa sui salari, crescerebbe di due punti. Il Dipartimento del Tesoro americano sta preparando misure «straordinarie» per evitare che il debito pubblico superi il massimale di 16.394 miliardi di dollari, livello che può precipitare gli Usa nel default.

NEW YORK, 31 DIC – fiscal cliff, accordo piu’ vicino si tratta ad oltranza per evitare baratro / Il leader della minoranza repubblicana al Senato Mitch McConnell e il vice presidente Joe Biden hanno compiuto durante la notte ”progressi significativi” nelle trattative per evitare il cosiddetto ‘fiscal cliff’, riferisce il sito Politico citando fonti informate sui colloqui. Si tratta ad oltranza per evitare il baratro fiscale, sin da domani.

BRASILE – SANPAOLO / Scambia bibbia per arma e spara Un poliziotto di San Paolo uccide uno spazzino. La città è fra le piu’ violente. Uno spazzino brasiliano è stato ucciso per errore a San Paolo da un poliziotto che aveva scambiato per arma una Bibbia che l’uomo teneva nella tasca dei pantaloni. Lo rende noto la stampa locale. Al momento dell’incidente, Antonio Marcos dos Santos, 42 anni, si trovava a una decina di metri da casa, portando con sé una Bibbia e camminando in direzione di una vicina chiesa. Una pattuglia delle forze dell’ordine lo ha però fermato per strada intimandogli di alzare le mani: quando ha obbedito, un agente ha notato che lo spazzino aveva un oggetto in tasca e, pensando che fosse una pistola, gli ha sparato. Il proiettile ha raggiunto al collo la vittima, che è morta poco dopo. Da mesi, la regione metropolitana di San Paolo è colpita da un’anomala ondata di violenza che ha causato finora centinaia di morti, tra cui molti poliziotti.

