8287 LAVORO POLITICO dopo il 16 Ottobre

20101020 14:11:00 redazione-IT

di Loris Campetti
[b]La nuova opposizione, in piazza con la Fiom, scombina le
fragili geometrie della politica. Il Pd non regge la prova
della protesta operaia e sceglie di non scegliere mentre
l’imponente manifestazione scompare dai tg. E nel Palazzo
torna a infuriare la polemica su case private e paradisi
fiscali del premier- palazzinaro.
Chi è Maurizio Landini [/b]

Un’altra politica è possibile. Fuori dai palazzi, dalle palazzine e dagli strapuntini del potere. Una politica fatta di contenuti che consenta di scegliere tra diverse idee del mondo e delle relazioni tra le persone. Una politica che cammini sulle gambe di donne e uomini, non imposta da caste politiche ed economiche a chi non ha firmato deleghe in bianco, è tutta da costruire. Non è facile, bisognerebbe ribaltare una pratica autoritaria ed estraniante cresciuta in anni di cattiva politica in cui si mescolano e si perdono le differenze tra destra e sinistra.

Si può uscire dalla berlusconizzazione della cultura e della vita di tutti i giorni? Si può tornare a parlare di politica, della crisi che sta devastando la maggioranza della popolazione? Si può pensare a una via d’uscita che ricostruisca i legami sociali e tra le persone individuando una prospettiva e un percorso comuni?
Sabato le strade di Roma hanno mostrato un’altra Italia e, soprattutto, un’altra politica. Una piazza determinata, multicolore e non solo per tutte le tonalità del rosso. Operai, che esistono anche se per tanti soloni è stata una scoperta, o una riscoperta; lavoratori, precari, studenti, disoccupati, migranti, frammenti di quel che è stata la sinistra italiana, movimenti, intellettuali, popolo.
È la prima volta da anni, forse dal luglio del 2001 a Genova e dal 23 marzo del 2002 (il Circo Massimo con Sergio Cofferati), che riparte una speranza insieme alle gambe per camminare. Può non finire come a Genova, quando Fini era l’orco mentre adesso tutti ne parlano con rispetto, pronti a pagargli l’affitto di casa.
Si può non consegnare le armi alla guerra trionfante, come capitò dopo i cento fiori di Firenze prematuramente appassiti sotto il fuoco nemico.
Si può cambiare, ma solo riappropriandosi della politica finita da troppo tempo in cattive mani. La manifestazione della e con la Fiom parla di diritti per tutti, di eguaglianza da ricostruire, di democrazia senza aggettivi, di solidarietà, di contratti, di reddito di cittadinanza. Parla di come ridare dignità al lavoro e a chi lavora dopo anni di svalorizzazione.
È o non è a partire da queste cose che si deve tornare a distinguere tra strade, modelli di società, se si preferisce tra destra e sinistra? Se invece si crede ancora che solo dalle alleanze tra i partiti e i sub-partiti meno diversi, tra i meno «berlusconiani» possa nascere un’alternativa a Berlusconi, allora ha ragione Casini: la piazza della Fiom non è compatibile con «una certa idea di alternativa». Del resto, l’alternativa accennata da quella piazza difficilmente prevede un ruolo centrale e governante per l’onorevole Casini, così come per tanti altri, più o meno onorevoli di lui.
Gli uomini e le donne di piazza San Giovanni sono un punto di partenza per qualsiasi speranza di cambiamento. Attenzione a non fare errori, però: non sono disposti a farsi da parte perché sono stufi di fare le comparse in un film di quart’ordine. C’è più bisogno di cervello e di gambe che di un leader.

