N°50 – 16/12/2023 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Alberto Leiss*: Berlinguer, oltre le mitizzazioni. NOVECENTO. Ieri negli spazi del Mattatoio di Roma si è aperta la mostra sul segretario del Pci, visitabile fino all’11 febbraio. L’originale lascito politico attraverso una biografia per immagini, suoni e rari documenti d’archivio.
02 – Andrea Carugati*: Bindi scuote i Dem: «L’Ue rinasce da una critica al capitalismo».
EUROPEE. A Roma la convention sull’Europa, applausi per il ritorno dell’ex ministra. Gentiloni insiste sulle armi a Kiev, divisioni sul futuro di Draghi. Schlein attacca il «governo fragile». Tavoli sul programma, ma ancora manca il quid.
03 – Pierre Haski*: STATI UNITI. Joe Biden mette alle strette Benjamin Netanyahu.
04 – Giovanni De Mauro*: Sarei – Sabrina Ali Benali è una medica francese che lavora in un pronto soccorso.
05 – Andrea Fabozzi*: Manovra, la giostra a vuoto delle camere – RIFORME DI FATTO. Da sei settimane, un mese e mezzo, al senato è aperta la sessione di bilancio. La legge più importante dell’anno, la prima di cui il governo Meloni rivendica pienamente la […]
06 – Il governo vuole finanziare il comparto sicurezza con il Fondo migranti – LO PREVEDE UN EMENDAMENTO ALLA MANOVRA. Frontex: «Nei primi undici mesi dell’anno 355 mila sbarchi, record in Europa dal 2016»
07 – Lorenzo Tecleme*, DUBAI: Phase-out sparito, monta la rabbia a Cop28 – CLIMA ROVENTE. Dalla bozza d’accordo salta la rinuncia ai combustibili fossili. Al Gore: «Sembra scritta dall’Opec». E oggi sarà scontro sulle conclusioni.
08 – Junko Terao*: La newsletter sull’Asia e il Pacifico. Il destino in una statua
09 – VERGOGNA…LA TOP 10 DEI MANAGER PAPERONI. Anna Fabi e Gabriele Politi*: Guadagni alle stelle per gli uomini d’oro delle società quotate Pubblicata la classifica degli stipendi pagati nel 2022, dalle aziende presenti sul listino di Piazza Affari (Automotive, Moda e Finanza in testa): ecco i dieci dirigenti con buste paga milionarie, aumentate in media del 17% rispetto all’anno precedente. S Il totale degli stipendi 2022 dei primi dieci ha raggiunto la cifra di 231,2 milioni di euro, con un incremento del 17% sul 2021. (VERGOGNA ndr).
*(Andrea Carugati, Giornalista professionista, fotografo, autore di libri, produttore cinema e tv. Ho lavorato per ANSA per oltre vent’anni in qualità prima di redattore.)

 

 

01 – Alberto Leiss*: BERLINGUER, OLTRE LE MITIZZAZIONI. Novecento. IERI NEGLI SPAZI DEL MATTATOIO DI ROMA SI È APERTA LA MOSTRA SUL SEGRETARIO DEL PCI, VISITABILE FINO ALL’11 FEBBRAIO. L’ORIGINALE LASCITO POLITICO ATTRAVERSO UNA BIOGRAFIA PER IMMAGINI, SUONI E RARI DOCUMENTI D’ARCHIVIO.

«Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, e il cui carattere distintivo è lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni». Fa un certo effetto rileggere queste parole, con pochissime variazioni dalla forma che assumerà il resoconto ufficiale, vergate nella calligrafia leggermente inclinata e regolare di Enrico Berlinguer. Il foglio è scritto a blocchi non uniformi, con larghi spazi, a volte riempiti con aggiunte e linee curve che indicano dove vanno inserite, e ci sono due cancellature. Una scrittura di getto, con improvvisi ripensamenti? Un manoscritto restituisce sempre qualche cosa di più di un testo e stampato, e anche dell’esperienza dell’ascolto diretto.
IL DISCORSO È QUELLO, famoso e molto discusso, pronunciato dal segretario del Pci al convegno «dell’Eliseo», anno 1977. Il foglio con gli appunti si può leggere sotto il vetro di uno dei tavoli che ospitano moltissimi altri documenti storici alla mostra su Berlinguer inaugurata ieri in due grandi padiglioni dell’ex Mattatoio di Roma, del quale procede una grande trasformazione architettonica in una molteplice sede di spazi, realtà e eventi culturali. Berlinguer aveva di fatto improvvisato una specie di salto mortale politico e teorico, rovesciando il termine «austerità», già allora appiccicato alle scelte restrittive di una politica economica nazionale stretta dalla crisi e impopolare, nel significante di una leva quasi «rivoluzionaria».
E ho scritto «improvvisato» avendo potuto raccogliere da Aldo Tortorella, allora responsabile della sezione culturale del partito, il racconto di come una iniziativa che aveva raccolto l’adesione di molti intellettuali italiani, e il cui tema doveva essere proprio la trasformazione della stessa figura dell’intellettuale nel mondo della rivoluzione tecnico scientifica e della cultura di massa, era stata trasformata dal discorso del segretario imperniato su quel termine che non era previsto assumesse tanta centralità, in qualcosa d’altro. Nel proposito di prendere di petto le contraddizioni principali modernità capitalistica.
È IL BERLINGUER che aveva teorizzato, negli articoli sul Cile dopo il golpe e l’assassinio di Allende, la prospettiva di una alleanza con la Dc, di cui non andavano ignorate anche le tendenze popolari e progressiste, oltre che con i socialisti e altre forze democratiche, per aprire in Italia una nuova fase. Un rinnovamento profondo, che non escludeva l’introduzione di «elementi di socialismo». Walter Veltroni, che ha concluso l’inaugurazione insieme al sindaco di Roma Gualtieri e Bianca Berlinguer, ha definito quella proposta sul «compromesso storico» una idea «eversiva» rispetto alla guerra fredda. C’è qualcosa di vero. Quella prospettiva, come si sa, non piaceva affatto né agli Usa di Kissinger, né all’Urss di Breznev. L’anno successivo Aldo Moro, che quell’idea seguiva con intenzionalità probabilmente assai diverse da quelle del capo del Pci, fu rapito e assassinato dalle Br. È qualche anno prima, nel ’73, proprio subito dopo la pubblicazione del primo di quegli articoli, Berlinguer aveva subito un «incidente» in Bulgaria da cui era uscito solo un po’ ammaccato quasi per miracolo (un altro passeggero della vettura in cui viaggiava restò ucciso) e riteneva che si trattasse di un attentato.
Il segretario del Pci è stato oggetto di mitizzazioni opposte. L’uomo politico italiano più lungimirante e più amato, non solo dai militanti del Pci. O al contrario un leader che commise errori gravi di valutazione, e che concluse il suo percorso su posizioni per alcuni quasi impolitiche, ideologiche e settarie. Uno sconfitto.
LA MOSTRA ROMANA, intitolata I luoghi e le parole di Enrico Berlinguer e promossa dall’Associazione Berlinguer e dal suo presidente Ugo Sposetti (con il Comune di Roma, l’Azienda speciale Palaexpo e con il contributo dei finanziamenti che la presidenza del Consiglio dei ministri assegna agli «anniversari nazionali») resterà aperta e gratuita fino all’11 febbraio, ed è una ottima occasione per rimeditare questi giudizi contraddittori, lungo percorsi di documentazione, interpretazione, immagini, oggetti molto significativi. Cinque principali sezioni tematiche parlano degli affetti, del ruolo dirigente esercitato nella crisi italiana e nella dimensione globale, dell’eredità attuale e di che cosa guarda al futuro.
Accanto agli appunti per il discorso dell’Eliseo c’è lo scambio di lettere con monsignor Bettazzi – siamo sempre in quel fatidico 1977 – che aprì un’altra discussione sul rapporto tra il partito comunista italiano e una Chiesa cattolica che stava ancora elaborando il messaggio del Vaticano II. Ma altri bigliettini vergati a mano o brevi lettere ufficiali parlano dei rapporti non solo con Moro, ma con Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Giorgio La Pira.
Tutta la mostra è percorsa da numerosissime fotografie, piccole, grandi, giganti, quasi tutte in bianco e nero, che ritraggano Berlinguer in atteggiamenti e situazioni diverse. Nei comizi, nelle sezioni di partito. Accanto a personaggi della politica internazionale: Fidel Castro, Arafat, Santiago Carrillo, intellettuali e artisti come Guttuso, Bobbio, Moravia (lo scrittore qui è come sovrastato dal segretario comunista con il suo grande fascio di giornali, e da Aldo Tortorella che sembra minacciare con braccio e indice teso un Adalberto Minucci seduto accanto a Moravia). Berlinguer ha molto spesso la sigaretta in mano, e quasi sempre appare sorridente. Mi sono chiesto se sia stata una scelta precisa degli autori della mostra, questa dei sorrisi. Una galleria ricchissima di sorrisi diversamente intensi. La foto che campeggia nell’invito e nel cartellone principale della mostra è invece un Berlinguer in piedi, in una specie di sosta dinoccolata, un braccio destro dietro la schiena, e la mano sinistra che sostiene il mento. La testa leggermente inclinata e un’espressione leggermente corrucciata, che si interroga.
L’UMANITÀ AFFASCINANTE di questa persona si riflette in altri modi. C’è il suo scrittoio restaurato, uno scaffale con i libri che leggeva da giovane (non dico quali, sono interessanti per immaginare gli ideali a cui disse di essere rimasto sempre fedele), e un lungo tavolo stracolmo di tutti i libri che sono stati scritti su di lui. Molte cose preziose sono state prestate dalla famiglia, i suoi quattro figli Bianca, Maria, Marco e Laura. Le parole alla fine dell’inaugurazione di Bianca sono state molto commoventi: ha parlato di un lutto improvviso che sopravvive ancora oggi, non ancora del tutto elaborato, ma grandemente aiutato da quella collettività di milioni di persone che si sono sentite e che restano «orfane». Suo papà era certo un uomo serio e rigoroso, ma non è vero che fosse «triste». Un’idea «falsa e ingiusta», smentita dal lasciarsi sollevare in braccio quella famosa volta da Benigni.
All’inaugurazione era presente tantissima parte di una sinistra con orientamenti diversi. Qualcosa che già sembra smentire – definitivamente? – quei giudizi politici così contrastanti che ho ricordato all’inizio. Tutti rivendicano un loro Berlinguer? La segretaria del Pd Elly Schlein ha passeggiato con D’Alema e Fassino. C’era Cuperlo, c’era Antonio Rubbi, a lungo responsabile Esteri del Pci, c’era Luciana Castellina. C’era Antonio Bassolino ma l’elenco sarebbe lunghissimo. Il sindaco Gualtieri ha legato la figura di Berlinguer anche alla trasformazione del Pci nell’attuale Pd. Ci sarebbe da discutere, e farlo sarebbe un modo giusto di continuare a non dimenticare quell’uomo, morto quando pensava a un nuovo programma fondamentale per il suo partito. Pace, ambientalismo, femminismo, attenzione alla rivoluzione scientifica e tecnologica. Valore universale della democrazia.
*(Alberto Leiss – Cronista e vice capocronista a Genova, redattore economia Milano, caposervizio economia, redattore politico e parlamentare, caposervizio Politica e Cultura)

 

02 – Andrea Carugati*: BINDI SCUOTE I DEM: «L’UE RINASCE DA UNA CRITICA AL CAPITALISMO».
EUROPEE. A ROMA LA CONVENTION SULL’EUROPA, APPLAUSI PER IL RITORNO DELL’EX MINISTRA. GENTILONI INSISTE SULLE ARMI A KIEV, DIVISIONI SUL FUTURO DI DRAGHI. SCHLEIN ATTACCA IL «GOVERNO FRAGILE». TAVOLI SUL PROGRAMMA, MA ANCORA MANCA IL QUID.

