N° 09 – 04/03/2023. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – La Marca (Pd)*: «la ministra Santanchè dimentica gli italiani all’estero e il “turismo delle radici”» «Permettere agli italiani all’estero e agli italo-discendenti di riscoprire le proprie origini, attraverso il cosiddetto “Turismo delle Radici”, rappresenta una grande opportunità per l’intero sistema paese che non possiamo permetterci di perdere
02 – Alessandro Calvi*: Il nuovo Partito democratico secondo Elly Schlein . È la prima donna a guidare il Pd e la prima candidata a ribaltare il voto dei tesserati. Ora dovrà provare a unire le opposizioni ma anche le correnti interne del suo stesso partito. Che deve trovare una nuova identità
03 – La «svolta» del Partito democratico secondo i giornali stranieri. PRIMARIE PD. Diversi media stranieri vedono nell’elezione di Elly Schlein una «svolta storica» per il Pd.
04 – La Marca (Pd)*: primarie pd. «ora tutti con Elly. Riscoprire la forza del pd per battere le destre».
05 – Il testo integrale del discorso di Elly Schlein dopo la vittoria.
06 – Raffaele K. Salinari *: Governo colpevole, nega il principio universale del salvataggio in mare
«Non speculate su questi morti»: ecco la sensibilità colpevole di Giorgia Meloni contro chi riflette sui reali confini della democrazia, da non confinare alla frontiera russo-ucraina
07 – Adam Tooze*: Il capitalismo alle Bahamas – Il crollo della borsa di cripto valute Ftx ha attirato l’attenzione sul paese caraibico, che è da sempre un laboratorio per le grandi trasformazioni dell’economia capitalistica.
08 – Irene Doda*: Barcellona vuole tassare le consegne in città. La città di Barcellona vuole sperimentare un nuovo modo di combattere il traffico, assicurando allo stesso tempo una forma di giustizia fiscale: attraverso una tassa per le compagnie di consegne a domicilio e delivery
09 – Stefania Cella*: Biden: piano della Cina? “Vantaggioso solo per Russia”.
10 – Alberto Fraccacreta*: CULTURA – Liudmyla Djadchenko, la sconfitta della vita nel gioco contro il tempo
11 – Antonio Piemontese*: La guerra in Ucraina costa all’ambiente 51 miliardi.
12 – M. Berner, Heike Buchter, Ann-Kathrin Nezik,*: Il lavoro sicuro non si trova con Google. I colossi della Silicon valley sembravano non dover mai smettere di crescere e di assumere persone. Ma negli ultimi mesi hanno tagliato migliaia di posti di lavoro.
13 – Cos’è il decreto milleproroghe* – È un decreto legge con cui il governo dispone il rinvio di determinate scadenze. Negli anni i settori di intervento di questo strumento sono diventati sempre più vasti, portando anche a degli abusi.

 

 

01 – LA MARCA (PD) «LA MINISTRA SANTANCHÈ DIMENTICA GLI ITALIANI ALL’ESTERO E IL “TURISMO DELLE RADICI”» «Permettere agli italiani all’estero e agli italo-discendenti di riscoprire le proprie origini, attraverso il cosiddetto “Turismo delle Radici”, rappresenta una grande opportunità per l’intero sistema paese che non possiamo permetterci di perdere.
Per questa ragione è grave che la Ministra del Turismo, Daniela Garnero Santanchè, audita oggi in Commissione sulle linee programmatiche del suo Dicastero, durante il suo intervento non abbia minimamente menzionato l’argomento, che interessa particolarmente gli italiani all’estero». È quanto afferma in una nota la senatrice del Partito Democratico, Francesca La Marca, eletta nella circoscrizione estero, ripartizione America Settentrionale e Centrale.
«Il “Turismo delle Radici” – chiarisce la Senatrice La Marca – si rivolge agli italiani residenti all’estero (5,8 milioni di persone) e agli italo-discendenti ovvero un bacino potenziale di 80 milioni di persone. Secondo dati, riferiti al 2018, e pubblicati dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI), nella sola annualità 2018 sono stati 10 milioni i turisti inseriti dall’Agenzia Nazionale del Turismo (ENIT) nella categoria “Turista delle Radici”. Un turismo capace di generare un flusso economico, nel solo 2018, pari a circa 4 miliardi di euro (+7,5% rispetto all’anno precedente)».

«Alla Ministra Santanchè avrei voluto domandare in quale modo intenda coinvolgere le numerose comunità di italiani residenti all’estero nell’ambito di progetti riguardanti il “Turismo delle Radici” e quale sia il ruolo del suo ministero nell’ambito del progetto “Turismo delle Radici” gestito dal MAECI e parte del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Oggi in Commissione il tempo non è stato sufficiente, per questa ragione chiederò un incontro alla Ministra per parlare specificamente dell’argomento».

