8300 Stretta soffocante: Europa di Maastricht o Europa sociale?

20101024 16:50:00 redazione-IT

[b]di Fabrizio Valli – (ATTAC Italia)[/b]

La crisi economica, sviluppatasi dopo decenni di politiche neoliberiste che volevano creare un capitalismo che sempre più fosse simile al proprio concetto, porta come risposta da parte delle classi dominanti l’esasperazione di tali politiche.
In questo solco si pongono alcune proposte avanzate negli ultimi giorni: Il governo tedesco ha avanzato una proposta di uno stretto controllo dell’UE sui budget e sulle manovre finanziarie dei paesi, arrivando alla sospensione del diritto di voto per i paesi che sforano i parametri.

La Commissione Europea propone l’obiettivo di abbattimento annuale di almeno un ventesimo del debito eccedente i parametri del patto di stabilità e crescita (60% del P.I.L. ), nell’obbligo in questi casi di tenere la spesa pubblica ad una percentuale nettamente inferiore all’aumento del PIL, la creazione di un deposito cautelativo pari allo 0,2% del PIL che una volta sforato il 3% verrà trattenuta. Gli interessi di questo deposito andranno agli stati “virtuosi”, che rientrano nei parametri, determinando un ulteriore trasferimento di risorse dagli stati più poveri a quelli più ricchi.

Acclamando la necessità di sistemare i conti pubblici, si mettono in atto misure di feroce taglio allo stato sociale, di attacco al salario ed ai diritti dei lavoratori pubblici e di privatizzazione e di attacco alle pensioni.

Ciò si cui non si tiene conto è che nel deterioramento dei conti pubblici le politiche di soccorso al capitale finanziario sono state tutt’altro che irrilevanti e, ancor prima i tagli alle tasse di ricchi e imprese, lo spostamento di risorse a sostegno dei profitti come nel caso dell’aumento delle spese militari a favore dell’industria degli armamenti,la costruzione di eventi “vetrina” per il business dei propri paesi. E’ singolare che tali preoccupazioni per il rigore dei conti non emergessero quando, e si tratta di poco tempo fa, si
inondavano le banche e le altre istituzioni finanziarie di soldi pubblici.

I casi delle misure economiche greche e spagnole, dei provvedimenti di Sarkozy sulle pensioni e dei tagli a sanità e istruzione pubbliche, delle proposte di Tremonti , del libro Bianco di Sacconi, del sostegno del governo italiano alla linea di Marchionne, delle proposte di tagli al welfare del nuovo governo Britannico, per fare qualche esempio, non sono che casi particolari di una strategia più generale. Il contenimento del debito pubblico è la giustificazione per politiche di trasferimento ulteriore di ricchezza dai lavoratori, dai disoccupati, dai pensionati ai detentori di capitale.

Non è quindi in caso che le misure di contenimento del debito pubblico si accompagnino a misure di attacco ai diritti dei lavoratori e di allargamento della libertà di licenziamento da parte delle imprese, misure che col controllo dei deficit pubblici hanno poco a che fare, e che anzi potrebbero aggravarli per l’aumento dei sussidi ai disoccupati.

Queste politiche sono coordinate e giustificate dalle politiche di “rigore” richieste dall’UE, conseguenti alla sua identità profonda.

L’UE è disegnata per portare avanti politiche neoliberiste:

L’obiettivo dell’Euro come moneta forte, che aspira a divenire valuta di riserva mondiale;

Una Banca Centrale indipendente dal controllo democratico e avente come unico obiettivo la lotta all’inflazione;

• La centralità dei vincoli del patto di stabilità e crescita con i suoi obiettivi di contenimento del deficit e del debito entro ristretti parametri;

Per raggiungere tali obiettivi gli stati sono costretti a politiche economiche restrittive (privatizzazioni, tagli all’occupazione ed allo stato sociale) per ottenere gli avanzi di cassa necessari (è il patto stesso che indica la necessità di avere bilanci prossimi al pareggio o positivi) e politiche di restrizione delle rivendicazioni salariali.

Tale linea è funzionale alle esigenze del capitale finanziario: lotta all’inflazione che avvantaggia i detentori di capitale, evitando che si svalorizzino; politica di riduzione delle tasse che rende necessario agli
stati chiedere risorse economiche a prestito dai detentori di capitali, privatizzazioni che aprono al capitale finanziario nuovi campi di investimento.

Tali misure non creano però ancora una reazione antagonista da parte del
capitale industriale.

Questo per due motivi principali:

In primo luogo la compenetrazione tra finanza e industria, le multinazionali sono attori sempre maggiori del mercato finanziario e le attività finanziarie sono ormai voce non secondaria nei bilanci di queste imprese, le catene e le “scatole” finanziarie sono strumenti in cui si esplica la proprietà ed il controllo sulle imprese da parte dei detentori di capitale.

In secondo luogo perché gli aspetti finanziari non sono separati, o secondo alcuni contrapposti, al resto dell’economia, ma ne sono una delle parti costitutive. L’esplosione della finanza nasce dai meccanismi centrali del nostro sistema, dalla ricerca della massimizzazione di profitti.

Per rispondere alla caduta del saggio di profitto negli impieghi tradizionali i capitalisti riversano capitali in cerca di valorizzazione nella sfera finanziaria, determinando la creazione di capitale fittizio, di titoli che danno diritto a partecipare alla spartizione di profitti, non essendo supportata da valore reale creato, ha determinato lo svilupparsi e l’esplodere delle bolle.

L’obiettivo di ogni detentore di capitali è quello di ottenere, nel più breve tempo possibile più denaro di quanto ne avesse prima: la fase produttiva è per lui solo un termine medio inevitabile, un male necessario.