Aspettando che il nonno nobile Romano Prodi, questa mattina, dia un po’ di carica alla platea Pd riunita a Roma per disegnare «l’Europa che vogliamo» (la citazione del suo programma del 1996 non è affatto casuale), ai Tiburtina studios i Dem appaiono un po’ scarichi. Tolto il riferimento alla necessità di «fermare il tentativo dell’estrema destra di prendere in mano i destini della Ue», al nascente programma per le europee dei progressisti manca ancora il quid.
«Sociale, verde, giusta», si legge nello slogan della due giorni organizzata un po’ in fretta anche per provare a oscurare il mercatino di Natale di Atreju. Ma dietro i bei titoli ancora non si vede la sostanza in grado di appassionare un elettorato sempre più rassegnato e demotivato. «Quando l’Europa soffre, soffre anche la socialdemocrazia», mette a verbale la capogruppo socialista a Bruxelles Iratxe Garcia Perez. E questa è la fotografia dell’oggi, tra le tensioni sul nuovo Patto di stabilità e sui migranti, l’afonia dell’Europa sulle guerre e la speranza dei progressisti che tornino i tempi del Next Generation Eu: il debito comune e gli investimenti per clima e lavoro.
L’aria che tira in Europa però è molto diversa dal 2020, da quella risposta «diversa dall’austerità» che i 27 hanno saputo dare alla pandemia. «Siamo riusciti a evitare la recessione, abbiamo salvato 42 milioni di posti di lavoro», dice dal palco il commissario all’Economia Paolo Gentiloni, ospite d’onore della prima giornata. E ancora: «Noi guidiamo l’edificio europeo, siamo la sinistra di governo, non possiamo limitarci a dare una pennellata di rosso all’edificio».
Gentiloni difende il lavoro fatto in questi 5 anni, e non potrebbe essere diverso. Ma non c’è pathos. Meno ancora quando cita la «giornata storica» con l’avvio della procedura per l’ingresso dell’Ucraina in Ue. «Quando saremo 34-35 paesi l’Unione assomiglierà più all’Onu che a un’Europa unita, non raccontiamoci storie». Tocca a lui, e prima a Pina Picierno, ribadire la linea dell’invio di armi a Kiev «senza tentennamenti». «Altrimenti non c’è pace ma un’ombra sul futuro di libertà e pace del continente». Toni che in tanti non condividono, in platea e fuori, tra i militanti e gli elettori del Pd.
Non è un caso che Rosy Bindi, tornata come ospite a una iniziativa Dem dopo tanti anni, si prenda molti più applausi quando fa un’analisi senza sconti sugli errori del centrosinistra dopo il 1989. «Pensavamo che avesse vinto la democrazia, e invece ha vinto il capitalismo», le parole dell’ex presidente Pd. «L’Europa ha perso la sua funzione sociale e la capacità di orientare le regole del mercato e la destra liberista ha imposto il suo modello di sviluppo, con il capitalismo degli azionisti e del profitto. Non possiamo non fare questa autocritica, anche in riferimento alla Terza Via che non ha saputo reagire in maniera adeguata». ù
«La democrazia sta barcollando in questo continente», prosegue Bindi, «le politiche pubbliche e sui beni comuni, dal lavoro al welfare, sono arretrate dagli anni 80, e quando una democrazia non garantisce più il rispetto dei diritti fondamentali scatta il meccanismo dell’individualismo». «L’Ue riuscirà darsi una scossa?», la domanda che resta senza risposte. «Ma le persone non credono più in una democrazia che non riesce a orientare la finanziarizzazione dell’economia».
E ancora, sull’Ucraina: «Ora la guerra è dentro l’Europa, l’Ue è consapevole che è la forza della politica e non delle armi che può farla finire?». Schlein applaude, Gentiloni no. Bindi prosegue sul Medio Oriente: «Umiliante vedere i leader europei che vanno a Tel Aviv a dire cose diverse». Se Schlein veniva tacciata come radicale, Bindi si spinge oltre, e rompe il velo di un riformismo senz’anima. Si candida come federatrice del centrosinistra? «Sciocchezze», sibila lei, soddisfatta del calore per il suo ritorno.
Tra i motivi di divisione che solcano la truppa il futuro di Draghi: Guerini e i riformisti lo vorrebbero alla guida della prossima commissione Ue, la leader spinge per il commissario al Lavoro, il lussemburghese Nicolas Schmit, d’accordo con gli altri del Pse. Oggi arriva anche lui a Tiburtina, per un dialogo con Enrico Letta.
Schlein parlerà oggi dopo Prodi. Ieri si è concentrata ad ascoltare i tavoli tematici con circa 800 iscritti. «Dobbiamo completare il progetto di Ventotene perché così incagliato a metà fra nazionalismi ed egoismi non riuscirà a diventare un’Europa più giusta», spiega. «Ad Atreju fanno a gara per accreditarsi con chi comanda, qui da noi si lavora in gruppo». Sul governo ribadisce che «è fragile». «Se trovate una persona che dica che oggi sta meglio di un anno e due mesi fa, benissimo, noi non ne abbiamo ancora trovate». Fuori dalla sala tutti parlano di candidature per le europee. Con il rebus non sciolto: «Ma Elly si candida o no?».
*(Andrea Carugati. Giornalista professionista, fotografo, autore di libri, produttore cinema e tv. Ho lavorato per ANSA per oltre vent’anni in qualità prima di redattore.)

 

03 – Pierre Haski*: STATI UNITI. JOE BIDEN METTE ALLE STRETTE BENJAMIN NETANYAHU.

