n°10 – 9/3/24 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO.

01 – La Marca (PD) *: Incoerenza del Ministro degli Esteri Tajani sul turismo di ritorno.
02 – Mario Pierro*: Laureate in fuga all’estero, oltre 138 mila hanno lasciato il paese – IL CASO. Rapporto Svimez: com’è cambiata l’emigrazione femminile negli ultimi vent’anni. Partono le donne meridionali, in crescita rispetto agli uomini
03 – Christian Luca Di Benedetto*: Il legame tra Berlusconi, la ‘Ndrangheta e la massoneria: ecco la verità – Il ruolo centrale di Berlusconi nelle dinamiche di potere- Un ponte tra diverse realtà criminali e la politica – Le implicazioni delle rivelazioni del processo ‘Ndrangheta stragista, dove il nome di Berlusconi emerge in un possibile contesto di accordi.
04 – Riccardo Chiari*: A Pisa e a Firenze in piazza contro bombe e manganelli – DIRITTO DI PROTESTA. In migliaia sono tornati a ribadire quello che la scorsa settimana la repressione ha provato a zittire: Palestina libera dalla mattanza.
05 – Carmen Pennisi*: Gli sprechi del governo Meloni? Scoppia la polemica per i voli di Stato
Governo Meloni: i numeri al centro della polemica – Ministri e frequenze dei voli: chi viaggia di più?
06 – Mario Ricciardi*: Gli intellettuali senza senno della piccola Italia – DI FRONTE AL MASSACRO. Mentre alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia si discute di un’accusa di genocidio a danno dei palestinesi, ci sarebbe un gran bisogno di persone che abbiano «un poco di senno». Invece, quello che leggiamo e ascoltiamo è, in molti casi, il tentativo di giustificare l’ingiustificabile.
07 – Roberto Livi*: L’AVANA – Cuba non è stata mai indifferente. E torna in piazza. MANIFESTAZIONI CONTRO IL GENOCIDIO. Diaz-Canel accusa Washington: «Crimini di Tel Aviv impuniti solo grazie ai suoi veti»
08 – Chiara Cruciati*: A GAZA L’EUROPA COLONIALE VEDE SOLO MACCHIE NERE.
09 – Simona Bonsignori *: Contro la trappola dell’economia della carità – lo speciale di alias sull’economia femminista. Qui apriamo una discussione in vista dello sciopero dell’8 marzo. In fondo all’articolo trovate i link agli altri pezzi dello speciale e il topic femminismi 2.
10- Azzurra Rinaldi*: Per le donne «pocket money», i soldini della spesa – ECONOMIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L’Italia è al 104° posto tra 146 paesi analizzati rispetto alle pari opportunità lavorative
11 – A che punto è la parità di genere nei paesi europei – Disparità di genere – L’indice di uguaglianza di genere monitora i divari tra uomini e donne in diversi ambiti, nei paesi membri. L’Italia da questo punto di vista è migliorata, ma è ancora sotto la media Ue e le resta molta strada da fare soprattutto nell’ambito lavorativo. (*)
12 – Alfiero Grandi *: Premierato, autonomia differenziata, lavoro: La Via Maestra e la strategia referendaria
13 – Irene Doda*: Siamo in guerra: le nuove superpotenze si chiamano Google, Facebook, Amazon, Apple e sono sempre più pronte a prendere il posto dei vecchi stati. L’America Latina non vuole i datacenter di Google

 

 

01 – La Marca (PD) *: INCOERENZA DEL MINISTRO DEGLI ESTERI TAJANI SUL TURISMO DI RITORNO
“HO LETTO IN UNA NOTA STAMPA DEL 28 FEBBRAIO – ESORDISCE LA SENATRICE LA MARCA – CHE IL MINISTRO DEGLI ESTERI NONCHÉ VICEPREMIER, ANTONIO TAJANI, HA INCONTRATO I VERTICI DI GRUPPO FS ITALIANE E TRENITALIA PER CONCORDARE NUOVE SCONTISTICHE SUI VIAGGI IN TRENO PER I CONNAZIONALI RESIDENTI ALL’ESTERO CHE INTENDANO VISITARE L’ITALIA.”
“La notizia non può che far piacere – continua la Senatrice – ma dimostra tutta l’incoerenza di questo Governo. Le agevolazioni a cui si fa riferimento nel comunicato sono state concordate, ormai quasi due anni fa, tra la sottoscritta e l’allora Ministro del Turismo Garavaglia, poco prima della caduta del Governo Draghi. Il Ministro Tajani non ha fatto altro che riprendere gli elementi di quell’intesa. Inoltre – prosegue la Senatrice – queste agevolazioni erano contenute in un emendamento da me presentato alle ultime due manovre di bilancio, quelle del 2023 e 2024, puntualmente bocciato dallo stesso Governo in entrambe le occasioni. Nonostante l’ex Ministro del Turismo Garavaglia appartenesse ad un altro schieramento politico, riuscimmo a superare le divergenze politiche per il bene dei connazionali all’estero.”
“Peccato però – conclude la Senatrice – che il Ministro Tajani, dopo che il suo Governo ha bocciato per ben due volte il mio emendamento, abbia deciso di procedere senza coinvolgere un singolo Parlamentare eletto all’estero. Auspico per il futuro un maggior coinvolgimento su questioni che riguarderanno i connazionali nel mondo.”
*(Sen. Francesca La Marca – 3ª Commissione – Affari Esteri e Difesa – Electoral College – North and Central America)

 

02 – Mario Pierro*: LAUREATE IN FUGA ALL’ESTERO, OLTRE 138 MILA HANNO LASCIATO IL PAESE – IL CASO. RAPPORTO SVIMEZ: COM’È CAMBIATA L’EMIGRAZIONE FEMMINILE NEGLI ULTIMI VENT’ANNI. PARTONO LE DONNE MERIDIONALI, IN CRESCITA RISPETTO AGLI UOMINI

Il picco è stato raggiunto nel 2020, quando sono state registrate 15.282 partenze verso una destinazione estera, un valore dieci volte superiore ai livelli del 2002 (in cui le partenze erano pari a 1.431). Questa per la Svimez è la nuova emigrazione del Sud: a partire sono le donne laureate. L’impennata di questa nuova emigrazione cosiddetta «qualificata» è stata osservata a partire dal 2015 si legge in un rapporto reso noto ieri nella giornata internazionale delle donne, otto marzo. Fu allora che la fuga è aumentata del 15% rispetto all’anno precedente. Fatta eccezione per contrazione osservata nel 2021 per effetto della pandemia (11.830 partenze in totale), il ritmo di crescita medio annuo dei flussi migratori qualificati verso l’estero per la componente femminile si attesta al +10,4%.

GENDER GAP, BANKITALIA: ITALIA FANALINO DI CODA IN EUROPA
La tendenza sembra essere consolidata ed è in continua crescita. Complessivamente, nel periodo 2002-2021, hanno lasciato il paese 138.386 laureate (98.987 dal Centro-Nord e 39.999 dal Mezzogiorno): una perdita netta (al netto dei flussi in entrata provenienti dall’estero) di -71.606 persone che si sono laureate nel frattempo. In percentuali assolute, la stima è impressionante. Stiamo infatti parlando del 47% della perdita netta di laureati italiani. Dunque, non solo nell’università italiana ci si laurea poco, ma poco meno della metà di chi lo fa emigra all’estero. Segno inequivocabile di una scelta esistenziale che può essere sicuramente dettata dal fatto che all’estero si trovano migliori condizioni di vita, di salario, di lavoro, di scelte che non possono essere fatte. Insomma, questo è il riflesso strutturale di una realtà più grande: un paese le cui classi dirigenti hanno scelto un modello industriale e sociale basato sulla precarizzazione continua, i bassi salari. Il tutto peggiorato da uno Stato sociale ingiusto, disfunzionale e tra i peggiori in Europa. Una situazione che colpisce, in primo luogo, le donne, sia sul lavoro che nella società.

PER LE DONNE «POCKET MONEY», I SOLDINI DELLA SPESA
La Svimez ha inoltre osservato anche un’altra trasformazione, quella della composizione dell’emigrazione delle laureate per regione di provenienza. La quota delle laureate meridionali, sul totale emigrate dall’Italia, è passata dal 20% dei primi anni 2002 all’oltre 30% dell’ultimo triennio. Questa è una prova ulteriore dell’aumento della disoccupazione, e di conseguenza anche della precarietà, del mercato del lavoro elle regioni del Sud. Ora, queste persone si muovono in primo luogo verso le regioni del Centro-Nord. E i numeri sono in drastico aumento. La Svimez parla di oltre 739.869 donne in vent’anni. In media, ogni anno circa 36.993 donne meridionali si sono trasferite in una regione centro-settentrionale, un flusso rimasto piuttosto costante negli anni.