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16 ottobre, l’alternativa alla produttività

di Mario Sai

La grande manifestazione della Fiom del 16 ottobre ha riproposto con forza, accanto alla questione centrale dei diritti dei lavoratori, quella del «cosa» e del «come» produrre, ineludibile se non si vuole essere travolti dalla crisi. È necessario indicare un’alternativa per evitare che si imbocchino strade con false uscite. Per questo è sbagliato mettere al centro, come vogliono le imprese, la produttività. Essa dipende da una serie di fattori generali (dall’organizzazione aziendale all’intensità degli investimenti; dal grado di innovazione dei processi produttivi al funzionamento del sistema-paese) difficilmente modificabili, soprattutto in assenza di politiche pubbliche. All’atto pratico, dal’93 ad oggi, si è finito con il premere il pedale sulla compressione della dinamica salariale e sulla intensificazione del lavoro.
Per evitare tutto ciò è bene avere un altro punto di partenza: l’innovazione, riprendendo quella parte dell’accordo del luglio 1993, rimasta del tutto disattesa, dove era pattuito che per assicurare il mantenimento nel tempo della capacità competitiva dell’industria italiana occorrevano una più intensa ricerca scientifica, una più estesa innovazione tecnologica ed una più efficace sperimentazione dei nuovi processi e prodotti. Nei luoghi di lavoro si doveva sostenere una pratica di reciproca consultazione e di comune disamina dei risultati da parte delle imprese e delle rappresentanze dei lavoratori.
Del resto anche H.Yamashina, il guru giapponese consulente di Sergio Marchionne, sostiene che i cambiamenti nell’organizzazione del lavoro sono correlati alle prospettive di sviluppo che i Paesi – e le aziende – si danno.
Quando, dopo gli anni ’90, l’apprezzamento dello yen e la concorrenza dei paesi vicini hanno creato difficoltà crescenti all’economia giapponese la strada imboccata non è stata solo la de-localizzazione delle produzioni (che spesso rendeva problematico il mantenimento degli standard di qualità), ma una innovazione nella politica industriale: «buoni prodotti con buoni margini di profitti», cioè con alto valore aggiunto. Per raggiungere questo obiettivo governo e imprese hanno puntato sullo sviluppo di tecnologie originali e di nuovi prodotti; e sulla creazione di un forte mercato domestico di tecnologie avanzate.
Il «cosa» produrre non può prescindere da come è organizzato il lavoro. Il «miglioramento continuo» del Wcm (World class manifacturing, il sistema di lavoro in fabbrica) imposto dalla Fiat nei suoi stabilimenti e ribadito nell’accordo di Pomigliano, è un sistema, come dicono gli operai giapponesi, che «tenta di strizzare acqua da un asciugamano asciutto». È possibile un’alternativa? Sarebbe utile riprendere il libro verde della Commissione Europea «Partenariato per le nuove forme di organizzazione del lavoro», testo del 1997 e che in Italia è passato pressoché sotto silenzio, sia da parte padronale che sindacale. Lì era indicato, anche sulla base dei «technology agreement» scandinavi, che l’organizzazione del lavoro è definita da una contrattazione d’anticipo con il sindacato.
Qui è superato il paradigma scientista del taylorismo (a un problema c’è una sola soluzione valida – «one best way» – e la decidono gli ingegneri) e lo si sostituisce con un altro paradigma, reso possibile anche dalla flessibilità delle nuove tecnologie: ad un problema sono possibili soluzioni diverse e solo contrattando si possono realizzare scelte efficaci.
Per imboccare questa strada, come avviene in molti paesi europei, servono linee guida generali a sostegno degli accordi aziendali (ed il gruppo di lavoro su «ricerca ed innovazione» deciso da imprese e sindacati di questo finalmente dovrebbe occuparsi). Nelle aziende serve una rinnovata capacità di proposta di soluzioni alternative da parte delle Rsu, sostenuta da un sistema di informazione tempestivo e dal diritto al conflitto nel caso permangano divergenze radicali tra i modelli organizzativi proposti.
Ecco perché sarebbe necessario ridare voce e protagonismo ai delegati delle Rsu e sostenerli con un ampia partecipazione ai problemi del lavoro non solo della politica, ma soprattutto della cultura di sinistra.