CUBA – BOTTI DI INIZIO ANNO 2013 IL COMPROMESSO STORICO / Roberto Livi / L’attesa americana è tutta per la immigration reform che darà cittadinanza a 11 milioni di abitanti «undocumented». E il piccolo schermo dimentica le elezioni puntando su spie Kgb, nuove girls e mostri Con l’ultimo mandato presidenziale di Raùl Castro, si gioca la partita, contro il tempo, delle riforme economiche e politiche
«Valutiamo che l’attualizzazione del modello economico marcia con passo sicuro e si cominciano ad affrontare questioni di maggior peso, complessità e profondità». All’unanimità, come da prassi, i deputati dell’Assemblea nazionale del Poder popular – ovvero il parlamento cubano- due settimane fa, alla conclusione della riunione plenaria di fine anno, hanno dato una valutazione positiva del processo di riforma (attualizzazione, nel linguaggio ufficiale) economico-sociale del socialismo cubano. Riforme disegnate dai Lineamenti approvati (dal parlamento) l’anno scorso e ratificati dal partito comunista all’inizio di quest’anno che hanno lo scopo di ridurre progressivamente il peso (asfissiante per l’economia e la popolazione) dello Stato e lasciare più spazio alla gestione manageriale e a un settore «sociale» -ovvero cooperativista- e permettere lo sviluppo -anche questo progressivo e sotto stretto controllo centrale- di un settore privato. Dal punto di vista del governo, dunque, l’inizio di questo processo -che si sapeva difficile, lungo e ostacolato da un’opposizione interna ( l’immobilismo di settori della burocrazia e degli "ortodossi" del partito) – è stato valutato in termini positivi. Il Pil è cresciuto del 3,1%; inferiore è vero al 3,4% previsto dal piano, ma, con i chiari di luna globali, ritenuto soddisfacente. Non solo, per la prima volta ha contribuito al Pil anche il settore privato, rappresentato da circa 400.000 cuentapropistas , lavoratori per conto proprio, la maggioranza dei quali producono servizi più che beni. Accanto a misure economiche il governo ha varato anche riforme che hanno avuto un forte impatto (e appoggio) sociale, la compra-vendita libera di veicoli a motore e delle case e la possibilità per la maggioranza dei cubani di poter viaggiare ed espatriare all’estero senza previ (e costosi) permessi delle autorità statali. Questa valutazione ha portato il presidente Raúl Castro a affermare (titolo a tutta pagina del quotidiano comunista Granma del 14 dicembre) che nel 2013 «persisteremos en nuestro rumbo proprio», ovvero che continuerà la linea decisa autonomamente e sovranamente da Cuba. L’isola e il partito comunista che la governa e guida ribadiscono dunque l’unicità del modello cubano, nonostante e contro le ingerenze del capitalismo globale. Il punto nodale di questa "scommessa" dovrebbe ruotare attorno allo sviluppo di un forte settore cooperativistico. Con un decreto legge varato l’11 dicembre si estende al settore non agricolo la possibilità di formare cooperative che, avendo «personalità giuridica» potranno importare ed esportare e interagire col settore statale. Anche in questo caso, il processo avverrà sotto controllo del governo e si inizierà con poco più di 200 cooperative che agiranno in 47 settori (i primi dovrebbero essere informatica, contabilità, traduzione, trasporti) e comporterà affrontare complessi problemi strategici che vanno dalla formazione dei prezzi alla costituzione di mercati all’ingrosso. Economisti ed analisti "indipendenti" non condividono la valutazione ottimista (il bicchiere mezzo pieno) del governo. In generale ritengono che il processo di riforme proceda con troppa lentezza ed eccessivi vincoli che riducono o addirittura compromettono le possibilità di dinamizzare il settore produttivo -fortemente in crisi. Il settore privato non è cresciuto nelle proporzioni auspicate per poter controbilanciare i tagli previsti negli organici statali (mezzo milione entro il 2015, fino a oggi il governo ha potuto eliminare solo 140.000 posti statali). Non solo, i cuentapropistas (spesso di fatto rivenditori) hanno prodotto maggiori servizi ma a prezzi assai più alti, provocando disagi e forti proteste della popolazione. Le critiche più forti -accuse per quanto riguarda la piccola e divisa opposizione che denuncia un «aumento della repressione»- si riferiscono alla «mancanza di riforme politiche». Su questo punto insistono soprattutto settori della Chiesa cattolica, come quelli rappresentati dalla rivista Espacio laical ,che apertamente auspica la formazione di un movimento democristiano nell’isola. La Chiesa quest’anno è stata l’interlocutrice del governo di Raúl Castro, il quale ha concesso maggior spazio di manovra al clero e al movimento laico cattolico (riviste e pubblicazioni, corsi di lingue e di informatica e una vera e propria scuola quadri, spazio in tv come per la visita del Papa e per l’omelia natalizia del cardinal Ortega). Nell’ultimo editoriale, Espacio Laical mette in luce come il processo elettorale in corso (le "elezioni generali", ovvero il rinnovo di tutte strutture del Poder popular fino alla nomina a presidente di Raúl Castro all’inizio di febbraio dell’anno che viene) siano di fatto controllate dal partito comunista e prevedano solo una parziale partecipazione reale della popolazione. Non solo, quello che inizia fra pochi mesi sarà l’ultimo mandato presidenziale di Raúl e con lui si estinguerà il governo della generazione che ha fatto la rivoluzione contro la dittatura di Batista e che dalla rivoluzione ha tratto «legittimità». E’ dunque responsabilità del presidente e del partito comunista preparare la transizione a una nuova generazione e a forme più larghe di partecipazione politica della popolazione. Ovvero di uscire «dal modello sovietico» e allargare lo spazio di partecipazione politica a altre forze. In pratica, viene proposta al Pc da ambienti vicini alla Chiesa una sorta di "compromesso storico" alla cubana.

CILE – Dopo quasi quarant’anni dal colpo di stato di Augusto Pinochet, mandato d’arresto per otto suoi ex ufficiali / In carcere gli assassini di Victor Jara / di Geraldina Colotti