Di conseguenza, sono aumentate anche le migrazioni da Sud verso l’estero. Parliamo di valori quasi raddoppiati rispetto ai primi anni Duemila. Il fenomeno ha registrato un’intensificazione particolarmente significativa tra il biennio 2015-2016 (+18,7%), fino al picco dl 2019 di 15.476.

REDDITO DI BASE, UNA POLITICA DI LIBERAZIONE
La peculiarità del fenomeno registrato dalla Svimez, infatti, consiste in una maggiore selezione dell’emigrazione che, nei fatti, discrimina le donne laureate da quelle che non hanno il titolo di studio «superiore». Tra il 2002 e il 2010, delle migranti italiane (sia nel paese, sia all’estero), 1 donna su 4 era laureata. Si trattava di una quota sensibilmente superiore a quella riferita alla componente maschile, inferiore al 20%. Il divario di genere si è ampliato dopo il 2013, fino ad arrivare al 42% per le donne nel 2021, +9% rispetto all’analogo dato degli uomini. La «selezione» in questione ha riguardato maggiormente le donne meridionali . Nel 2022 le laureate sul totale emigrate aveva raggiunto il 46% contro il 37% del Centro-Nord ed era maggiore dei laureati uomini che hanno lasciato il Centro-Nord (il 45%).
*( Fonte: Il Manifesto. Mario Pierro, giornalista)

 

03 – Christian Luca Di Benedetto*: IL LEGAME TRA BERLUSCONI, LA ‘NDRANGHETA E LA MASSONERIA: ECCO LA VERITÀ – IL RUOLO CENTRALE DI BERLUSCONI NELLE DINAMICHE DI POTERE- UN PONTE TRA DIVERSE REALTÀ CRIMINALI E LA POLITICA – LE IMPLICAZIONI DELLE RIVELAZIONI DEL PROCESSO ‘NDRANGHETA STRAGISTA, DOVE IL NOME DI BERLUSCONI EMERGE IN UN POSSIBILE CONTESTO DI ACCORDI.

Le rivelazioni emergenti dal processo d’appello ‘Ndrangheta stragista, dettagliate in esclusiva da Lacnews24.it, aprono uno squarcio su una realtà inquietante che lega il mondo della politica italiana, in figura di Silvio Berlusconi, alle oscurità della criminalità organizzata e alla massoneria deviata.

IL RUOLO CENTRALE DI BERLUSCONI NELLE DINAMICHE DI POTERE
La testimonianza di Marcello Fondacaro nel processo ha illuminato le dinamiche sottese al patto tra le più alte sfere della ‘ndrangheta, la massoneria e la politica italiana. Attraverso il suo racconto, Lacnews24.it mette in evidenza come questo intricato intreccio abbia avuto un ruolo nel plasmare eventi storici italiani, con un focus particolare sull’ascesa politica di Silvio Berlusconi e la nascita di Forza Italia.
Le informazioni fornite da Fondacaro delineano un quadro in cui Berlusconi emerge non solo come figura politica di spicco ma anche come punto di riferimento nelle strategie di lungo termine della ‘ndrangheta e delle logge massoniche deviate. La decisione di mutare i referenti politici, passando dalla Democrazia Cristiana al sostegno per Forza Italia, riflette una strategia ben ponderata per mantenere e accrescere l’influenza delle organizzazioni criminali sulla politica italiana. Secondo sempre quanto riferito da Lacnews24.it

UN PONTE TRA DIVERSE REALTÀ CRIMINALI E LA POLITICA
Il resoconto evidenzia l’esistenza di una rete complessa e multiforme, che vede protagonisti mafiosi, massoni e politici in una danza di potere e interessi. Fondacaro, posizionandosi al centro di questo intricato labirinto, offre una prospettiva privilegiata sui legami tra il capo del clan Mancuso e logge massoniche non regolari, rivelando come queste connessioni deviate abbiano giocato un ruolo cruciale nel sostenere l’ascesa di Berlusconi e di Forza Italia.
Queste rivelazioni, come dettagliato da Lacnews24.it, sollevano interrogativi profondi sulla natura della democrazia italiana e sulle sfide poste dall’infiltrazione di interessi criminali nella vita politica del paese. La presenza pervasiva di Berlusconi nelle pagine della sentenza evidenzia non solo l’impatto storico del suo operato ma anche la necessità di una riflessione critica sul legame tra politica e criminalità organizzata.
*(Fonte: NewsMondo. Christian Luca Di Benedetto. professionista eclettico, laureato in scienze dell’amministrazione ed organizzazione ma diplomato in informatica.)

 

04 – Riccardo Chiari*: A PISA E A FIRENZE IN PIAZZA CONTRO BOMBE E MANGANELLI – DIRITTO DI PROTESTA. IN MIGLIAIA SONO TORNATI A RIBADIRE QUELLO CHE LA SCORSA SETTIMANA LA REPRESSIONE HA PROVATO A ZITTIRE: PALESTINA LIBERA DALLA MATTANZA.
«FREE FREE PALESTINE». Il coro si alza potente, avvolge un corteo di migliaia di persone, rimbalza sugli splendidi palazzi del lungarno. Ci sono le ragazze e i ragazzi dei collettivi studenteschi davanti e un bel pezzo di Pisa dietro. È una «presa della città» che sa di riscatto, dopo le manganellate alzo zero dei celerini una settimana fa in via San Frediano. In testa al corteo un grande striscione «Pisa in piazza contro bombe e manganelli», tenuto da minorenni e appena maggiorenni. «Siamo qui per ribadire i temi che portavamo in piazza quel giorno – spiega Margherita – stop al genocidio, cessare il fuoco, Palestina libera dalla guerra e da una vera e propria mattanza portata avanti dal governo israeliano e dai tanti che gli danno supporto, fra cui anche l’Italia. Ora ci aggiungiamo basta con la repressione e la violenza contro chi manifesta pacificamente nelle piazze».

È IL NEONATO COORDINAMENTO cittadino degli Studenti medi a tenere la testa di una manifestazione di più di 6mila persone di ogni età, con una robusta rappresentanza di prof e docenti universitari. «Era necessario fare rete, anche per fronteggiare tutti insieme le strumentalizzazioni», raccontano alcuni dei ragazzi che il giorno delle manganellate (il 23 febbraio) sono finiti al pronto soccorso.
Fare rete anche per non trascurare la realtà quotidiana che si vive nelle scuole: «Non siamo qui per fare le vittime – dice Emma al megafono – anche se ci sono stati nostri coetanei picchiati, gettati a terra e ammanettati, la cui unica colpa era solidarizzare con chi, dall’altra parte del Mediteranneo, si vede negato il diritto alla vita. Vogliamo anche denunciare che ci stanno disintegrando l’istruzione, cercando di cancellare lo spirito critico che invece deve essere una parte essenziale del nostro percorso scolastico».
Dal furgone che accompagna la manifestazione parte una colonna sonora fatta di Punk Islam ed Emilia Paranoica, mentre il corteo, inizialmente sotto la pioggia, compie un percorso di circa tre chilometri nel centro cittadino toccando Palazzo Gambacorti dove ha sede il comune, la Questura e la Prefettura, prima di finire in quella piazza dei Cavalieri diventata quel giorno, chissà perché, zona rossa invalicabile. A vigilare a distanza, con una presenza molto più discreta di quanto accada di solito, ci sono le forze dell’ordine, per lo più in borghese.
Vigila anche la Curva Nord pisana, che di fatto costituisce il servizio d’ordine di una manifestazione a cui tante e tanti partecipano per la prima volta: «Non siamo abituati a manifestare – raccontano due universitari – ma questa volta non potevamo non esserci, perché i nostri coetanei che quel venerdì manifestavano lo facevano per ragioni molto serie, ed hanno subito delle violenze allucinanti».