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Fiat-Fiom, ecco chi è Landini
di Francesco Paternò

Di Maurizio Landini non bisogna chiedere ai suoi compagni di lotta e di governo Fiom, perché sennò sarebbe santo subito: simpatico, non arrogante, collegiale nelle decisioni. Del segretario generale della Fiom non bisogna chiedere neppure in Fiat, perché sennò sarebbe diavolo subito: tosto, controparte, anzi no comment perché è l’Avversario. Delle sue parole di sabato scorso a Roma, alla prima manifestazione di piazza da segretario, le agenzie di stampa internazionali hanno però riportato l’essenziale: «La competizione non si insegue tagliando salari e diritti». Che poi è tutto, al confronto con il dixit di Marchionne: «L’accordo di Pomigliano non azzera alcun diritto».
Nemmeno un mese fa, Landini ha spiegato la storia a Bob King, il capo del sindacato dei metalmeccanici americani (Uaw), entrambi nominati in giugno, uno tratta con Marchionne in Chrysler, l’altro in Fiat. «Non parlo inglese, ho bisogno di un traduttore, ma le nostre ragioni non sono state per King delle stranezze, il problema è che qualcuno ci aveva descritti come dei comunisti e non come dei sindacalisti». Naturalmente un «incontro utile», con la promessa che Landini un giorno vada ad Auburn Hills e parli agli operai americani. In modo conciso, non lungo come dalle nostre parti: sabato ha chiesto ai suoi di fermarlo ai venti minuti, ha chiuso ai trenta. In tv funziona, ha capito tutto.
Con Marchionne, il segretario della Fiom si è incontrato una sola volta, il 28 luglio a Torino. Nessuna cravatta al collo per entrambi, stretta di mano formale e nulla più. Eppure i due hanno in comune più di quel che si potrebbe pensare. A cominciare dalla cima: non vengono dall’auto. Se Marchionne è dottore commercialista e avvocato e prima della Fiat si occupava esclusivamente di finanza, Landini studia due anni da geometra e poi va a lavorare da operaio di una famiglia di operai di Castelnovo Ne’ Monti, montagne intorno a Reggio Emilia, passando per una iscrizione al Pci, un po’ di Pds corrente Mussi e poi tanta, tanta Fiom. Non tra bielle e pistoni ma in Indesit, Electrolux, Piaggio, dove si fa quella fama di trattativista a oltranza che piace a Claudio Sabattini, segretario del rilancio Fiom nei Novanta. Suo padre numero due, seguito da Gianni Rinaldini suo padre numero tre che infatti lo sceglie per successore.
Come Marchionne – che dice di voler solo vendere macchine e poi cerca di cambiare l’intero sistema di relazioni industriali del paese – Landini rivendica il suo essere sindacalista andando ben oltre, per fortuna dell’intera sinistra sempre di questo cavolo di paese in preda al berlusconismo. Per cultura e per generazione – formatasi alla vigilia del cambio di millennio – Landini appartiene a un sindacato che ha supplito alla mancanza di politica a sinistra, fin dalle manifestazioni contro la guerra in Jugoslavia. Che poi è quello che fa Marchionne, supplendo a suo modo alla mancanza di politica del governo. Insomma, chiaro che è e sarà battaglia a tutto campo, superfluo che Marchionne citi Marx e Landini confermi di non averlo letto.
Al contrario del boss di Fiat-Chrysler, di americano il segretario della Fiom non ha nulla, se non che è nato tre giorni dopo Barack Obama. Stessa età, per altro, di due dei quattro manager più vicini a Marchionne. Nel poco tempo libero, legge gialli per distrarsi (oltre a saggi di sociologia per non distrarsi troppo), ascolta musica italiana un po’ datata come De Gregori, più botte di vita come la Nannini o Zucchero. Da ragazzo ammette di avere avuto il mito di Gianni Rivera e dunque per un po’ di aver tifato Milan. Andati via Gullit e Van Basten, il calcio rossonero finisce in fondo a qualche armadio come una sciarpa vecchia.
Sul tetto della Fiom è arrivato passando per la reggenza del sindacato di Reggio Emilia, della regione Emilia Romagna, di Bologna, mai fermandosi in qualche stabilimento di meccanica e di motori, che pure dove vive sono un rombo continuo. Con la Fiat ha una tale non dimestichezza (ma sa veramente tutto, comincia sempre dai diritti, ammette alla fine uno di quelli del no comment) che nel 1999 si compra come auto personale una Nissan Primera, «era quella che costava di meno». Ce l’ha ancora.

www.ilmanifesto.it

 

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