JOE BIDEN SI PRESENTA APERTAMENTE COME AMICO E PROTETTORE DI ISRAELE, E PROPRIO PER QUESTO PUÒ ESPRIMERSI CON ESTREMA FRANCHEZZA. IL 12 DICEMBRE IL PRESIDENTE STATUNITENSE HA SOTTOLINEATO CHE LO STATO EBRAICO RISCHIA DI PERDERE IL SOSTEGNO INTERNAZIONALE A CAUSA DI QUELLI CHE HA DEFINITO “BOMBARDAMENTI INDISCRIMINATI” A GAZA.
Nella stessa giornata, sulla scia delle parole di Biden, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha votato con una maggioranza schiacciante – 153 voti favorevoli, dieci contrari e 23 astenuti – una risoluzione che chiede un cessate il fuoco umanitario immediato a Gaza. La risoluzione non avrà alcun effetto, perché non ha carattere vincolante. In questi casi è il Consiglio di sicurezza a decidere, e Washington ha già posto il veto su una risoluzione simile l’8 dicembre.
Il 12 dicembre il rappresentante israeliano all’Onu ha denunciato l’ipocrisia della votazione, definendo “inutile” il testo. Ma questo non cancella l’avvertimento lanciato da Biden né il sostegno forte – anche da parte di diversi paesi europei, tra cui la Francia, ma non l’Italia, che si è astenuta – alla richiesta di un cessate il fuoco. Evidentemente il tempo non è dalla parte di Israele.
MAI TANTI MORTI TRA I CIVILI COME A GAZA
Il presidente statunitense non si è accontentato di criticare i bombardamenti, ma ha anche manifestato pubblicamente le sue divergenze con i leader israeliani. Biden ha scelto di fare una specie di strappo. Pur sostenendo la guerra contro Hamas, infatti, ha espresso il suo totale disaccordo con il primo ministro israeliano Netanyahu su ciò che sarà necessario dopo la guerra.
Nelle sue dichiarazioni del 12 dicembre, Biden ha consigliato a Netanyahu di cambiare la composizione del suo governo, che ha descritto come “il più conservatore della storia di Israele”, un eufemismo per sottolineare la presenza dell’estrema destra radicale.
Biden si comporta come se Netanyahu potesse essere diverso senza questi alleati ingombranti. Ma non è così, come dimostra il fatto che il leader della destra israeliana ha opposto un “no” categorico alle proposte avanzate dal presidente statunitense per il dopoguerra.
“Gaza non sarà mai un Hamastan né un Fatahstan”, ha dichiarato Netanyahu, riferendosi al movimento islamista con cui è in guerra ma anche ad Al Fatah, il partito di Abu Mazen, presidente di quell’Autorità nazionale palestinese a cui gli occidentali vorrebbero affidare un ruolo chiave dopo il conflitto. Inoltre, il leader israeliano non vuole assolutamente sentire parlare della soluzione dei due stati, sostenuta invece da Biden.
Questo disaccordo non è davvero risolvibile, ma sottolinea soprattutto un paradosso: Netanyahu è il capo militare a cui l’esercito obbedisce, ma è anche un uomo politico di cui la stragrande maggioranza degli israeliani vorrebbe sbarazzarsi, in quanto gli rimprovera il fallimento del 7 ottobre, quando Hamas ha sorpreso Israele con il suo attacco.
Con le sue parole, Biden getta benzina sul fuoco nella battaglia per la leadership politica israeliana. Il presidente statunitense preferirebbe sicuramente trattare con un uomo come Benny Gantz, avversario centrista di Netanyahu e attualmente componente del gabinetto di guerra in attesa che arrivi il suo momento.
Il fatto che un presidente statunitense si immischi nella politica interna israeliana è insolito, ma non sorprendente. D’altronde la situazione in Israele influenza il proseguimento della guerra e soprattutto quello che succederà dopo. Gli Stati Uniti sono pesantemente coinvolti in questo processo. Quello che è successo il 12 dicembre all’Onu non è una buona notizia per Israele, ma neanche per gli Stati Uniti e il suo presidente.
*(Pierre Haski, France Inter, Francia. Traduzione di Andrea Sparacino)

 

04 – Giovanni De Mauro*: SAREI – SABRINA ALI BENALI È UNA MEDICA FRANCESE CHE LAVORA IN UN PRONTO SOCCORSO.
Ha scritto un libro, La révolte d’une interne, in cui denuncia le condizioni di lavoro di medici e infermieri in Francia. Qualche giorno fa era il suo compleanno. Su Twitter ha scritto questo: “Sono nata 38 anni fa in un ospedale di Tolosa. Sul cartellino sopra la culla c’era scritto Sabrina-Aurore. Sarei potuta nascere a Lagos, in Nigeria, chiamarmi Asma e oggi essere su un barcone con la mia bambina, aggrappata alla speranza di sopravvivere in Europa. Il sogno di trovare un lavoro e di poter far mangiare mia figlia ogni giorno. Non mangiamo da due giorni. Prego di riuscire ad arrivare viva sull’altra sponda del Mediterraneo. Sarei potuta nascere a Tel Aviv, chiamarmi Guila e piangere l’ingiustificabile e barbaro assassinio di mio fratello, morto negli attacchi del 7 ottobre. Il mio amato fratello, che si batteva per la decolonizzazione. Quei bastardi gli hanno bruciato la faccia. Non riesco più a vedere la sua guancia, la sua fossetta destra che gli pizzicavo sempre. Tra di noi significava ti voglio bene. Me l’hanno portato via. Sarei potuta nascere a Gaza, chiamarmi Rania e tenere tra le braccia la mia piccola bambina appena morta. La stavo facendo giocare con i cubi quando tutto ha tremato è la casa ci è caduta addosso. L’ho presa per il braccio per stringerla a me. Il blocco di cemento è caduto sul suo piccolo corpo prima che riuscissi a proteggerla. Ricordo solo lo sguardo di terrore nei suoi occhi l’attimo prima che la sua mano scivolasse dalla mia. La mia bambina che non ho potuto proteggere dalle bombe. Sarei potuta nascere a Kiev, chiamarmi Olena e essere in servizio in ospedale, ogni minuto con la paura che una bomba russa ci colpisca. Sarei potuta nascere a… Tutti noi saremmo potuti nascere da qualche altra parte. A seconda che io sia diventata Pierre, Amadou, Polina, Joseph o Asma, pur essendo lo stesso uomo o la stessa donna, ad altri è stato detto che dovevano odiarmi. Si parla di razza e di religione. Ma guardo le mie mani e le loro mani. Sono uguali”.
*(Fonte Internazionale Giovanni De Mauro, è il direttore, ha lavorato per 18 anni, all’Unità. Ha fondato Internazionale nel 1993 con Elena Boille, Chiara Nielsen)

 

05 – Andrea Fabozzi*: MANOVRA, LA GIOSTRA A VUOTO DELLE CAMERE – RIFORME DI FATTO. DA SEI SETTIMANE, UN MESE E MEZZO, AL SENATO È APERTA LA SESSIONE DI BILANCIO. LA LEGGE PIÙ IMPORTANTE DELL’ANNO, LA PRIMA DI CUI IL GOVERNO MELONI RIVENDICA PIENAMENTE LA […]
Da sei settimane, un mese e mezzo, al senato è aperta la sessione di bilancio. La legge più importante dell’anno, la prima di cui il governo Meloni rivendica pienamente la maternità, è un volume di 260 pagine, 109 articoli più tabelle. Un testo impegnativo da affrontare e votare, ma non è successo ancora nulla, non si è spostato un euro, non è stato approvato un comma. È tutto fermo, in attesa che il governo presenti la vera legge di bilancio, sotto forma di emendamenti. Le trattative ci sono, le mediazioni pure ma sono tutte a palazzo Chigi e in parlamento arrivano appena gli echi di un lavorio che riguarda solo la maggioranza.

I SENATORI ASPETTANO, I DEPUTATI NEANCHE PERCHÉ ORMAI HANNO CAPITO CHE SARANNO RICHIAMATI IN AULA TRA NATALE E CAPODANNO A VOTARE E TACERE.