«Tornando all’importanza del “Turismo delle Radici” – sottolinea La Marca – occorre promuovere un turismo, certamente legato alle principali città e mete turistiche italiane, ma che possa e sappia svilupparsi anche nelle aree interne, nelle aree montane e nei piccoli, e colpevolmente dimenticati, borghi, che spesso costituiscono i veri luoghi di provenienza dei cittadini emigrati all’estero. Si tratta di promuovere un turismo lento, di media/ lunga durata, destagionalizzato ed ecosostenibile, che possa altresì stimolare l’occupazione, in particolare giovanile, mediante la formazione di operatori turistici specializzati nei “viaggi delle radici”».

«Tenendo conto – conclude la senatrice La Marca – delle numerose promesse fatte da questo governo agli italiani all’estero, mi stupisce che in Commissione la Ministra non abbia nemmeno accennato al “Turismo delle Radici”. Sono passate solo due settimane dalla presentazione del progetto, a cui la stessa era Ministra era presente. Spero dunque che si sia trattato di una semplice, seppur grave, dimenticanza».
*(Sen. Francesca La Marca, Ph.D. – SENATO DELLA REPUBBLICA – Ripartizione Nord e Centro America – Electoral College of North and Central America)

 

 

02 – Alessandro Calvi*: IL NUOVO PARTITO DEMOCRATICO SECONDO ELLY SCHLEIN . È LA PRIMA DONNA A GUIDARE IL PD E LA PRIMA CANDIDATA A RIBALTARE IL VOTO DEI TESSERATI. ORA DOVRÀ PROVARE A UNIRE LE OPPOSIZIONI MA ANCHE LE CORRENTI INTERNE DEL SUO STESSO PARTITO. CHE DEVE TROVARE UNA NUOVA IDENTITÀ.

Elly Schlein è – un po’ a sorpresa – la nuova segretaria del Partito democratico (Pd). Ed è anche la prima donna a guidarlo. Ha vinto le primarie con il 53 per cento dei voti, superando il suo avversario Stefano Bonaccini, ribaltando così il voto degli iscritti che aveva visto prevalere proprio Bonaccini. E anche questa è una prima volta, visto che finora nella storia del Pd il voto dei militanti aveva sempre confermato quello degli iscritti. Schlein prende il posto di Enrico Letta, dimessosi dopo la grave sconfitta rimediata alle elezioni politiche del settembre scorso contro la destra di Giorgia Meloni. E le prime parole di Schlein da leader del Pd sono state dirette al governo.

“Saremo un bel problema, per il governo Meloni”, ha detto la nuova segretaria di fronte ai giornalisti poco prima di mezzanotte, subito dopo l’ufficializzazione del risultato del voto. Da subito, ha spiegato Schlein, il partito organizzerà l’opposizione in parlamento e nel paese in difesa “di quei poveri che il governo colpisce e che non vuole vedere”, “di lavoratrici e lavoratori precari e sfruttati, per alzare i salari e le loro tutele”. “Non ci daremo pace”, ha affermato, “finché non avremo posto un limite alla precarietà, un limite ai contratti a tempo determinato, abolito gli stage gratuiti, lavorato per portare a casa il salario minimo”.

Ma il Pd della nuova segretaria sarà impegnato anche nella difesa della scuola pubblica “come primo grande strumento di emancipazione sociale, nel momento in cui il governo tace di fronte ad aggressioni squadriste davanti alle scuole”. E, promette Schlein, il Pd farà “le barricate contro ogni taglio della sanità pubblica”, così come sarà “al fianco di chi lotta per la giustizia climatica, accanto a quella sociale”.

Negli ultimi mesi il suo profilo si è sempre più avvicinato a quello di una sorta di anti Meloni

Nata a Lugano, in Svizzera, nel 1985, Elena Ethel Schlein ha alle spalle una storia e una famiglia attraversate da diverse culture. I genitori sono due professori universitari. Il padre, politologo statunitense, nasce in una famiglia ebraica askhenazita proveniente dalla regione di Leopoli, allora in Polonia e attualmente nell’Ucraina occidentale. La madre, italiana, è una giurista. Il nonno materno, Agostino Viviani, avvocato, è stato senatore socialista negli anni settanta. Trasferitasi in Italia, Schlein frequenta l’università a Bologna dove si laurea.

