9940 Rapporto ISFOL 2012: l’Italia non cresce se non investe sulle competenze

20120702 14:20:00 redazione-IT

La presentazione del Rapporto Isfol in Parlamento, dopo qualche anno di sospensione, rappresenta innanzi tutto un’interessante ripresa di comunicazione pubblica da parte di un istituto di ricerca che, pur svolgendo una funzione essenziale a supporto delle politiche del lavoro e della formazione, sta oggi vivendo una fase di incertezza rispetto alle prospettive future.
Interessante anche la centratura del Rapporto sulle competenze per l’occupazione e la crescita: emerge con chiarezza il rischio per il nostro paese di ridurre il potenziale di sviluppo a causa di un deficit di capitale umano, dell’obsolescenza e dell’inefficiente utilizzo delle competenze.

[b]L’Italia rallenta nell’investimento in capitale umano[/b]

Dal rapporto risulta che in questi anni l’investimento in capitale umano ha subito un rallentamento. Mentre in alcuni paesi europei la difficile congiuntura economica ha stimolato produzioni, servizi e occupazioni ad alta intensità di conoscenze, cioè ad alto valore aggiunto, in Italia è l’occupazione nelle professioni elementari ad essersi incrementata. Nell’ultimo quinquennio i lavori ad alta specializzazione sono diminuiti dell’1,8%, contro un aumento medio in Europa del 2%. Uno dei paradossi del nostro paese è che abbiamo una bassa percentuale di occupazione in professioni caratterizzate da elevate competenze (il 18% contro il 23% della media UE) e contemporaneamente tali lavori qualificati sono svolti solo in parte da lavoratori con istruzione terziaria (il 53,6% contro il 70,6% della media UE). Tutto ciò ha ridotto i vantaggi retributivi di chi ha i livelli di istruzione più alti. Mediamente in Europa le retribuzioni dei lavoratori con istruzione terziaria superano del 48,3% quelle dei lavoratori con istruzione secondaria, mentre in Italia tale valore si ferma al 36,2%. Nel 2010 risultavano sotto inquadrati il 49,2% dei lavoratori laureati e il 26,3% dei diplomati. Quote più elevate di lavoratori sotto inquadrati si registrano tra i giovani con contratti atipici (54% dei laureati).

Questa tendenza delle imprese italiana a sotto inquadrare e sotto retribuire le professionalità ad alta qualificazione, e complessivamente a non valorizzare le competenze dei lavoratori, spiega anche la scelta della Confindustria di opporsi, fino a chiederne lo stralcio, alle norme sulla certificazione pubblica delle competenze non formali e informali, presenti nella legge Fornero sul mercato del lavoro, a causa del timore di un loro possibile riconoscimento contrattuale.

Mentre il sistema produttivo europeo nel corso della crisi ha accelerato i processi innovativi verso produzioni, servizi e occupazioni ad alta intensità di conoscenze e competenze, e quindi ad alto valore aggiunto, l’Italia sta facendo il contrario, conferma la tendenza a competere sui costi, disinveste nei lavori ad alta specializzazione e incrementa l’occupazione dequalificata, deprime produttività e innovazione.

[b]Anche in Italia conviene studiare, ma meno rispetto agli altri paesi europei[/b]

L’Isfol sottolinea come l’investimento in istruzione continui ad essere pagante sotto il profilo lavorativo. Tra il 2007 e il 2010 gli occupati sono diminuiti in Italia di 350 mila unità. E’ il risultato di una contrazione di circa 850 mila persone con al massimo la licenza media o il diploma triennale e un incremento di oltre 500 mila con titolo di studio medio-alto. Il numero di chi è in cerca di occupazione è aumentato di 596 mila unità, con una variazione del 40% circa, ma i più penalizzati sono stati coloro che hanno titoli di studio bassi (nel 2011 il tasso di disoccupazione dei laureati è pari al 5,4% contro il 10,4% di chi possiede la licenza media). Eppure anche in questo caso rimane un gap con l’Europa: dal 2007 gli occupati con istruzione terziaria sono aumentati in Italia del 10% mentre la media comunitaria è pari al 14% (Germania +17,8%, Francia +13,4%).

Se lo studio e la specializzazione garantisce generalmente migliori opportunità, in termini di stipendio e carriera, questo è meno vero in Italia. Da noi, il tasso di disoccupazione tra coloro che hanno conseguito la licenza media (10,4%) o il diploma (7,5%) è ancora oggi molto più alto rispetto a quanti possano vantare un titolo universitario (5,4%). Ma rispetto ad altri Paesi europei rimane comunque un gap: il tasso di disoccupazione dei laureati italiani è aumentato nel 2007-2011 dell’1%, mentre in Germania è diminuito dell’1,4 per cento.

[b]Le difficoltà dei sistemi formativi[/b]

Circa i sistemi di istruzione e formazione il Rapporto Isfol conferma l’alto tasso di dispersione dei giovani 18-24enni: il 18,2% contro il 13,3% della media UE. Aumenta il numero dei diplomati, ma la diffusione dell’istruzione superiore presenta livelli ancora bassi e tassi di crescita inferiori a quelli medi comunitari.