IN MEZZO AL CORTEO tanti striscioni, spiccano «Pisa non ha paura» è Fuori la guerra dalla storia». Poi tante bandiere della Palestina e color arcobaleno. «Nella piattaforma di questa manifestazione – non dimentica il consigliere comunale della Sinistra alternativa, Ciccio Auletta – ci sono le dimissioni del questore, del deputato e consigliere comunale leghista Ziello, e del ministro Piantedosi, per le chiare responsabilità politiche per le violenze ingiustificabili e gravissime da parte delle forze dell’ordine e per le offese alla verità su quello che è accaduto fatte ripetutamente da Ziello». Poco distante da Auletta, si vede sfilare anche il presidente provinciale, il dem Massimiliano Angori.
A Firenze sono molti meno in corteo, comunque quasi un migliaio di persone si ritrova al tramonto a 50 metri dal consolato Usa, lì dove sono volate le manganellate nella stessa mattina delle violenze pisane. Un gruppo di giovanissimi regge lo striscione «STOP GENOCIDE, CEASE FIRE». Fra loro Soell, Ghada e Giulia dei collettivi dei licei Machiavelli Capponi e Agnoletti: «Non possiamo stare in silenzio di fronte a quello che stiamo vedendo da mesi – spiegano – a scuola ci insegnano fin da piccoli che le guerre non devono essere mai fatte. Invece i potenti del pianeta stanno facendo sempre gli stessi errori».

COSÌ COME A PISA, ai cori «Free Palestine» si aggiungono quelli «ISRAEL TERRORIST» ÈUSA TERRORIST» ripetuti più volte dai partecipanti, fra i quali insieme agli studenti e alle studentesse non mancano tante e tanti della comunità palestinese e di quella islamica cittadina e il sindacato di base Si Cobas. Ma anche questa manifestazione si svolge senza problemi di alcun genere, con le forze dell’ordine che sorvegliano a distanza il corteo che, dopo un lungo sit in davanti al consolato, inizia poi a muoversi dal lungarno Vespucci in direzione dello storico quartiere di San Frediano, l’Oltrarno fiorentino, per chiudere il suo percorso in piazza Santo Spirito quando si è fatta ora di cena.
*(Riccardo Chiari. Giornalista de il manifesto, responsabile della pagina regionale toscana del quotidiano comunista)

 

05 – Carmen Pennisi*: GLI SPRECHI DEL GOVERNO MELONI? SCOPPIA LA POLEMICA PER I VOLI DI STATO – GOVERNO MELONI: I NUMERI AL CENTRO DELLA POLEMICA – MINISTRI E FREQUENZE DEI VOLI: CHI VIAGGIA DI PIÙ?

Il 2023 ha segnato un vero e proprio record per l’uso dei voli di Stato in Italia, con la flotta a disposizione del governo guidato da Giorgia Meloni che ha visto un’intensificazione significativa delle missioni aeree.
Un’analisi approfondita dei dati, fornita da La Repubblica, rivela come i ministri abbiano frequentemente optato per i voli privati a discapito di quelli di linea, infrangendo una tendenza all’austerità mantenuta negli anni precedenti.

GOVERNO MELONI:
I NUMERI AL CENTRO DELLA POLEMICA. L’ESECUTIVO MELONI HA TOTALIZZATO BEN 165 VOLI DI STATO NEL SOLO ANNO 2023, UN SALTO QUANTITATIVO NOTEVOLE SE CONFRONTATO CON I 49 VOLI DEL GOVERNO CONTE I NEL 2019.

Questo aumento segue un trend già in crescita, con 157 voli registrati nel 2022 e 126 nel 2021, escludendo il periodo anomalo del 2020 dovuto alla pandemia. Questi dati superano di gran lunga i numeri del passato, nonostante le direttive di contenimento dei costi e l’ottimizzazione degli spostamenti imposte dal governo Monti.
Il dettaglio dei viaggi mostra che quasi tutti i ministri del governo hanno fatto uso della flotta di Stato, con ANTONIO TAJANI, MINISTRO DEGLI ESTERI e vicepremier, in testa alla lista CON 45 VOLI.

MINISTRI E FREQUENZE DEI VOLI: CHI VIAGGIA DI PIÙ?
Seguono ADOLFO URSO, ministro delle Imprese del Made in Italy, CON 25 VOLI, E GUIDO CROSETTO, MINISTRO DELLA DIFESA, CON 24.
Interessante notare come il ministro della GIUSTIZIA, CARLO NORDIO abbia evitato completamente l’uso dei voli di Stato nel 2023, in seguito alle critiche ricevute per l’uso frequente di tale mezzo per rientrare nella sua Treviso.
Nonostante l’aumento dei voli, è importante ricordare che esistono regole precise per l’utilizzo dei voli di Stato. Questi possono essere richiesti solo in casi eccezionali, per esigenze di trasferimento imprevedibili, urgenti e connesse all’esercizio delle funzioni istituzionali, quando i voli di linea non sono un’opzione praticabile.
La direttiva vuole evitare l’uso di tali voli per tratte coperte efficacemente dal trasporto ferroviario, in linea con gli impegni istituzionali.
*(Carmen Pennisi – Blasting News. Giornalista altamente adattabile con una forte passione per la comunicazione e le scienze sociali)

 

06 – Mario Ricciardi*: GLI INTELLETTUALI SENZA SENNO DELLA PICCOLA ITALIA – DI FRONTE AL MASSACRO. MENTRE ALLA CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA DELL’AIA SI DISCUTE DI UN’ACCUSA DI GENOCIDIO A DANNO DEI PALESTINESI, CI SAREBBE UN GRAN BISOGNO DI PERSONE CHE ABBIANO «UN POCO DI SENNO». INVECE, QUELLO CHE LEGGIAMO E ASCOLTIAMO È, IN MOLTI CASI, IL TENTATIVO DI GIUSTIFICARE L’INGIUSTIFICABILE

«L’OSPITE, IL SUPPLICE, È COME UN FRATELLO PER L’UOMO CHE ABBIA ANCHE UN POCO DI SENNO». Agli albori della cultura europea, le parole di Omero ci ricordano che la protezione dello straniero, e di colui che invoca aiuto, erano manifestazioni della giustizia divina. Chi ha fame andrebbe sfamato, non ucciso, e il fatto che tanti cerchino capziosamente di eludere la doppia ingiustizia che si è consumata a danno di centinaia di supplici a Gaza è un sintomo dell’abisso morale in cui stiamo precipitando. Che ci siano tanti intellettuali impegnati in prima fila per offuscare distinzioni – come quella tra giustizia e vendetta – che dovrebbero essere chiare a chiunque abbia «anche un poco di senno», è una cosa che forse non stupisce, ma certo riempie di amarezza.
Sono passati quasi cinque mesi dal brutale attacco di Hamas ai danni di civili, non solo israeliani: tra le vittime ci sono stati gli abitanti di alcuni kibbutz, membri delle forze di sicurezza e anche tanti ragazzi e ragazze che stavano prendendo parte a un rave nelle vicinanze del confine con la striscia di Gaza. Secondo dati recenti, le persone uccise nel corso di quella carneficina sono state almeno 1.160, alle quali bisogna aggiungere i feriti e gli ostaggi (alcuni dei quali sono stati liberati, ma la maggioranza, se non sono morti, sono ancora nella mano dei rapitori). Negli stessi cinque mesi da quel terribile 7 ottobre, sono stati uccisi più di 30mila palestinesi, una buona parte dei quali erano donne e bambini.

L’ITALIA HA CONTINUATO AD ARMARE TEL AVIV
Non è chiaro, allo stato attuale, quanto questo massacro abbia indebolito Hamas, ma pare indiscutibile che non abbia facilitato la liberazione degli ostaggi. Neppure si capisce quale sia la strategia perseguita dal governo di Israele, e questa opacità, accompagnata dalle dichiarazioni dei più estremisti tra gli esponenti della coalizione, alimenta il timore che alla espulsione degli abitanti della striscia di Gaza possa seguire una nuova, massiccia e illegale, annessione di territori.
In queste circostanze, e mentre alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia si discute di un’accusa di genocidio a danno dei palestinesi, ci sarebbe un gran bisogno di persone che abbiano «un poco di senno». Invece, quello che leggiamo e ascoltiamo è, in molti casi, il tentativo di giustificare l’ingiustificabile. La disumanizzazione delle vittime, e persino l’accusa di antisemitismo rivolta a ebrei, anche cittadini israeliani, che hanno il rigore morale e il coraggio di denunciare le politiche del governo Netanyahu.