In aggiunta in una fase di crisi l’assenza di prospettive di un’onda lunga espansiva che rilanci i profitti favorisce una generale attestazione sugli obiettivi di profitto a breve.

Vi è da aggiungere che queste misure hanno conseguenze utili anche per il capitale industriale:

politiche di attacco ai lavoratori, disoccupazione e contenimento salariale, che favoriscono il disciplinamento della forza lavoro;

pressione sul capitale produttivo a abbassare i propri costi migliorandone competitività internazionale;

riduzione dell’incertezza sui tassi di cambio e sui diversi ambienti finanziari;

l’Euro come moneta forte supporta le operazioni di fusioni e acquisizioni del capitale europeo in altre parti del mondo.

E’ necessario quindi pensare ad un’altra Europa.

Un unico mercato che non contempla però la possibilità di decidere democraticamente politiche economiche, fiscali e sociali comuni lascia strada aperta al dumping tra i diversi stati su queste materie, lasciando la libertà alle imprese di collocarsi negli stati con situazioni a loro più favorevoli, mettendoli in concorrenza tra loro per attrarre investimenti, e costringe gli stati ad una costante rincorsa ad offrire ad esse sempre maggiori prebende.

Le enormi differenze economico sociali tra gli stati, in un processo di unificazione che tende a mantenere queste differenze, rafforza questa tendenza. Il processo di allargamento così gestito riconfigura l’UE in consonanza al processo di “globalizzazione neoliberista” avvenuto a livello mondiale. Le imprese si trovano così a disposizione all’interno del mercato unico una amplia gamma di situazioni in cui collocare in modo ottimale i segmenti dei loro processi produttivi in modo da massimizzare i profitti.

Occorre pensare ad un’Europa democratica, sociale, ecologista e pacifista che sia radicalmente contrapposta all’Europa di Maastricht.
E’ necessario che quest’altra Europa abbia le gambe sociali per camminare e questo non può avvenire se non con la costruzione di reti, movimenti, vertenze e campagne europee contro la le politiche che vogliono far pagare la crisi a studentesse/studenti, lavoratrici/tori, disoccupate/ti , pensionate/ti , contro la disoccupazione, la precarietà, le privatizzazioni, il neoliberismo e la guerra, per i diritti sociali e dei migranti, per la difesa dell’ambiente e per la democrazia europea.

Non possiamo d’altronde aspettarci risposte positive automatiche. Le proposte di uscita dalla crisi tramite politiche di aumento dei consumi interni, ottenuto anche attraverso aumenti di salario, si scontrano con alcuni ostacoli non indifferenti.

L’assenza di adeguati spazi d’accumulazione che possano rilanciare la produzione;

la non coincidenza tra spazio politico e spazio economico, che fa si che un aumento della domanda non si traduca necessariamente in un proporzionale aumento della produzione nel territorio in cui avviene;

gli effetti che la crescita ha sull’ambiente;

Emerge inoltre una contraddizione più di fondo:
E’ evidente a tutti che il contenimento del salario ( nelle sue diverse forme) è un elemento centrale delle politiche europee, sia attraverso i parametri del PSC, sia attraverso l’incoraggiamento della flessibilità portato avanti dall’Unione europea, sia attraverso l’incoraggiamento al dumping salariale che troviamo sia nella Bolkenstein che in alcune sentenze della corte di giustizia europea, sia anche nella concreta attività della BCE che mira di fatto la
regolazione dei tassi d’interesse più che sull’inflazione in generale, sulle dinamiche legate agli aumenti salariali.

Non a caso il paese con dati economici positivi in questa fase è la Germania che non si è basato tanto sull’entità della crescita quanto sul contenimento salariale, in concomitanza con una tenuta del debito pubblico favorita dal fatto che i parametri del PSC erano più disegnati su questo paese.

La crescita dei salari è vero che da una parte aumenta la domanda, permettendo la realizzazione dei profitti, ma dall’altro l’aumento dei salari riduce i profitti stessi.

Il riequilibrio tra salari e profitti non è quindi detto che sia una misura che và a vantaggio di tutti e dovrà scontrarsi con l’avversione delle classi dominanti. Non è quindi detto che un aumento dei salari determini una nuova fase di crescita in questa società. Esso andrebbe perseguito come obiettivo in sé, nell’ottica di porre nuove priorità nelle decisioni collettive che vadano oltre la logica del profitto. Il capitalismo risponde sempre meno ai bisogni sociali e sempre più attenta all’equilibrio ambientale del pianeta.

E’ necessario quindi pensare a politiche radicalmente alternative allo stato di cose esistente.

In questo percorso Attac Italia, con gli altri Attac europei, lavora per la democratizzazione dell’Unione Europea, una sua maggiore trasparenza, lo sviluppo della partecipazione e della democrazia diretta, un rafforzamento dei diritti fondamentali, la tutela ed il miglioramento delle conquiste democratiche,un ordine economico alternativo, Un’Europa di pace e solidale che miri ad un equiparazione verso l’alto in materia fiscale e sociale. Con la Banca Centrale
Europea sottoposta a controllo democratico e le cui priorità di politica monetaria devono essere la giustizia economica, il pieno impiego e la sicurezza sociale per tutti i cittadini europei. Un’Europa in cui i principi fondamentali siano: la dignità umana, lo stato di diritto, la democrazia rappresentativa e partecipativa; la giustizia economica e sociale, la sicurezza sociale e politiche di inclusione delle persone, la solidarietà, l’uguaglianza e la parità tra uomini e donne, la difesa dell’ambiente e l’ impegno per la pace ed in cui la cittadinanza europea sia concessa a tutti i residenti in Europa.

 

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