Accade così da tempo, ma ogni anno è un po’ peggio. Stavolta la presidente del Consiglio si era fatta vanto di aver depositato la legge quasi nei termini, a ottobre, e aveva garantito che sarebbe stata approvata presto, prima delle feste. Aveva anche detto che la sua era una manovra blindata, spingendosi a vietare gli emendamenti di maggioranza. Poi però, da un mese e mezzo, tra di loro non parlano che di modifiche e di emendamenti. Quando avranno deciso giocandosi a tressette in famiglia le ultime risorse – pare che il Ponte di Salvini abbia pescato le carte peggiori – marceranno sul parlamento, che nel frattempo si è intrattenuto in audizioni e dossier bugiardi perché riferiti a un testo vecchio, a una legge per allodole. Sui nuovi articoli, stringendo ormai il tempo, al senato ci sarà spazio solo per fiducie e voti blindati. Poi alla camera si salterà persino l’esame in commissione, con tanti saluti alla Costituzione che prescrive almeno per le leggi di bilancio una procedura «normale» di approvazione.

È questa in fondo la nuova normalità, sulla quale i moniti del Quirinale non riescono a incidere. Perché sta diventando un’abitudine far girare a vuoto il parlamento e quello attuale in versione bonsai è il primo con un numero ridotto di deputati e senatori: «Saranno tutti più autorevoli», garantivano i 5 Stelle. Altroché. Poi succede che le camere approvino un raro disegno di legge come quello che vieta la carne coltivata e il governo faccia sapere al Quirinale che cambierà quel testo per decreto. O che l’opposizione abbia diritto di portare in discussione una sua proposta sul salario minimo e il governo dopo aver lasciato parlare trasformi tutto in una delega a sé stesso. Se proprio le camere devono lavorare, basta trovargli qualcosa di innocuo da fare.

Il fenomeno di fondo non è nuovo, ma nuovo è il grado di arroganza con il quale il governo di destra riesce a mettere il parlamento nell’angolo. Nuova e preoccupante è anche l’impossibilità, o l’incapacità, delle opposizioni di ostacolare almeno un po’ questa tendenza.

Servono dunque più poteri, serve una delega piena e definitiva all’esecutivo e alla presidentessa del Consiglio in una situazione come questa? Serve il premierato perché è tutta colpa della Costituzione vecchia e da cambiare se Meloni, malgrado non abbia praticamente ostacoli tra sé e la “Gazzetta ufficiale”, non sta riuscendo a ottenere risultati e procede al ritmo di una promessa tradita al mese? La risposta è troppo facilmente negativa e anche quello che sta accadendo sulla legge di bilancio conferma il senso vero della riforma costituzionale: un grande alibi per un governo incapace.
*(Andrea Fabozzi – Cronista parlamentare, al manifesto dal 2001, insegnante di giornalismo a Unisob dal 2010. È direttore del manifesto dal 2023.)

 

06 – Il governo vuole finanziare il comparto sicurezza con il Fondo migranti – LO PREVEDE UN EMENDAMENTO ALLA MANOVRA. Frontex: «Nei primi undici mesi dell’anno 355 mila sbarchi, record in Europa dal 2016»

REDAZIONE INTERNI
Saranno i migranti e i Comuni a pagare la previdenza integrativa di Forze di polizia, Forze armate e Vigili del fuoco. La novità è contenuta in uno dei tre emendamenti alla manovra presentati nei giorni scorsi dal governo e si propone di recuperare 100 milioni di euro necessari al comparto sicurezza. Per il governo di destra nulla di più naturale che andare a cercare i soldi necessari tra i 68 milioni di euro che costituiscono il Fondo migranti, istituito come contributo ai Comuni per far fronte alle esigenze dell’accoglienza dei migranti e dei minori non accompagnati e impoverito adesso davanti alle nuove priorità.
L’emendamento in questione prevede il taglio di 15 milioni di euro l’anno per i prossimi tre anni, per un totale di 45 milioni. Una scelta accompagnata dalla decisione del governo di considerare di fatto adulti tutti i minori di età compresa tra i 16 e i 18 anni risparmiando così sulla retta quotidiana (tra i 70 e i 100 euro al giorno per ogni minore) e prevedendo il loro inserimento in strutture dedicate ai maggiorenni. Il taglio ha costretto l’Anci, l’Associazione dei comuni italiani a cui spetta il compito di garantire un’adeguata accoglienza ai minori non accompagnati, a rifare tutti i conti. L’altra metà dei soldi necessari per i comparto sicurezza arriverà invece dal dimezzamento del tesoretto delle Camere, che da 100 milioni l’anno passa adesso a 50.
L’emendamento non ha mancato di provocare le proteste di opposizioni e dei sindacati. «Siamo favorevoli a dedicare maggiori risorse al comparto sicurezza, ma questo non deve avvenire sulla pelle dei più deboli», ha commentato il segretario confederale della Uil, Salvo Biondo. «Ricordiamo al governo che l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti umani per aver collocato minorenni in centri per adulti e aver condotto procedure di accertamento dell’età senza garanzie procedurali sufficienti», ha proseguito Biondo.
Mentre il governo fa cassa sui migranti, i dati forniti dall’Agenzia europea Frontex sottolineano come nei primi undici mesi del 2023 sono stati registrati 355.300 arrivi, il numero più alto dal 2016 più dell’intero totale del 2022. Quella del Mediterraneo centrale resta la rotta migratoria più trafficata, con oltre 152 mila sbarchi, anche se a novembre si è registrata una flessione del 24%.
Sull’attività svolta dall’Agenzia europea pesano però le ombre gettate dall’inchiesta condotta da Lighthouse Reports e pubblicata ieri da Le Monde, Der Spiegel, Malta Today e Al Jazeera secondo la quale Frontex e il governo maltese condividerebbero «in modo sistematico» le coordinate delle imbarcazioni cariche di migranti partite dalla Libia verso l’Europa con la milizia Tareq Bin Zeyad (Tbz), «uno dei gruppi di miliziani più pericolosi al mondo, gestito da Saddam Haftar», figlio del generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica.
*(Fonte: Il Manifesto)

 

07 – Lorenzo Tecleme*, DUBAI: PHASE-OUT SPARITO, MONTA LA RABBIA A COP28 – CLIMA ROVENTE. DALLA BOZZA D’ACCORDO SALTA LA RINUNCIA AI COMBUSTIBILI FOSSILI. AL GORE: «SEMBRA SCRITTA DALL’OPEC». E OGGI SARÀ SCONTRO SULLE CONCLUSIONI. (12 dic 2023)