114 UCCISI, LA STRAGE DEGLI AFFAMATI: SPARI SU CHI CERCAVA PANE
Per quel che riguarda l’Italia, la cosa che più colpisce, oltre alla povertà degli argomenti di chi cerca di difendere l’uso massiccio e indiscriminato della forza da parte del governo israeliano, è l’assoluta incapacità di buona parte di coloro che intervengono su questo tema di rendersi conto di quanto sia cambiata negli ultimi venti anni la sfera pubblica globale.
Ai tempi delle guerre in Afghanistan e in Iraq, la maggior parte delle voci che dominavano il dibattito sulla politica estera erano di studiosi o giornalisti statunitensi o europei. Tra questi, pochissimi erano originari di paesi mediorientali, e in molti casi neppure esperti dell’area o familiari con le culture, le lingue, e le storie dei paesi su cui formulavano giudizi perentori.
Oggi la situazione è molto diversa.
Chiunque abbia accesso alla stampa internazionale, segua i numerosi canali all news, i podcast, e legga qualche libro, non può che essere colpito dalla quantità e dalla varietà delle voci che provengono dal Medio Oriente, o da paesi che oggi vengono descritti con l’etichetta di «Global South» (che coincidono in realtà con gran parte delle ex colonie europee). Kim Ghattas, Kenan Malik, Anita Anand, Mehdi Hasan, Nesrine Malik o Sathnam Sanghera sono i primi nomi che vengono in mente, ma la lista potrebbe essere lunghissima.
Grazie a queste voci, e a tante altre con un simile background, oggi abbiamo una comprensione molto più profonda e bilanciata della storia dei rapporti tra le ex potenze coloniali e le vittime del colonialismo, e anche delle conseguenze che essa ha per la politica internazionale.
Visto alla luce della sfera pubblica globale, il dibattito italiano appare provinciale e asfittico. Tutti bianchi, e in larga parte maschi, gli editorialisti e gli ospiti di talk show che cercano di giustificare o di sminuire l’enormità del massacro in corso a Gaza proiettano l’immagine di un piccolo Paese che ha perso contatto con la realtà.
*(Fonte: Il Manifesto. Mario Ricciardi insegna Filosofia del diritto presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e Teoria generale del diritto presso l’Università Statale di Milano. Collabora regolarmente all’inserto culturale della domenica del Sole 24 Ore, a la Rivista dei Libri e al quotidiano Il Riformista.)

 

07 – Roberto Livi*: L’AVANA – Cuba non è stata mai indifferente. E torna in piazza. MANIFESTAZIONI CONTRO IL GENOCIDIO. Diaz-Canel accusa Washington: «Crimini di Tel Aviv impuniti solo grazie ai suoi veti»

«CESSATE IL FUOCO IMMEDIATO» e fine del genocidio contro il popolo palestinese a Gaza» sono stati gli slogan risuonati ieri in tutti i capoluoghi delle 15 provincie di Cuba nelle manifestazioni in sostegno della Palestina organizzate dall’Unione della gioventù comunista. La più importante, per numero (molte migliaia di persone) e politica – con la presenza delle maggiori autorità dell’isola, il presidente Miguel Díaz- Canel in testa – si è svolta all’Avana.
Il concentramento di massa – trasmesso in diretta dal principale canale di Stato, Cubavision, è iniziata la mattina presto nella cosiddetta «Tribuna antimperialista», un vasto spiazzale nel malecón (lungomare) di fronte all’ambasciata degli Stati uniti, ieri chiusa come una fortezza assediata. Fin dalle sette di mattina sono sventolate bandiere della Palestina assieme al vessillo cubano e a molti cartelli che chiedevano la fine degli «attacchi assassini» contro la popolazione palestinese. In prima fila di fronte alla Tribuna tutti i leader del Pc e del governo, muniti di kefiah bianca e nera.
DAL PALCO DELLA TRIBUNA si sono susseguiti interventi intramezzati da musica di cantautori e repentisti (bardi popolari che improvvisano strofe in decime). Uno degli interventi più emotivi e stato quello di una giovane palestinese che ha letto la poesia di Yasser Yamil, Razones: un lungo elenco di ragioni che sostengono la lotta dei palestinesi per un loro stato libero e sovrano. Molto applaudito è stato l’intervento della multicampionessa paraolimpica Omara Durán, che ha espresso la solidarietà delle donne cubane e ha denunciato i massacri e le violazioni del Diritto internazionale umanitario degli attacchi israeliani contro ospedali e infrastrutture umanitarie a Gaza.

CUBA, IL PANIERE NON TIENE PIÙ. ORA SCARSEGGIA ANCHE LA FARINA
Quello di ieri è stato il secondo atto di massa in appoggio alla Palestina organizzato a Cuba dall’inizio dell’aggressione israeliana a Gaza dopo l’attacco del 7 ottobre di Hamas. Da allora vi sono state più di 30.000 vittime palestinesi. «Di fronte a questi crimini Cuba non è restata nè resterà indifferente» – ha scritto il presidente Díaz-Canel su X. L’Avana – ha continuato – denuncia «la responsabilità degli Stati uniti che fanno uso del loro diritto di veto all’Onu per bloccare le risoluzioni che chiedono un cessate il fuoco a Gaza» e che «assicurano una pericolosa impunità ai crimini di Israele».
IL COLPO D’OCCHIO ieri mattina di una compatta massa di manifestanti che si allungava dalla Tribuna antimperialista lungo il malecón, animata da canti e balli e agitata nello sventolio di bandiere, contrastava con il plumbeo parallelepipedo di cemento dell’ambasciata degli Stati uniti, sbarrata e silenziosa. Per qualche ora si ribaltava così l’assedio economico-commerciale e finanziario unilaterale che da più di 60 anni gli States, qualunque sia il presidente in carica, impongono all’isola.
Stati uniti che, assieme a Israele, sono stati sotto accusa anche nel vertice della Comunità degli Stati latinoamericani e del Caribe (Celac) svoltosi venerdì a Kingstown, capitale di San Vicente e Granadine. La maggioranza dei 33 paesi che fanno parte della Celac hanno condannato la politica «criminale» di aggressione di Israele a Gaza. Il presidente brasiliano, Lula da Silva, assieme al collega colombiano Gustavo Petro hanno chiesto «la fine del genocidio» in atto a Gaza.
«Quanto accade a Gaza sta uccidendo l’umanità» ha commentato Petro, il quale ha informato che la Colombia «smetterà di compare armamenti da Israele e provvederà a sostituire quelli che già ha acquistato negli anni precedenti».
*(Roberto Livi. giornalista, inviato a Cuba de “il manifesto”)

 

08 – Chiara Cruciati*: A GAZA L’EUROPA COLONIALE VEDE SOLO MACCHIE NERE.
VISTE DALL’ALTO, SEMBRANO FORMICHINE. PUNTINI CHE SI MUOVONO AVANTI E INDIETRO, CHI PIÙ VELOCE, CHI MENO. CORPI INDISTINGUIBILI SI AMMASSANO, MACCHIE NERE. SEMBRANO FORMICHINE, O STORMI DI UCCELLI. VISTA DA UN DRONE DELL’ESERCITO ISRAELIANO, LA FOLLA DI AFFAMATI SULLA ROTONDA AL-NABULSI NON SEMBRA FATTA DI PERSONE.
È vista da lontano, la stessa distanza che definisce l’anestesia collettiva. Se si scende sulla terra, i volti si distinguono. Nei video le facce sono bianche di morte e farina, file di cadaveri su carretti trainati dagli asini e sul retro di furgoncini.

ORMAI FANNO da ambulanza, o carro funebre. Alcuni hanno sangue raggrumato intorno alle tempie. Visti da vicino sono persone. Ascoltate da vicino, le testimonianze interrogano su quel che resta della nostra capacità di dare un nome alle cose. «Non volevo portare mio figlio Mahmoud, ma non avevamo niente da mangiare. Ho detto: andiamo, prendiamo un sacco di farina e mangiamo per alleviare la nostra fame. Il mio amato figlio è morto affamato».
Dicono che i più fortunati sono quelli morti il primo giorno di guerra: non hanno assistito alla barbarie venuta dopo. 30mila uccisi significa un gazawi su 75. Con 10mila dispersi e 70mila feriti, significa che un palestinese di Gaza su 20 è morto, ferito o disperso. Poi ci sono i vivi, ma la fame usata come arma non lascia scampo all’anima: come si risolleverà una popolazione che da cinque mesi è umiliata, disumanizzata e terrorizzata?
Gaza è una tomba, lo è anche dell’incapacità di dare un nome alle cose. Certe parole fanno paura all’Europa che non si interroga sul loro senso e la loro pratica. Razzismo, colonialismo, suprematismo: a Gaza ci sono tutte. Anche genocidio.

