9237 C’è del buono in Danimarca: la sinistra vince alle elezioni politiche

20110917 15:23:00 redazione-IT

[b]di Aldo Garzia[/b]
A Copenaghen le elezioni anticipate decise appena venti giorni fa hanno punito il Partito liberale. Si è ripetuto l’episodio, ormai citato dai manuali di politologia, accaduto in Francia nel 1997, quando il presidente Jacques Chirac e il primo ministro Alain Juppé annunciarono elezioni politiche anticipate per consolidare la loro maggioranza e poi si ritrovarono con il socialista Lionel Jospin primo ministro. La Danimarca, dopo un decennio di governi moderati, da giovedì sera ha infatti deciso di rinverdire la sua tradizione socialista: la coalizione di centrosinistra ha vinto le elezioni e può contare su 5 seggi di maggioranza nel Parlamento monocamerale. Da segnalare la forte percentuale di partecipazione al voto: 87,7%. La destra, a questo punto, governa nel nord-nord Europa solo a Stoccolma e Helsinki.

Il premier liberale Lars Løkke Rasmussen, con mossa a sorpresa, aveva tentato di spiazzare l’opposizione e di liberarsi – in caso di vittoria – dell’imbarazzante appoggio esterno al suo governo del Partito nazionalista guidato da Pia Kjaersgaard, per linguaggio e modi di fare, una sorta di Mario Borghezio (l’europarlamentare della Lega) con la gonna. Ma le elezioni anticipate si sono rivelate il classico boomerang. Da ieri il governo della Danimarca è nelle mani della quarantenne Helle Thorning-Schmidt, segretaria del Partito socialista dal 2007, prima donna nella storia danese a diventare primo ministro. Ora tocca a lei formare il nuovo governo e mettere d’accordo, com’è avvenuto nella brevissima campagna elettorale, i partiti della coalizione formata da socialdemocratici, Partito social-liberale e Alleanza rosso-verde (ottimo il risultato con il raddoppio dei voti).

A fare la differenza tra centrosinistra e centrodestra è stata la politica di coalizione. I socialdemocratici sono il secondo partito danese con il 26%, il peggiore risultato della propria storia, ma l’alleanza di centrosinistra ha toccato il 51,1% dei consensi. Il Partito liberale (Venstre), che si conferma primo partito con oltre il 26%, non ha trainato il centrodestra che resta fermo al 48,9%. C’è poi un dato che resta allarmante: il Partito nazionalista di estrema destra non va oltre il 12,5%: perde tre seggi, indietreggia nei consensi per la prima volta nell’ultimo decennio e non può fare da stampella al partito dell’ex premier Rasmussen.

A motivare il mutamento politico in Danimarca è stato in gran parte il dibattito sulla crisi economica. Pur restando la corona danese fortissima nel mercato dei cambi (poco più di 7 corone per un euro), la disoccupazione giovanile tocca il 10% mentre il deficit pubblico del Pil è assestato al 4,6%. Due dati negativi inediti per questo paese scandinavo che ha investito negli ultimi anni nell’industria dell’alta tecnologia e ha saputo, con Svezia e Norvegia, preservarsi un ruolo d’avanguardia nell’industria della comunicazione.
Dopo dieci anni di elezioni in cui il tema caldo era quello dell’eccessiva immigrazione senza regole che ha favorito la destra (12% su meno di 6 milioni di abitanti, 200 mila di religione musulmana), è tornata l’economia il tormento degli elettori che vorrebbero preservare la Danimarca dallo tsunami della crisi internazionale. Il centrosinistra che ha vinto le elezioni a Copenaghen proverà perciò da subito a inserire nella politica economica di governo più investimenti pubblici e riforme del mercato del lavoro ispirate alla flexsecurity made in Denmark (flessibilità contrattuale in cambio di un generoso sistema di assistenza ai disoccupati).

Quanto ai problemi legati all’immigrazione, niente affatto sottovalutati dal centrosinistra, Helle Thorning-Schmidt ha intenzione di cancellare i posti di frontiera sul confine con la Germania che il centrodestra aveva messo in cantiere preferendo accentuare la collaborazione con l’Unione europea sui problemi della sicurezza e della difesa. Improbabile, forse impossibile, invece una riconsiderazione dell’ingresso nella zona euro, tabù anche per la Svezia che respinse l’adesione nel referendum del 2003. Gli scandinavi restano convinti che resistono meglio alla crisi internazionale e alla globalizzazione proprio perché sono fuori dall’euro.

Ma la rivincita socialdemocratica a Copenaghen ha un valore più generale? Di sicuro rinverdisce una tradizione quasi centenaria ma ha il limite di non parlare – per le idee-forza che propone – al resto della sinistra europea.
Helle Thorning-Schmidt, sposata con Stephen Kinnock, figlio di Neil Kinnock, segretario del Labour party britannico negli anni Ottanta, è molto amica di Ed Miliband, quarantenne neosegretario del Labour, leader potenziale di una nuova sinistra socialdemocratica europea che vuole lasciarsi alle spalle le politiche di Tony Blair se non avesse l’handicap di essere britannico e quindi assai algido a ogni discorso sul futuro dell’Europa politica. Bisogna guardare a Parigi e Berlino per capire se la ripresa socialdemocratica ha una certa robustezza programmatica in vista delle elezioni francesi del 2012 e tedesche del 2013.

Visto tuttavia il dibattito in tv di giovedì sera dei candidati socialisti alle presidenziali francesi, c’è troppo poco per pensare – data la natura della crisi di un intero modello capitalistico – che possa esserci all’orizzonte l’apertura di un ciclo virtuoso della socialdemocrazia europea in alleanza con forze ecologiste e più radicali. Le elezioni danesi sono ovviamente un segnale positivo, mentre il Pse (Partito del socialismo europeo) resta ancora solo una sigla.

http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/09/articolo/5381/

 

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