I diplomati nel 2011 raggiungono il 76,9% della fascia di età 20-24 anni a fronte di una media europea del 79,3%, mentre il dato del 56,0% dei diplomati riferito all’intera popolazione adulta resta ancora lontano dalla media europea del 73,2%.

I laureati nel 2011 nella fascia 30-34 anni sono il 20,3% contro il 34,5% della media comunitaria, che ha registrato un incremento di 12,3 punti dal 2000 a fronte dell’8,7% dell’Italia.

Le competenze dei quindicenni (indagine OECD-PISA) mostrano un miglioramento nel 2009 rispetto al 2006: i giovani con bassi livelli di abilità cognitive è diminuita sia nelle competenze linguistiche (dal 26,4% al 21%) che nelle competenze matematiche (dal 32,8% al 20,6%).

Difficilmente comprensibile la valutazione eccessivamente positiva dell’Isfol sul presunto rilancio dell’istruzione tecnica e professionale e dell’istruzione e formazione professionale regionale a fronte di un misero incremento degli iscritti dello 0,4% degli istituti tecnici, aumentano dell’1,5% gli istituti professionali statali e dei percorsi triennali regionali, che hanno visto aumentare di 7 volte il numero degli studenti in 7 anni. Un incremento, quest’ultimo, invece da leggersi come uno degli effetti della crisi che spinge le famiglie, sempre più incerte del loro futuro, a cercare percorsi brevi e rassicuranti perché immettono rapidamente i giovani in un mercato del lavoro che, come dimostrano i dati fornito dallo stesso Rapporto, con uguale rapidità li espelle in caso di crisi o di mutamento tecnologico.

In via di implementazione la formazione tecnica superiore con l’attivazione di 59 istituti tecnici superiori tra settembre e dicembre 2011, mentre i percorso di istruzione e formazione tecnica superiore sono passati da 200 corsi nel 2009/10 a 120 nel 2010/11.

[b]Diminuiscono gli apprendisti e arretra ulteriormente la formazione degli adulti[/b]

I dati Isfol registrano una crescente disaffezione verso questo strumento. Fra il 2008 e il 2010, il numero medio annuo di giovani occupati con contratto di apprendistato si è infatti ridotto di oltre 100mila unità, registrando una flessione del 19% e raggiungendo la quota di 542mila giovani. Rispetto all’andamento dell’occupazione complessiva tra 15 e 29 anni, l’incidenza dell’apprendistato è andata diminuendo, passando dal 16,1% del 2008 al 15,1% del 2010. Parallelamente è aumentata l’età media degli apprendisti: la classe degli under-18 in apprendistato si è più che dimezzata nel triennio considerato (da circa 17.000 a 7.500); anche la classe dei 19-24enni – che rimane la più rappresentativa – ha subito un andamento decrescente.

Quanto alla formazione degli adulti, l’Italia addirittura retrocede dal 6,2% nel 2010 passa al 5,8% del 2011, una percentuale superiore solo a quello della Grecia, un dato che segnale come le imprese abbiano reagito alla crisi riducendo ulteriormente l’investimento formativo.

Il Rapporto conferma che la partecipazione agli interventi formativi è maggiore per gli individui più scolarizzati. La posizione nella professione rappresenta un’altra variabile di estrema rilevanza: dirigenti, quadri, imprenditori, liberi professionisti hanno percentuali di partecipazione doppie rispetto agli operai, ai lavoratori in proprio, ai commercianti e agli artigiani. La maggior parte delle iniziative formative (53,8%) si svolge esclusivamente durante l’orario di lavoro e risultano prevalenti le iniziative formative di natura obbligatoria (sicurezza, protezione ambientale e controllo alimentare) rispetto a quelle tecnico-specialistiche.

Secondo i dati ISFOL INDACO, tra il 2005 e il 2010 la percentuale di aziende con più di 9 addetti che hanno organizzato iniziative di formazione è passata dal 32,2% al 45,1% ma la media europea arriva al 60%. L’aumento della quota di imprese che fanno formazione è dovuta quasi esclusivamente alla diffusione dei corsi obbligatori per la sicurezza sul lavoro. Risulta inoltre in calo il numero medio di ore erogate per partecipante. L’arretratezza italiana rispetto agli altri paesi europei si spiega con la minore disponibilità di risorse pubbliche e private e la scarsa propensione, soprattutto delle piccole e micro imprese ma anche delle persone con bassi livelli di istruzione, a considerare la formazione come un investimento. Considerando le imprese con più di 5 addetti, la prima fase della crisi economica (2009-2010) ha fatto registrare un calo deciso degli investimenti, sia sul versante della produzione (macchinari e, tecnologie), sia su quello delle attività di promozione (marketing e pubblicità). Per quel che riguarda l’investimento in formazione, solo il 4,4% delle imprese ha ritenuto opportuno incrementare questa voce, mentre il 27,9% ha ridotto la spesa.

[b](Fabrizio Da Crema – Cgil | Formazione e ricerca)[/b]

 

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