La foto simbolo della giornata di ieri è quella che ritrae Toeolesulusulu Cedric Schuster, ministro dell’Ambiente di Samoa e portavoce dell’Alleanza dei piccoli stati insulari, che parla ai giornalisti con gli occhi gonfi di lacrime. Dopo una giornata di attesa, la presidenza di Cop28 – il tavolo negoziale sul clima delle Nazioni unite riunito a Dubai – ha presentato la sua ultima bozza di accordo. E su tutti i dossier si registrano passi indietro.
SPARISCE IL PHASE-OUT, l’abbandono dei combustibili fossili. Al suo posto un barocco invito alla riduzione fino al raggiungimento delle emissioni nette zero. Il phase-out era la linea rossa che molte Parti, compresa l’Europa, avevano tracciato nei giorni scorsi. Non va meglio al resto del cosiddetto pacchetto energia. Sul carbone si rimane alla locuzione già usata a Glasgow due anni fa, quel phase-down, riduzione, del solo carbone unabated, cioè non accompagnato da sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Una vittoria dei grandi consumatori come Cina e India, e un sostanziale stallo. Rimangono in piedi solo triplicazione dell’uso delle rinnovabili e raddoppio dell’efficienza entro il 2030.
Se questa bozza diventasse definitiva, passerebbe la linea Opec, che solo pochi giorni fa invitava i Paesi produttori di petrolio a non accettare compromessi sul phase-out. Vincerebbero Arabia saudita, Russia, Iran e perderebbero Unione europea, Alleanza delle nazioni latine indipendenti (che comprende paesi come Cile e Colombia) e Alleanza delle piccole isole del Pacifico.

Ascolta “Phase-out sparito. Rabbia alla Cop28” su Spreaker.

Il secondo capitolo del negoziato è rappresentato dall’adattamento, e più precisamente dai fondi necessari a preparare i territori tanto alla transizione quanto agli effetti della crisi climatica. Il Sud globale voleva impegni concreti sul finanziamento delle infrastrutture verdi da parte dei paesi industrializzati. Impegni che non sono arrivati. Qua la vittoria è dei paesi ricchi – soprattutto degli Stati uniti, accusati da attivisti ed osservatori di boicottare il dibattito sul tema – mentre a perdere è il G77, la maxi-alleanza che riunisce più di 100 paesi in via di sviluppo.

PER UN RISULTATO SIGNIFICATIVO alla Conferenza di Dubai serviva uno scambio. I paesi industrializzati dovevano dimostrarsi disposti a finanziare la transizione e l’adattamento nel Sud globale – sia con obiettivi chiari da inserire nella risoluzione finale, sia con stanziamenti collaterali. I paesi in via di sviluppo, in cambio, avrebbero dovuto acconsentire a un compromesso ambizioso sulla mitigazione e il tanto desiderato phase-out. Solo in questo modo, dicono da giorni gli analisti, si sarebbe potuto unire la maggioranza dei paesi e affrontare il blocco degli irriducibili capitanato dall’Arabia saudita. Niente di tutto questo è successo. «Gli Stati uniti si sono esposti pubblicamente contro l’obbligo per i paesi industrializzati di contribuire alla finanza climatica. Europa e Regno unito si sono nascosti dietro questa posizione. Senza finanziamenti per molti paesi in via di sviluppo la transizione è impossibile» è la lettura di Brandon Wu di ActionAid.
Il risultato è un accordo che non promette nessun passo avanti nella lotta contro la crisi climatica. I commenti di attivisti e analisti sono allineati. Per il Wwf la bozza è un «disastro». Il think tank Ecco parla di «una lista di Natale confusa che non aiuta nessuno e fa pienamente il gioco dei paesi produttori di oil&gas, lasciando i più vulnerabili a mani vuote». Il commento più duro viene dall’ex presidente statunitense Al Gore: «Cop28 è ormai sull’orlo del fallimento. Questa bozza sembra scritta dall’Opec parola per parola».
L’ARRIVO DEL DOCUMENTO è stato accolto con rabbia all’Expo Centre di Dubai. Ma la partita non è ancora chiusa, e molti attori sembrano pronti a giocarla fino in fondo. Le isole del Pacifico hanno indetto una drammatica conferenza stampa in cui, tra le lacrime, i ministri hanno promesso battaglia. A poca distanza ha risposto l’Unione europea. «Ci sono elementi del testo semplicemente inaccettabili, siamo delusi» è stata la reazione della ministra spagnola Teresa Ribera e del commissario Wopke Hoekstra. Parole dure sono arrivate da paesi come Ciad e Colombia.
In serata è giunta anche la nota degli Stati uniti, che si aggiungono timidamente al fronte dei delusi. La sezione sulla mitigazione deve essere «sostanzialmente rafforzata» scrive Washington, con toni decisamente più concilianti dell’alleato europeo. No comment dalla Cina, che potrebbe scoprire le sue carte nella seduta plenaria.
LA GIORNATA CHE COMINCIA si preannuncia di scontro tra le Parti. La chiusura ufficiale della Conferenza, prevista per oggi alle 11:00, è scontato venga rimandata, Le Cop ci hanno abituati a colpi di scena dell’ultimo minuto, e molto è ancora possibile. Rimane la distanza tra l’urgenza della crisi climatica e il processo negoziale. Così come rimarranno le parole di John Silk, ministro dell’Ambiente delle Isole Marshall, che ha chiuso il suo breve discorso alla stampa con la frase «non andremo silenziosamente nelle nostre tombe d’acqua».
*(Lorenzo Tecleme. Si occupo di clima, di politica e delle due cose assieme. Scrive, ora soprattutto su «il manifesto» èValori.it».)