SI DISCUTE da settimane – giuristi, storici, giornalisti – se vada chiamato genocidio, se quanto avviene rientri nell’articolo 2 della Convenzione del 1948, «l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso» attraverso uccisioni, lesioni gravi, condizioni di vita intese a provocare la distruzione fisica totale o parziale, impedimento alle nascite.
La Corte internazionale di Giustizia l’ha chiamato «genocidio plausibile» e ha concesso a Israele un mese per smetterla, qualsiasi cosa sia. Il mese è passato, ed è stato uno dei peggiori. La fame avvolge Gaza come un sudario. Si deve scegliere, morire di fame o del tentativo disperato di procacciarsi del cibo. Che nome vogliamo dargli?
*(Chiara Cruciati. Redattrice Esteri/vicedirettrice al manifesto. Autrice di “Cinquant’anni dopo”, “Israele, mito e realtà”, “La montagna sola” Tra Medio Oriente e Italia)

 

09 – CONTRO LA TRAPPOLA DELL’ECONOMIA DELLA CARITÀ – LO SPECIALE DI ALIAS SULL’ECONOMIA FEMMINISTA. QUI APRIAMO UNA DISCUSSIONE IN VISTA DELLO SCIOPERO DELL’8 MARZO. IN FONDO ALL’ARTICOLO TROVATE I LINK AGLI ALTRI PEZZI DELLO SPECIALE E IL TOPIC FEMMINISMI 2.

La metà delle donne italiane non lavora. Il 22% non è autonomo. Le nostre pensioni sono più basse di 40 miliardi di euro (INPS). La destinazione dei PNRR alimenta un mercato del lavoro sessuato. E ci vorranno 131 anni per recuperare il gap globale, ammesso che sia un obiettivo.
Aumenta solo il lavoro di cura perché ammortizza (consente?) la risacca dei tagli al welfare; una forza messa a sistema già negli anni ‘20/’30 dalle teorie tayloriste dell’organizzazione industriale applicata al lavoro domestico (dal lavoro carponi al lavoro eretto); poi legalizzata dall’art. 37 della Costituzione come «essenziale funzione familiare».
Non una cortesia ma la trappola di un’economia della carità con cui il sistema patriarcale rafforza sé stesso. Perché stupirci, dunque, che i rapporti di possesso siano vissuti come normalità? L’immagine femminile è un’invenzione maschile (Lonzi) forse anche per mascherare i comportamenti antisociali – omicidi, incidenti stradali mortali, evasione fiscale, etc –, al 90% agiti proprio da loro (Bersani Franceschetti, Peytavin).
Non abbiamo sputato lontano e oggi facciamo i conti con «la cicatrice lasciata dal taglio della molteplicità che avremmo potuto essere» (Preciado). Infatti, se leggiamo gli indicatori economici ponendo le giuste domande – quindi con una postura femminista – vediamo come noi donne non siamo ancora nella piena condizione di soggetto.
Tutt’altro. È così che la politica della vita quotidiana, quella fatta di relazioni tra generi, classe, razza, resta modellata dalle famiglie tradizionali, dai mercati e dagli Stati, mentre noi la rincorriamo faticosamente. Qual è il sesso dei soldi? Che libertà c’è senza autonomia economica? Però, in un inedito risolvere invece del fare (che è la cifra del lavoro delle donne), si sta costruendo una mappa delle risorse tramite Fondi, come UnaNessunaCentomila e Semia, per non rimanerci stecchite.
Non parliamo solo di erogazione dei finanziamenti ma di un autentico reddito di libertà, fatto di tempo e investimenti nostri accompagnati da una narrazione delle storie (Panarello). Ecco anche a cosa servono i soldi, un’economia femminista, a non lasciarci sopraffare da questa condizione; a sovvertire l’ordine economico sessuato e a fare anche del denaro mezzo di alfabetizzazione politica. È la solita ricchezza che va redistribuita. Certo abbattere il capitalismo è compito delle generazioni.
La conflittualità ci è amica per rifarci le nostre «unghiette eclettiche» (di citazione leniniana). E una certezza in più l’abbiamo: non c’è neutro che possa farsi cambiamento. Oltre ai dati, potremmo darci un compito, forse, un metodo per costruire il comune. L’8 marzo sottraiamoci, intanto per un giorno, alla trappola della cura-sfruttamento e decliniamola collettivamente come autodeterminazione. Lo sciopero potrebbe essere uno smottamento verso nuovi modi/mondi. E un tentativo di finanziarceli da sole i nostri sogni. (redazione@factorya.org ).
*(Simona Bonsignori, giornalista e direttrice responsabile del periodico on line manifestolibri.it)

 

10 – Azzurra Rinaldi*: PER LE DONNE «POCKET MONEY», I SOLDINI DELLA SPESA – ECONOMIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L’ITALIA È AL 104° POSTO TRA 146 PAESI ANALIZZATI RISPETTO ALLE PARI OPPORTUNITÀ LAVORATIVE

PERCHÉ DOBBIAMO ANCORA PARLARE DI PARITÀ DI OPPORTUNITÀ TRA UOMINI E DONNE? NON È UN PROBLEMA GIÀ RISOLTO, IN UN PAESE CHE PUÒ VANTARE SIA UNA PREMIER CHE UNA SEGRETARIA DEL PRINCIPALE PARTITO D’OPPOSIZIONE?
Sfortunatamente, no. In effetti, ironicamente, proprio nell’anno in cui entrambe queste posizioni di leadership venivano ricoperte da donne, il nostro paese perdeva ben 16 posizioni nella graduatoria internazionale del Global Gender Gap elaborata dal World Economic Forum, arrivando a essere 79° su un totale di 146 paesi analizzati.
Allo stesso tempo, c’è anche da dire che siamo 104° per parità di opportunità economiche tra uomini e donne. Del resto, secondo Eurostat, l’Italia è l’ultimo paese, tra quelli membri dell’Unione Europea, per tasso di occupazione femminile (con percentuali particolarmente preoccupanti nel Mezzogiorno).
E così, le donne italiane non lavorano, non guadagnano, non gestiscono il denaro. A poco vale l’adagio per cui «in casa mia, i soldi li ha sempre gestiti mia madre», perché tutti i dati ci dimostrano che le donne tradizionalmente gestiscono il cosiddetto pocket money, ovvero i soldini della spesa, ma non sono certo le protagoniste delle scelte di investimento, di acquisto delle case, di sottoscrizione dei mutui. Anzi, secondo OCSE, nel 2022, il 22% delle donne italiane è ancora in condizione di dipendenza economica. Cosa significa? Che, poiché non guadagna o non gestisce il denaro, non è in grado di far fronte in autonomia a uno shock economico inatteso (anche banale, come quando si rompe la lavastoviglie), che delega sistematicamente la gestione dei soldi al proprio partner e che non ha informazioni dettagliate circa gli impegni finanziari di lungo periodo, come mutui o piani di accumulo.

Certo, qui la prima domanda sarebbe: ma perché le donne italiane non lavorano? La risposta è semplice, almeno secondo Eurostat: non lavorano perché si prendono cura, gratis, di casa e famiglia. Secondo la ricerca European Values, nella media europea, il 39% delle donne che non risulta occupato non cerca attivamente un lavoro perché la propria giornata è già oberata dal lavoro di cura non retribuito. Per l’Italia, questo valore sale al 65%. Non è un tema nuovo: mancano le strutture per l’infanzia (in Calabria, siamo a 11 posti disponibili ogni 100 bambini nella fascia 0-2 anni), non sempre i nonni sono disponibili a sostituirsi al welfare che dovrebbe essere pubblico e gratuito, i padri non contribuiscono alle attività di cura. Secondo l’International Labour Organization, queste attività in Italia vengono svolte per il 74% del totale dalle donne.

E su questo dovremmo fare una riflessione collettiva: perché, ad esempio, mettere al mondo delle creature, se poi non si vuole passare del tempo con loro? Da un lato, c’è lo stereotipo: l’uomo che si prende cura non è maschio abbastanza. In Italia, lo chiamano mammo, per rimetterlo subito al suo posto, svirilizzandolo. Dall’altro, c’è la normativa. Quella sul congedo per la nascita prevede 5 mesi obbligatori per la maternità e solo 10 giorni per la paternità. E comunque, il 57% dei neo-padri, di fronte a un permesso retribuito al 100% comunque non lo prende e preferisce rimanere al lavoro. Non ci vorrebbe uno sforzo creativo per risolverlo: basterebbe ripensare la cura, come si è fatto in altri paesi, anche europei. In Spagna, per esempio, si è equiparato perfettamente il congedo di maternità a quello di paternità, sia obbligatorio che facoltativo. Questa sarebbe una vera rivoluzione culturale: inserire la cura nell’equazione delle vite degli uomini, per la primissima volta. E, contemporaneamente, liberare la forza lavoro femminile.