Militante del Partito comunista, il cantore di Allende venne torturato e ucciso nello stadio della capitale, che ne porta il nome Mandato d’arresto, in Cile, per otto ex ufficiali, accusati di aver ucciso il cantautore cileno Victor Jara, quasi quarant’anni fa. Si tratta di Hugo Sánchez Marmonti, Pedro Barrientos Núñez, Raúl Jofré González, Edwin Dimter Bianchi, Nelson Hasse Mazzei, Luis Bethke Wulf, Jorge Smith Gumucio e Roberto Souper Onfray. Secondo l’inchiesta di Miguel Vazquez Plaza, magistrato alla Corte d’appello di Santiago, i primi due sono colpevoli di omicidio volontario aggravato, gli altri di complicità. Tutti sono adesso in carcere: tranne Barrientos, che vive dal 1990 a Miami, in Florida, e per il quale è stato emesso un mandato di cattura internazionale. Jara, voce poetica del Cile ai tempi di Salvador Allende (1970-1973), finisce in un rastrellamento subito dopo il colpo di stato militare di Augusto Pinochet, il 12 settembre 1973. Viene portato nel campo di concentramento allestito dai golpisti nello stadio più grande della capitale – che ora ha il suo nome – dove tante volte ha tenuto concerti di sostegno ad Allende. Con lui si sono circa 5.000 prigionieri. L’inchiesta ha ricostruito che, in un primo tempo, è detenuto insieme a un gruppo di professori, studenti e impiegati dell’Università tecnica statale, ma poi i suoi aguzzini lo prelevano per sottoporlo a torture e umiliazioni: gli spezzano le mani e lo seviziano, mentre lui continua a cantare la canzone del Partito di Unità Popolare. Infine lo uccidono in un sotterraneo dello stadio con 44 pallottole, il 16 settembre. Ha 41 anni. Insieme a lui muore il direttore delle ferrovie nazionali, Littré Quiroga Carvajal. Il cadavere del cantautore, militante del Partito comunista cileno, viene ritrovato in un terreno abbandonato, vicino al cimitero. Prima di lasciare il paese in preda alla dittatura – che, tra il 1973 e il ’90, provocherà circa 3.000 morti e scomparsi -, la moglie, la ballerina britannica Joan Turner, riesce a salvare alcuni nastri del cantautore, i cui versi risuoneranno in seguito nei concerti degli esuli. Nel libro Victor Jara, una canzone infinita (pubblicato da Sperling & Kupfer nella collana Continente Desaparecido, diretta da Gianni Minà), Joan racconta quei giorni. Nella prefazione, Luis Sepulveda ricorda la figura del poeta, di cui fu allievo quando Jara insegnava alla scuola di teatro dell’università di Santiago. Figlio di contadini, Victor Jara nasce a Loquen. Dopo l’abbandono del padre, cresce con la madre, musicista, che gli insegna la passione per la chitarra e muore quando lui ha 15 anni. Jara entra allora per due anni in seminario, poi si arruola nell’esercito, finché torna al paese natìo, inizia a studiare musica e a interessarsi di politica. Amico di Neruda, negli anni ’60 Jara diventa un protagonista del Movimento della Nuova canzone cilena. Nel ’66 esce il suo primo disco, intitolato «Victor Jara». Gli ultimi versi, «Estadio Chile» li scrive nel campo di prigionia, ma non ha il tempo di musicarli. «Somos cinco mil aquí/en esta pequeña parte la ciudad…/Cuántos somos en toda la patria?/La sangre del Compañero Presidente/golpea más fuerte que bombas y metrallas./Así golpeará nuestro puño nuevamente…./» (Siamo cinquemila, qui/ In questa piccola parte della città…/ Quanti siamo in tutta la patria?/ Il sangue del Compagno Presidente/ Colpisce più forte che bombe e mitraglia./Così colpirà di nuovo il nostro pugno…/). Nel dicembre 2009, i resti di Jara – sepolto semiclandestinamente dalla moglie dopo il colpo di stato – erano stati riesumati per ordine della magistratura. Migliaia di cileni avevano poi seguito le esequie ufficiali del poeta, cantando le sue canzoni. In quei giorni, in una cerimonia nel palazzo de La Moneda, l’allora presidenta Michelle Bachelet (a sua volta vittima della dittatura) aveva conferito a Joan Turner la nazionalità Cilena: «Il Cile – aveva dichiarato Turner – mi ha dato quanto di più bello e di più orrendo si possa avere dalla vita: amore e odio pieno, la felicità di una famiglia e quella di far parte di un grande movimento sociale e culturale, e di una grande tragedia collettiva». Dopo la decisione della magistratura nei confronti degli ex-ufficiali, per la famiglia Jara ha parlato l’avvocato Nelson Caucoto, che la rappresenta, il quale si è dichiarato «soddisfatto» della decisione, giunta dopo oltre 39 anni. La senatrice del Partito socialista cileno, Isabel Allende, si è invece rivolta innanzitutto alla famiglia Jara: «Immagino – ha detto – cosa possa significare per Joan Jara e le figlie rivivere di nuovo i fatti che hanno portato all’assassinio di un uomo di pace e di cultura come Víctor Jara. Un crimine assurdo e senza senso che dimostra quanto odio covassero contro la sinistra cilena i militari». Poi, Allende ha espresso parole di fiducia nei confronti della magistratura: «Sono trascorsi quasi 40 anni dal colpo di stato e di recente stiamo conoscendo i nomi degli ufficiali dell’esercito che hanno commesso questo atroce crimine – ha dichiarato – La giustizia tarda, però arriva, per questo è così importante conoscere e sapere tutto su ognuno dei fatti di violenza che si scatenarono contro persone innocenti, che avevano come unica colpa quella di pensare in modo diverso e di sognare una società migliore». Un sogno ancora di là da venire in uno stato che mantiene tutt’ora le strutture portanti imposte da Augusto Pinochet: in primo luogo la Costituzione autoritaria e l’impalcatura emergenziale che consente di condannare come «terrorista» il dissenso sociale. Durante le oceaniche proteste degli studenti contro il governo neoliberista del presidente-miliardario Sebastian Pinera i versi di Jara e il messaggio di Allende erano ancora di casa. SANTIAGO, ESEQUIE UFFICIALI DI VICTOR JARA /REUTERS.