 

08 – Junko Terao*: La newsletter sull’Asia e il Pacifico. Il destino in una statua

CINA
“Agnes Chow, la ‘dea della democrazia’, costretta all’esilio”, titolava Le Monde qualche giorno fa raccontando la decisione dell’attivista di Hong Kong, volto delle proteste nell’ex colonia britannica fin dal 2014 insieme a Joshua Wong (in carcere) e Nathan Law (in esilio a Londra), di rimanere in Canada, dove si trova per un master. La “dea della democrazia” è il soprannome che questa donna di 27 anni, attiva in politica da quando ne aveva 15, si è guadagnata in anni di lotte arringando la folla col megafono in mano. Il riferimento è alla statua che durante la rivolta studentesca a Pechino nel 1989 fu eretta in piazza Tiananmen mentre era occupata da migliaia di giovani che chiedevano più libertà e meno corruzione.
Studenti dell’Università di Pechino danno gli ultimi ritocchi alla Dea della democrazia, la statua eretta durante le manifestazioni in piazza Tiananmen, 30 maggio 1989 (Jeff Widener, Ap/Lapresse)
“Anche la creazione e l’esposizione della Dea della democrazia, una figura femminile bianca e appariscente che portava il nome di un ideale invece che di una persona potente, fu una sfida alla versione della storia calata dall’alto e centrata sul partito”, scrive lo storico della Cina Jeff Wasserstrom, che ripercorre le sorti di quella statua e delle sue repliche. Vista la fine che fece l’originale, distrutta dai soldati dell’esercito popolare di liberazione armati di spranghe di ferro durante la cruenta repressione della protesta, e considerata la situazione attuale a Hong Kong, quel soprannome oggi suona alquanto sinistro.
HONG KONG
La più importante delle repliche di quella statua si trovava nel campus della China university di Hong Kong (Cuhk) ed era una dei tanti oggetti legati ai fatti del 1989 che si potevano trovare nella regione amministrativa speciale (questa la designazione data alla città dopo il ritorno sotto il controllo cinese). Fino al recente giro di vite imposto da Pechino con la legge sulla sicurezza nazionale, per decenni Hong Kong è stata, insieme a Macao, ex colonia portoghese e altra regione amministrativa speciale, l’unico luogo della Repubblica popolare “dove i bambini a scuola imparavano nei dettagli cos’erano state le proteste di Tiananmen” e dove “ogni anno potevano svolgersi veglie in ricordo dei martiri del 4 giugno 1989”. Dai tempi del movimento degli ombrelli del 2014, la statua nel campus della Cuhk è diventata un punto di riferimento per gli studenti che manifestavano chiedendo, come i loro predecessori nel 1989, libertà fondamentali. Tale era il suo potere simbolico che nel dicembre del 2021, in silenzio e lontano dai riflettori, la statua è stata rimossa. “È stata tirata giù in un lungo strangolamento in più fasi di una città”, continua Wasserstrom.
La metamorfosi di Hong Kong in una città qualsiasi della Cina continentale è quasi completa. La settimana scorsa si sono svolte le elezioni distrettuali, riservate ai “patrioti” e senza candidati dell’opposizione. Pochi giorni prima Tsang Chi-kin, un manifestante a cui la polizia nel 2019 sparò un colpo al petto, era comparso in tv esprimendo rimorso per aver protestato e dicendo di aver imparato a gestire le sue emozioni grazie a piano di riabilitazione seguito in carcere, dove si trova dopo essere stato condannato. Una confessione in pieno stile cinese che ha fatto gelare il sangue agli hongkonghesi. Lunedì comincia il processo a Jimmy Lai, il fondatore dell’Apple Daily, il tabloid che si schierò dalla parte dei manifestanti e che per questo fu costretto a chiudere.
GIAPPONE
Giappone Il governo è alle prese con uno scandalo in cui sono coinvolte decine di parlamentari del Partito liberaldemocratico. Il capo di gabinetto Hirokazu Matsuno e tre ministri – dell’economia, dell’interno e dell’agricoltura –, tutti esponenti della fazione legata all’ex premier Shinzo Abe, assassinato l’anno scorso, si sono dimessi. L’accusa nei confronti dei politici è di aver nascosto al fisco 500 milioni di yen (3,2 milioni di euro) di raccolta fondi per il partito in cinque anni. S’indaga sul coinvolgimento dei membri della fazione guidata dal primo ministro Fumio Kishida, la cui popolarità nel frattempo è scesa ai minimi storici. Come se non bastasse, l’alleanza del Pld con il Komeito, il partito legato al gruppo religioso Soka Gakkai, potrebbe traballare dopo la morte del fondatore, Daisaku Ikeda.
INDIA
India La corte suprema ha confermato la costituzionalità della decisione del governo di Narendra Modi di togliere l’autonomia allo stato del Jammu e Kashmir, che dal 2019 è stato trasformato in due “territori dell’Unione”. La sentenza è una vittoria del Baratiya janatha party di Modi, che fin dalla sua nascita aveva tra i suoi obiettivi la revoca dell’articolo 370 della carta costituzionale, quello che decretava l’autonomia del Kashmir indiano. Gli abitanti del Jammu e Kahsmir, a maggioranza musulmana, non l’hanno presa bene, e nemmeno Cina e Pakistan, che rivendicano il controllo del territorio nella regione.
India/2 Due uomini sono entrati nell’aula della nuova sede del parlamento, urlando slogan e lanciando fumogeni. Altri due hanno lanciato fumogeni fuori dall’aula e urlato slogan “contro la dittatura”. I quattro sono stati arrestati, non è chiaro come siano riusciti a entrare e secondo la polizia si è trattato di una cospirazione ben pianificata.
THAILANDIA
Thailandia Rukchanok “Ice” Srinork, parlamentare di Move Forward, il partito oggi all’opposizione ma che alle elezioni politiche di maggio era arrivato primo, è stata arrestata per aver criticato la monarchia in due post su X. Srinork, che è libera su cauzione, era stata eletta in un collegio storicamente in mano a uno dei clan politici più potenti dopo una campagna elettorale conditta principalmente in bicicletta.
*(Junko Terao è l’editor di Asia e Pacifico. Italo-giapponese, lavora a Internazionale dal 2010. In passato ha lavorato al Riformista e al Manifesto)

 

09 – LA TOP 10 DEI MANAGER PAPERONI. Anna Fabi e Gabriele Politi*: GUADAGNI ALLE STELLE PER GLI UOMINI D’ORO DELLE SOCIETÀ QUOTATE PUBBLICATA LA CLASSIFICA DEGLI STIPENDI PAGATI NEL 2022, DALLE AZIENDE PRESENTI SUL LISTINO DI PIAZZA AFFARI (AUTOMOTIVE, MODA E FINANZA IN TESTA): ECCO I DIECI DIRIGENTI CON BUSTE PAGA MILIONARIE, AUMENTATE IN MEDIA DEL 17% RISPETTO ALL’ANNO PRECEDENTE. IL TOTALE DEGLI STIPENDI 2022 DEI PRIMI DIECI HA RAGGIUNTO LA CIFRA DI 231,2 MILIONI DI EURO, CON UN INCREMENTO DEL 17% SUL 2021. (VERGOGNA ndr).