Anche se piace molto, nel nostro paese, la retorica della madre che rimane a casa per prendersi cura della famiglia con molti figli, la realtà dei fatti è diametralmente opposta, come ci rivelano i dati sull’inverno demografico. E mentre si introduce nella manovra di bilancio una misura per le madri delle famiglie numerose, si perde di vista una opportunità che i dati sui paesi ricchi ci mostra chiaramente: dove il tasso di occupazione femminile è più alto, anche il tasso di natalità è più elevato. Il passaggio è quasi banale: lavorando, a essere più ricche non sono solo le donne, ma l’intero nucleo famigliare, che quindi può permettersi economicamente la decisione di avere più di un figlio. Allo stesso tempo, cresce il Prodotto Interno Lordo e, attraverso il prelievo fiscale, le finanze dello Stato sono più floride, con un effetto collaterale positivo per l’intera collettività, che può beneficiare di maggiori o migliori servizi pubblici.
Senza contare che quello che invece avviene nel nostro paese, ovvero questa persistente marginalizzazione delle donne rispetto al lavoro e al denaro, è una perdita di efficienza anche legata al fatto che sono proprio le donne a rappresentare il migliore capitale umano del paese, almeno stando ai dati che vengono confermati ogni anno dalla ricerca di Alma Laurea: le ragazze si laureano stabilmente prima e con voti più alti. Cosa accade, dunque? Che lo spartiacque è ancora, drammaticamente, quello della maternità, come ci dimostra anche una recente pubblicazione del Servizio Studi della Camera dei Deputati. Quando una donna, in Italia, si riproduce, la sua vita professionale ne viene duramente colpita (cosa che non accade per gli uomini). E a quello che dovrebbe essere un evento lieto fanno seguito dimissioni e part-time che raramente sono reversibili.
Cosa accade, invece, quando le donne possono lavorare e gestire il proprio denaro in autonomia? Non abbiamo molti dati aggregati, salvo quelli di Unioncamere sulle imprenditrici, che manifestano una maggiore spinta alla sostenibilità, alla valorizzazione delle persone e delle loro capacità, al senso di cura che si traduce anche in una maggiore attenzione agli orari di lavoro ed all’equilibrio tra vita privata e lavorativa. Da dove iniziare? Pare manchi (ai governi in generale e non solo a quest’ultimo) la volontà politica.
Ma potremmo iniziare noi donne: l’8 marzo, come ogni anno, viene indetto lo sciopero dal lavoro e dalla cura. E francamente, non vedo neppure un buon motivo per non aderire.
*(Fonte: Alias. Azzurra Rinaldi. Economista femminista, insegna Economia Politica presso l’Università Unitelma Sapienza di Roma, dove è anche Direttrice della School of Gender Economics.)

 

11 – A CHE PUNTO È LA PARITÀ DI GENERE NEI PAESI EUROPEI – DISPARITÀ DI GENERE – L’INDICE DI UGUAGLIANZA DI GENERE MONITORA I DIVARI TRA UOMINI E DONNE IN DIVERSI AMBITI, NEI PAESI MEMBRI. L’ITALIA DA QUESTO PUNTO DI VISTA È MIGLIORATA, MA È ANCORA SOTTO LA MEDIA UE E LE RESTA MOLTA STRADA DA FARE SOPRATTUTTO NELL’AMBITO LAVORATIVO.
• Per la prima volta l’indice di uguaglianza europeo ha raggiunto un punteggio pari a 70,2.
• I valori più elevati si registrano al nord-ovest, ma i paesi del sud migliorano in fretta.
• L’Italia è tredicesima (68,2) ma è il paese Ue che ha registrato il miglioramento più evidente: +14,9 punti rispetto al 2013.
Sopra la media Ue per potere, l’Italia ha ancora molta strada da fare per garantire la parità nel lavoro.
In Europa esistono ancora profondi divari di genere. Le donne incontrano maggiori difficoltà, rispetto agli uomini, ad accedere al mondo del lavoro o a ricoprire posizioni di potere e spesso guadagnano meno dei loro colleghi di sesso maschile. A casa, sono ancora considerate le principali responsabili del lavoro di cura, a causa della forza degli stereotipi sui ruoli sociali e di una concezione tradizionalista della famiglia.
Tuttavia, queste disparità si concretizzano diversamente tra gli ambiti ma anche tra i diversi stati: si tratta infatti di un fenomeno complesso e stratificato, con degli elementi di intersezionalità. L’indice di uguaglianza di genere è da questo punto di vista uno strumento molto utile, che permette di quantificare i divari e monitorare il loro progressivo appianarsi o acuirsi. L’Italia è lo stato membro che sembrerebbe più migliorato nel corso dell’ultimo decennio. Tuttavia resta ancora molta strada da fare, soprattutto per garantire la parità sul lavoro.

L’INDICE DI UGUAGLIANZA DI GENERE, UNO STRUMENTO PER MISURARE I DIVARI
L’indice di uguaglianza di genere (in inglese gender equality index) è uno strumento che permette di monitorare la disparità tra uomini e donne nei principali ambiti in cui tale disparità può articolarsi. È stato elaborato da Eige, l’istituto europeo per l’uguaglianza di genere, e serve non soltanto a confrontare tra loro le performance dei vari stati membri, ma anche a monitorare i loro progressi nel tempo e a valutare l’effetto delle politiche vigenti. L’indice ha un punteggio che va da 1 a 100: più il valore si avvicina a 1 più i divari sono ampi, viceversa più si avvicina a 100 maggiore si può dire la parità.

Ciò che emerge dall’ultima rilevazione, pubblicata nel 2023 ma che fa riferimento principalmente a dati del 2021, è che l’indice di uguaglianza di genere in Europa è in aumento. Per la prima volta ha raggiunto un punteggio superiore a 70. Con un aumento di 1,6 punti rispetto all’anno precedente (l’incremento più marcato, su base annua, dal 2013 a oggi). Quest’ultima edizione, come evidenzia il report, integra anche dati da sondaggi relativi ai divari nelle attività sociali, individuali e di cura.

70,2 L’INDICE DI UGUAGLIANZA DI GENERE NEI PAESI UE (2023).
Complessivamente l’ambito in cui si riportano i valori più elevati è quello della salute (88,5), anche se le cifre sono ormai stagnanti e anzi hanno registrato un lieve calo rispetto al 2021. Seguono denaro (82,6, anch’esso ormai stabile), lavoro (73,8) e uso del tempo (68,5). Ultimi invece i domini relativi alla conoscenza (63,6) e al potere (59,1). Quest’ultimo è anche l’ambito rispetto al quale i valori dei vari stati risultano maggiormente eterogenei. Si tratta però anche del dominio che, nel medio periodo, vanta il maggior aumento (+17,2 punti dal 2010).

IL NORD EUROPA È PIÙ AVANTI, MA IL SUD MIGLIORA IN FRETTA
Gli stati europei si differenziano ampiamente tra loro per punteggio e quindi per parità di genere. L’area nord-occidentale registra ormai da tempo i valori più elevati, con la Svezia in testa (unica sopra gli 80). Mentre le cifre più basse si osservano nell’Europa orientale.

VALORI ELEVATI NEL NORD, MA L’ITALIA REGISTRA IL MIGLIORAMENTO PIÙ EVIDENTE
L’INDICE DI UGUAGLIANZA DI GENERE NEL 2023 E LA DIFFERENZA RISPETTO AL 2013, NEI PAESI UE

L’INDICE SULL’UGUAGLIANZA DI GENERE È UNO STRUMENTO DI MISURAZIONE UNICO SVILUPPATO DALL’EIGE, PER CONFRONTARE PIÙ FACILMENTE LO STATO DELL’UGUAGLIANZA DI GENERE NEI VARI STATI MEMBRI UE. I SEI DOMINI CHIAVE CONSIDERATI PER ELABORARE L’INDICE SONO POTERE, TEMPO, CONOSCENZA, SALUTE, DENARO E LAVORO. I DATI USATI PER L’INDICE 2023 SONO PERLOPIÙ DEL 2021.