BOLIVIA – EVO MORALES NAZIONALIZZA L’IMPRESA IBERDROLA In Bolivia, il presidente Evo Morales continua a tener fede al suo programma di governo, consonante – con le debite differenze di contesto – a quello di altri paesi progressisti dell’America latina (come il Venezuela), federati nell’Alleanza bolivariana per il popoli della nostra America (Alba). Nel fine settimana, ha inviato la polizia a presidiare le istallazioni e gli uffici della Electropaz, una delle quattro imprese di proprietà della spagnola Iberdrola, nazionalizzata ieri. Si tratta della principale distributrice di energia elettrica della capitale La Paz. Nella regione di Oruro (nel sud del paese) sono state espropriate anche l’impresa Elfeo, la Edeser e la Compañía Administradora de Empresas. Morales ha spiegato che la decisione si è resa necessaria per sanare lo squilibrio esistente fra la qualità del servizio e le tariffe esistenti nelle zone rurali rispetto alle zone urbane. Lo scorso maggio, il governo boliviano aveva già ripreso il controllo delle azioni della Red Eléctrica Española (Ree) nella Transportadora de Electricidad (Tde), con la quale il contenzioso sulla compensazione economica rimane aperto. Per voce del vicepresidente Alvaro Garcia Linera, il governo boliviano ha promesso all’impresa spagnola Iberdrola «un giusto compenso secondo quanto le spetta e senza arbitrii».

VENEZUELA – MADURO VA A CUBA DAL PRESIDENTE CHÁVEZ Il vicepresidente del Venezuela, Nicolas Maduro si è recato ieri a Cuba per far visita al presidente Hugo Chávez, convalescente all’Avana dopo l’intervento chirurgico contro il tumore che lo affligge dal giugno 2011. Maduro era accompagnato dalla procuratrice generale Cilia Flores insieme alla quale s’incontrerà con l’equipe medica che segue il presidente e valutare «il momento adatto» per parlare al presidente. Un incontro determinante per l’agenda politica venezuelana e per l’investitura ufficiale di Chávez vincitore delle presidenziali del 7 ottobre prevista per il 10 gennaio.

ECUADOR – ULTIMO SABATO TELEVISIVO PER CORREA Il presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, ha salutato ieri gli ascoltatori dello spazio informativo che gestisce ogni settimana, «enlaces ciudadanos». Fino alle elezioni del 17 febbraio, alle quali ha deciso di ripresentarsi, lo spazio sarà gestito dal vicepresidente, Lenín Moreno. Correa ha chiesto al parlamento un permesso di un mese, a partire dal 15 gennaio per dedicarsi alla campagna elettorale. Contro di lui sono in campo l’ex banchiere Guillermo Lasso, ill magnate Alvaro Noboa, l’ex-presidente Lucio Gutiérrez, il pastore evangelico Nelson Zabala, l’uomo di sinistra Alberto Acosta e gli indipendenti Norman Wray e Mauricio Rodas.

 

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