Una recente analisi del Corriere della Sera certificava che in Italia nel 1980 gli amministratori delegati più pagati percepivano un SALARIO PARI A 45 VOLTE quello di un loro dipendente.
Nel 2008 la media delle remunerazioni dei primi 10 top manager italiani era di 6,41 milioni di euro, 416 VOLTE LO STIPENDIO MEDIO ANNUO DI UN OPERAIO.
Nel 2020 è stata di 9,59 milioni, ovvero 649 volte.
Vale la pena di scomodare il più volte citato Adriano Olivetti quando affermava:
«NESSUN DIRIGENTE, NEANCHE IL PIÙ ALTO IN GRADO, DEVE GUADAGNARE PIÙ DI DIECI VOLTE L’AMMONTARE DEL SALARIO PIÙ LA TOP 10 DEI MANAGER PAPERONI:
guadagni alle stelle per gli uomini d’oro delle società quotate Pubblicata la classifica degli stipendi pagati nel 2022 dalle aziende presenti sul listino di Piazza Affari (Automotive, Moda e Finanza in testa): ecco i dieci dirigenti con buste paga milionarie, aumentate in media del 17% rispetto all’anno precedente Sono sempre più “paperoni” gli alti dirigenti delle aziende quotate in Borsa Italiana. Sul podio dei top manager svettano Mike Manley (ex numero uno di FCA, ora Stellantis), Fulvio Montipò (Interpump) e Marco Tronchetti Provera (Pirelli), mentre tra i primi venti ci sono solo due donne: Miuccia Prada e Alessandra Gritti (Moncler). In media, nel 2022, gli stipendi lordi degli uomini d’oro di Piazza Affari sono aumentati del 17% rispetto all’anno precedente. Nella classifica PayWatch stilata dal Sole24Ore, per trovare uno stipendio sotto i 10 milioni di euro (escludendo fringe benefit, stock option e benefici non monetari) bisogna scendere al quindicesimo posto. E ben 137 superano il milione di euro. basso». In quegli anni di boom economico per il paese, l’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta guadagnava 12 volte il salario di un operaio. L’ultimo stipendio di Sergio Marchionne in FCA nel 2017 fu 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico. L’anno scorso Manley ha incassato quasi 5 volte lo stipendio di Marchionne. Fate un po’ voi i conti… Magra consolazione: la linea dettata da Olivetti è stata in parte rispettata dalla media degli stipendi dei dirigenti intermedi. Nel 2008 ci volevano 8,3 stipendi di un operaio per fare quello di un dirigente medio, nel 2020 si è passati a dieci. Gli stipendi da record di Stellantis Mike Manley non è solo in prima posizione: il suo stipendio 2022 (51 milioni 184mila 773 euro) è quasi il quadruplo rispetto a quello del decimo in classifica, Marco Gobbetti, a Ferragamo, a quota 13 milioni 915mila 350 euro. C’è però da dire che il compenso incamera la liquidazione Stellantis (ora è amministratore delegato dell’americana AutoNation). L’attuale Ceo di Stellantis, Carlos Tavares, è sesto in classifica e guadagna 14,9 milioni di euro. Il gruppo automobilistico (l’ex Fiat) vanta altri due top manager in classifica: Scott Wine (A Cnh Industrial) è al nono posto con 14,3 milioni di euro, John Elkann (Ad Exor e presidente Ferrari e Stellantis) porta a casa 13,6 milioni. La top 3 che non ti aspetti Dopo Mike Manley in prima posizione, il secondo classificato, Fulvio Montipò, è un manager imprenditore, come numero uno di Interpump (pompe ad alta pressione) ha incassato 49,12 milioni. Segue Marco Tronchetti Provera, vicepresidente e amministratore delegato di Pirelli, stipendio di 19,97 milioni di euro. Moda e Finance nella top 10 La quarta posizione in classifica è una delle uniche occupate da una donna, Miuccia Prada alla guida dell’omonima azienda di famiglia. Stipendio 18,14 milioni di euro, analogo a quello del marito, Patrizio Bertelli, che è in quinta posizione a pari merito. Sono diverse le imprese del fashion Made in Italy i cui manager rientrano nella top ten: il già citato Gobbetti di Ferragamo, Paul du Saillant, numero due di EssilorLuxottica, poco sopra i 9 milioni di euro, e tre top manager di Moncler: Roberto Eggs e Alessandra Gritti, rispettivamente amministratore esecutivo e Ceo, entrambi intorno agli 8,9 milioni di euro, e Luciano Sante, anch’egli amministratore esecutivo con uno stipendio di 8,4 milioni di euro. Ci sono anche aziende del settore finanziario-assicurativo: Carlo Cimbri, presidente di Unipol, con uno stipendio di 16 milioni 440 mila 845 euro (sesto in classifica), Giovanni Tamburi, founder, presidente e amministratore delegato di Tip (Tamburi Investments Partners), 14 milioni 855mila 216 euro, Dario Scaffardi, ex numero uno di Saras, che ha incassato 13 milioni 189mila 966 euro (anche qui, c’è una liquidazione, intorno ai 4,9 milioni di euro).

1 Mike Manley (Stellantis): 51 milioni184mila 773 euro;
2 Fulvio Montipò (Interpump): 49 milioni 120mila 360 euro;
3 Marco Tronchetti Provera (Pirelli): 19 milioni 966mila 260 euro;
4 Patrizio Bertelli (Prada): 18 milioni 145mila euro;
5 Miuccia Prada (Prada): 18 milioni 145mila euro;
6 Carlo Cimbri (Unipol): 16 milioni 440mila 845 euro;
7 Carlos Tavares (Stellantis): 14 milioni 924mila 553 euro;
8 Giovanni Tamburi (Tip): 14 milioni 855mila 216 euro;
9 Scott Wine (Cnh Industrial): 14 milioni 307mila 532 euro;
10 Marco Gobbetti (Ferragamo): 13 milioni 915mila 350 euro

*(da Il Settimanale. Anna Fabi. Esperta di Economia, Fisco e Information Technology, scrive da anni di attualità legata al mondo delle piccole e medie imprese. Gabriele Politi · Giornalista professionista, conduttore tv e media trainer, strategie di comunicazione, relazione con i media. Podcaster per passione)

 

 

 

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