Sono i paesi del nord Europa a riportare i valori più elevati, primo tra tutti, come abbiamo accennato, la Svezia, con 82,2. L’Italia è al tredicesimo posto, ben di al di sotto di Francia e Spagna ma sopra la Grecia. Il nostro è il paese che però ha registrato il miglioramento più evidente rispetto al 2013: +14,9 punti. Anche Portogallo e Lussemburgo riportano aumenti notevoli, di oltre 13 punti. Meno marcato invece l’incremento nel caso dei paesi dell’Europa orientale, che pure riportano valori bassi. Oltre ad alcuni stati come Finlandia, Svezia e Paesi Bassi, che però partivano da cifre elevate.
Secondo Eige si possono identificare quattro tendenze a livello di andamento: paesi che stanno recuperando, ovvero che partendo da valori inferiori alla media la stanno raggiungendo (catching up); paesi che partendo da valori molto elevati stanno progredendo con lentezza e quindi avvicinandosi a una stabilizzazione (flattening); stati che invece, pur partendo da valori elevati stanno comunque progredendo rapidamente (outperforming); paesi che sono ancora lontani dalla media europea (slower pace).

L’ITALIA È TRA I PAESI CHE SI STANNO RIMETTENDO AL PASSO CON L’EUROPA.
Rientrano nel primo gruppo l’Italia e alcuni altri paesi dell’Europa meridionale (Malta, Cipro, Grecia), ma anche Bulgaria, Croazia e Lituania. Il secondo gruppo comprende principalmente paesi dell’Europa nord-occidentale (Belgio, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Paesi Bassi e Svezia), oltre alla Slovenia. Il gruppo degli outperformer comprende invece Spagna, Francia, Austria, Germania e Lussemburgo. Mentre nell’ultimo gruppo rientrano vari paesi dell’Europa centrale (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia), orientale (Romania e Polonia) e baltica (Estonia e Lettonia).

LA SITUAZIONE ITALIANA
L’Italia, come accennato, è il paese il cui indice di uguaglianza di genere è più aumentato nel corso dell’ultimo decennio: ormai a 2 punti di distanza dalla media europea. È interessante analizzare i dati relativi ai singoli domini, per osservare in quali ambiti il nostro paese ha fatto i maggiori progressi e dove resta più strada da fare.

L’ITALIA È SOPRA LA MEDIA SUL POTERE, MA È INDIETRO SUL LAVORO

I dati si riferiscono ai valori italiani ed europei nei 6 domani del gender equality index. L’indice sull’uguaglianza di genere è uno strumento di misurazione unico sviluppato dall’Eige per confrontare più facilmente lo stato dell’uguaglianza di genere nei vari stati membri Ue. I dati usati per l’indice 2023 sono perlopiù del 2021.
L’Italia registra valori superiori alla media negli ambiti di tempo, potere e salute e inferiori in quelli di lavoro, denaro e conoscenze. L’ambito in cui è più avanti rispetto alla media Ue è quello del potere (3,6 punti), mentre al contrario nel lavoro è 8,8 punti indietro. In questo ambito l’Italia è ultima in Europa.
Per quanto riguarda il miglioramento nel tempo, anche in questo caso è stato particolarmente evidente nell’ambito del potere. Nel 2013 infatti nel nostro paese si registrava un valore pari a 25,2 contro i 62,7 del 2023: un incremento pari a 37,5 punti. Dinamica ancora più evidente nel caso del sotto-dominio del potere economico: da 10,6 a 66,6, ovvero 56 punti di differenza. L’unico parametro peggiorato nel corso del decennio è quello della situazione economica (-2 punti), parte del dominio del denaro. Quest’ultimo complessivamente è aumentato, ma tra gli ambiti è quello con l’incremento di entità più bassa: +1,4 punti.
In quest’ultima edizione, Eige ha integrato l’analisi con un altro sotto-dominio, quello relativo alla violenza di genere. È un ambito che presenta delle criticità a livello di rilevazioni, per cui i dati disponibili sono ancora fortemente limitati, spesso anche obsoleti, e quindi difficilmente comparabili. L’indice è ricavato dai risultati di una serie di indagini sulle donne che hanno subito violenze o molestie e su rilevazioni sugli omicidi volontari da parte di (ex) partner o familiari. Mediamente l’indice si attesta a 27,2 (nel 2017), il valore più basso tra i domini e anche in questo caso l’Italia riporta un valore leggermente inferiore alla media (26,8).
*(FONTE: elaborazione openpolis su dati Eige – consultati: giovedì 29 febbraio 2024)

 

12 – Alfiero Grandi *: PREMIERATO, AUTONOMIA DIFFERENZIATA, LAVORO: LA VIA MAESTRA E LA STRATEGIA REFERENDARIA
LA VIA MAESTRA SI CANDIDA A INTERPRETARE LA DOMANDA DI RISCOSSA SOCIALE SU TEMI DI FONDO COME SANITÀ, SCUOLA, POVERTÀ E NELL’AFFERMARE DIRITTI MISCONOSCIUTI COME IL RINNOVO DEI CONTRATTI DI LAVORO E IL DIRITTO DEI SINDACATI DI ESSERE ASCOLTATI SULLE SCELTE DI FONDO PER IL FUTURO DELL’ITALIA. LA VIA MAESTRA SI È ALLARGATA DAL NUCLEO ORIGINARIO AD UN’AREA MOLTO AMPIA DI ASSOCIAZIONI ED ORGANIZZAZIONI.

Sabato 2 marzo si è svolta una partecipata assemblea nazionale, punto di coordinamento di soggetti e associazioni di varia natura (oltre duecento), che si è consolidato negli ultimi tempi e di cui la Cgil è un punto di riferimento.
La novità di rilievo dell’assemblea del 2 marzo è l’avvio di un programma di iniziative su pace, democrazia e Costituzione, lavoro e un insieme di obiettivi sociali, decisi dall’Assemblea nazionale della Cgil, che ha anche dato mandato alla segreteria nazionale di predisporre tre referendum abrogativi su licenziamenti individuali, precarietà del lavoro, modifica degli appalti da affiancare e intrecciare al referendum abrogativo sull’autonomia differenziata differenziata che la Cgil contribuirà a promuovere non appena il ddl Calderoli dovesse essere approvato definitivamente. È un intreccio importante di obiettivi sociali ed istituzionali.
Capitolo a sé stante è il referendum costituzionale sul premierato, modifica costituzionale che Giorgia Meloni vuole fortemente, ma che ha tempi probabilmente diversi. Infatti, la proposta di revisione costituzionale deve essere approvata, sulla base dello stesso testo, due volte a distanza di almeno tre mesi da ogni ramo del Parlamento e per ora è ancora al primo esame del Senato, quindi resta difficile dire con certezza quando sarà possibile procedere con il voto del referendum.
Il legame tra le diverse iniziative referendarie va definito tenendo conto delle diversità delle materie e dei tempi di attuazione.

UN RINNOVATO IMPEGNO DELLA CGIL E DE LA VIA MAESTRA
La Cgil e tutta la Via Maestra hanno confermato l’intenzione di organizzare un forte contrasto politico al premierato in tutta la fase del suo esame parlamentare, sapendo che il referendum popolare può arrivare solo dopo la sua approvazione perché questa è la regola dettata dall’articolo 138.

Sappiamo che sull’ipotesi di referendum costituzionale sul premierato è in corso un tentativo per bloccarlo proveniente da ambienti diversi. Questo tentativo va contrastato in radice in quanto per diventare realtà ha bisogno che una parte dell’opposizione voti insieme alla maggioranza di destra per farle raggiungere i due terzi dei voti parlamentari. Senza dimenticare che la proposta del premierato è del Governo, in particolare di FdI, infatti è firmata da Meloni e Casellati e le modifiche vengono discusse solo nei vertici di maggioranza, le opposizioni sono tagliate fuori. Perché mai le esse dovrebbero allora aiutare una maggioranza arrogante e autoreferenziale, dandole i voti che le mancano per arrivare ai due terzi (a favore) e bloccare così il referendum?

La Cgil punta a completare il quadro delle iniziative con un programma di interventi sulle materie sociali, ad esempio sanità e scuola, promuovendo leggi di iniziativa popolare e lanciando una campagna straordinaria per il rinnovo dei contratti di lavoro.
Grazie a questi impegni l’assemblea della Via Maestra ha potuto delineare una complessa strategia di iniziative, in cui certamente spicca la scelta referendaria ritenuta necessaria per alcune materie, proponendo a tutte le forze della società, della politica, della cultura e delle istituzioni che si riconoscono nei fondamenti della nostra democrazia, fondata sulla Costituzione del 1948, un’offensiva politica, sociale, culturale per attuarla e difenderla.

PERCHÉ QUESTA È LA VERA DISCRIMINANTE POLITICA: LA COSTITUZIONE.
VERSO L’ALLARGAMENTO DE LA VIA MAESTRA
La Costituzione, infatti, non è responsabile delle difficoltà del nostro Paese, che sono da attribuire semmai ad errori ed insufficienze della politica. Anzi difendere ed attuare la Costituzione è la scelta strategica indispensabile per restituire all’Italia i valori fondamentali che debbono ispirare e guidare il futuro del nostro paese.

Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale aveva già proposto, insieme ad altri, di dare vita ad una discussione a tutto campo ne La Via Maestra per mettere al centro la Costituzione, il contrasto agli attacchi che le vengono portati a partire dal premierato, e il contrasto all’autonomia differenziata nella versione Calderoli, fino a considerare la possibilità di chiedere alle elettrici e agli elettori di pronunciarsi contro queste proposte attraverso i referendum e questa è la novità avvenuta, prima nell’assemblea nazionale del 3 febbraio, che ha determinato la scelta di dare vita a coordinamenti territoriali delle associazioni, che avrebbero come riferimento la Cgil, e ora in quella del 2 marzo.
In sostanza, è un cammino giunto a maturazione e che oggi offre ai diversi settori sociali e della cultura la possibilità di organizzare una risposta politica e sociale alla destra.
Il Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha sempre insistito sull’esigenza di dare vita ad iniziative larghe e unitarie e La Via Maestra è certamente la prima naturale sede di convergenza di una parte importante della società e della cultura. Abbiamo sempre aggiunto che ci sono altre associazioni, energie culturali e istituzionali che ad oggi non sono né La Via Maestra e che occorre cercare di coinvolgere il prima possibile. Per questo, ad esempio, abbiamo incontrato la segreteria nazionale della Uil e cercheremo di allargare l’area di mobilitazione e di iniziativa anche in altre direzioni, in particolare verso il mondo giovanile, di cui difendiamo anzitutto il fondamentale diritto costituzionale di manifestare – contro le tentazioni repressive emerse – e di cui sosteniamo le rivendicazioni sociali e politiche.
Tanto più se si apriranno concretamente le condizioni per le iniziative referendarie, come auspichiamo, occorre svolgere un esteso lavoro di informazione, di formazione, ampliando la consapevolezza nell’opinione pubblica sulle scelte da compiere, sviluppando l’organizzazione comune di posizioni ed iniziative. Questa è una scelta strategica fondamentale.

DIFENDERE LA STRATEGIA REFERENDARIA
I referendum sono in questo momento l’unica possibilità per fermare scelte inaccettabili del Governo e di questa maggioranza, visto che il premio di maggioranza del 15%, ottenuto grazie ad una legge elettorale sostanzialmente incostituzionale, viene usato come una clava per imporre le scelte. Tanto è vero che le proposte su premierato e autonomia differenziata, dai testi dei ddl al lavoro parlamentare, sono gestite direttamente dal Governo e dalla maggioranza di destra. Non a caso Giorgia Meloni ha ribadito, prima di partire per Whashington e poi ancora a Toronto, che il suo obiettivo di fondo è l’elezione diretta del Presidente del Consiglio stabilendo un legame stretto tra la vita del governo e quella della legislatura, per di più arrivando a ripetere la menzogna che i poteri del Presidente della Repubblica non verrebbero toccati, cosa palesemente falsa.
L’elezione diretta del Presidente del Consiglio porterebbe ad uno sconvolgimento della Costituzione e del suo assetto istituzionale perché cambierebbe la sostanza democratica e antifascista della nostra Repubblica, riducendo nettamente i poteri del Quirinale e ridimensionando drasticamente il ruolo del Parlamento che, da architrave delle istituzioni diventerebbe definitivamente subalterno al capo del governo, complice il ricatto della fine della legislatura, trasformando così la nostra Repubblica in una sorta di “capocrazia”.
Vanno difesi con determinazione gli spazi di democrazia che la nostra Costituzione garantisce alle persone, alle organizzazioni sociali, in particolare ai sindacati, e la possibilità per i cittadini di esprimersi con il voto nei referendum per respingere provvedimenti ritenuti inaccettabili. Oltre agli argomenti sociali, del lavoro, della povertà occorre porsi l’obiettivo di una nuova legge elettorale per restituire ai cittadini la possibilità di eleggere direttamente i loro rappresentanti, con una rappresentanza sostanzialmente proporzionale.
Giorgia Meloni punta all’elezione diretta dal capo del governo e ad un mandato a governare sostanzialmente in bianco per cinque anni, pena lo scioglimento delle Camere e il voto anticipato, mantenendo l’elezione dei parlamentari dall’alto, scegliendoli sulla base della loro fedeltà, mentre la scelta dovrebbe essere fatta dai cittadini per cercare di superare la divaricazione crescente tra eletti ed elettori e contrastare l’astensione arrivata a livelli preoccupanti.
*(Alfiero Grandi – Sostieni strisciarossa.it )

 

13 – Irene Doda*: SIAMO IN GUERRA: LE NUOVE SUPERPOTENZE SI CHIAMANO GOOGLE, FACEBOOK, AMAZON, APPLE E SONO SEMPRE PIÙ PRONTE A PRENDERE IL POSTO DEI VECCHI STATI. L’AMERICA LATINA NON VUOLE I DATACENTER DI GOOGLE

Quanti sono 7,6 milioni di litri di acqua? Sono 190mila docce di durata media. Il consumo di circa quattro milioni di persone in un giorno. E’ quello che Google ha stimato servirà per raffreddare il data center che intende costruire nel distretto di Canelones in Uruguay, secondo quello che è stato rivelato durante un contenzioso legale. I cittadini di Canelones hanno protestato contro il progetto del gigante di internet durante l’estate del 2023 e il governo uruguayano ha cercato di contrattare con Google. L’anno scorso, il paese ha patito una gravissima siccità. A novembre è arrivata l’autorizzazione per cominciare a costruire, dopo uno studio di impatto ambientale e la promessa di ridurre le dimensioni del centro. Google si è anche impegnata a utilizzare una tecnologia di raffreddamento ad aria.
Ma il problema del consumo d’acqua nella gestione dei centri dati continua a essere al centro dei dibattiti e proteste popolari in tutta l’America Latina. Lo scorso 27 febbraio un tribunale cileno ha parzialmente respinto al mittente una richiesta di permesso che avrebbe consentito a Google di costruire un centro dati nel paese, nei pressi della capitale Santiago. Attivisti locali e amministratori si sono detti preoccupati per il possibile impatto del progetto sulle riserve d’acqua della città.
Anche il Cile non è estraneo a gravi problemi di siccità: all’inizio del 2022, più della metà dei cittadini del paese (circa 10 milioni di persone) viveva in aree a grave rischio di scarsità idrica. L’acqua a Santiago è stata razionata per un periodo. Anche se la situazione è migliorata, l’allarme resta alto. L’uso sproporzionato di acqua da parte dei centri dati non è certo una notizia. Si stima che un europeo medio utilizzi al giorno circa tre litri d’acqua quando fa uso di servizi cloud e digitali, più o meno la stessa quantità che beviamo. Stiamo creando dei “doppelganger digitali”, letteralmente raddoppiando il consumo di risorse idriche nel mondo.
La maggior parte dei progetti ad alto impatto ambientale, in Cile, hanno riguardato le comunità indigene. L’America latina sta affrontando un problema che da alcuni è stato definito “colonialismo dei dati”. I giganti di Big Tech costruiscono infrastrutture consumando le risorse del territorio: vale per i centri dati come per le miniere di litio. Ben poco torna ai cittadini dei territori latino americani, in termini di ricchezza e lavoro. “Fornite acqua dolce da bere a una famiglia di Montevideo o per raffreddare un server che soddisfa il desiderio di un adolescente di Los Angeles di guardare i video di TikTok?” si chiedono i critici. Le comunità locali del continente non smettono di mettersi di traverso, e la decisione del tribunale cileno, per quanto parziale, rappresenta un passo per il riconoscimento giuridico delle loro richieste.
*(a cura di: Irene Doda, vive a Forlì e lavora come scrittrice e giornalista freelance. Si occupa di lavoro, tecnologia e questioni di genere; spesso di tutte e tre queste cose insieme. )

 

 

Views: 42

AIUTACI AD INFORMARE I CITTADINI EMIGRATI E IMMIGRATI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.