L’impegno politico comincia nel 2013 con la campagna Occupy Pd, dopo la mancata elezione di Romano Prodi alla presidenza della repubblica. Nel 2014 viene eletta al parlamento europeo ma lascia il Pd durante la segreteria di Matteo Renzi, per aderire a Possibile di Giuseppe Civati. Si candida poi alle elezioni regionali in Emilia-Romagna con una lista che contribuisce all’elezione del suo futuro sfidante per la leadership del Pd, Stefano Bonaccini. Viene da lui nominata alla vicepresidenza della regione. E qui resta fino all’elezione, nel 2022, alla camera dei deputati.

Negli ultimi mesi il suo profilo si è sempre più avvicinato a quello di una sorta di anti Meloni. Lei stessa, proprio come la leader di Fratelli d’Italia, si è presentata come la sfavorita che sorprende tutti e vince. “Underdog”, aveva detto di sé la leader della destra nel discorso con il quale chiese alla camera la fiducia per il suo governo. “Anche stavolta non ci hanno visti arrivare”, è stata invece la prima cosa che ha detto Schlein dopo la vittoria. Ma le similitudini finiscono qui. Basti pensare a come Schlein ha chiuso la campagna elettorale per le elezioni politiche dello scorso autunno: “Sono una donna, amo un’altra donna, non sono madre ma non per questo sono meno donna, perché non siamo uteri viventi, siamo persone con i loro diritti”. Ed era una evidente risposta al famoso slogan gridato da Meloni nel 2021 al congresso del partito spagnolo di estrema destra Vox: “La nostra identità è sotto attacco, ma non lo permetteremo. Sono Giorgia, sono una donna, sono italiana, sono cristiana e nessuno può portarmi via tutto questo”.

Sempre a proposito di differenze, e spostando il ragionamento su un altro piano, non è un caso se nel discorso della vittoria, pronunciato al termine di una giornata drammatica per la notizia della strage di migranti avvenuta sulle coste calabresi, Schlein abbia affermato che quella strage “pesa sulle coscienze di chi, solo qualche settimana fa. ha voluto approvare un decreto che ha la sola finalità di ostacolare i salvataggi in mare quando ci vorrebbero vie legali e sicure per l’accesso in Europa. E ci vorrebbe una Mare nostrum europea, una missione umanitaria di ricerca e soccorso in mare”.

UN MANDATO CHIARO
Insomma, come Schlein voglia posizionare il proprio partito nella lotta contro le destre sui temi principali – lavoro, scuola, sanità, migranti, diritti civili, ambiente – è a grandi linee abbastanza chiaro, almeno a parole. Più complicata sembra la partita interna: sia quella che dovrà giocare con le altre opposizioni sia quella all’interno del suo stesso partito. Quanto alla prima, la neosegretaria ha affermato che si rivolgerà loro “per fare tutte battaglie insieme”. Ma è tutto da vedere cosa accadrà. La novità rappresentata dalla vittoria di Schlein è infatti così grande da sconsigliare qualsiasi previsione. Potrebbe essere davvero, come ha affermato la stessa segretaria, di una “rivoluzione”.
Inoltre, quello appena ricevuto dai militanti con le primarie è, a detta di Schlein, “un mandato chiaro a cambiare davvero, volti, metodo e visione”. E le servirà per incidere sul corpo di un partito che prima di lei ha avuto ben otto segretari in una quindicina di anni, senza che però sia mai stato davvero chiaro cosa fosse o dovesse diventare quello stesso partito la cui incapacità ideale e strategica si è andata accentuando di anno in anno e di segretario in segretario. D’altra parte, il Pd è nato come un’organizzazione strutturata soprattutto in vista della gestione del potere, costruita su cordate e correnti più che sue idee e passioni politiche. E anche il meccanismo delle primarie ha finito per radicalizzare sempre di più questa sua natura. Così, il punto è diventato ancora una volta come rinnovare il partito più che dove portarlo.

Lo dimostra anche il dibattito congressuale che ha preceduto il voto degli iscritti che si è svolto tra il 3 e il 19 febbraio, e che è servito per selezionare i due sfidanti da sottoporre al voto dei militanti del 26 febbraio. Per mesi la discussione si è avvitata attorno a questioni procedurali e cavilli, mentre i capi delle correnti disponevano sul terreno le proprie truppe, senza che si riuscisse a elaborare una analisi approfondita della sconfitta elettorale alle politiche del 2022. E soprattutto senza che si potesse aprire davvero una discussione sul futuro del partito.
Non è stato davvero un bello spettacolo. E anche i due candidati alla fine ci hanno messo del loro per far apparire il Pd come una sorta di mostro burocratico votato alla gestione del potere e condizionato soprattutto dalla necessità di sopravvivere alle gerarchie interne. “Non ho mai fatto parte di alcuna corrente e sono stato il primo a dire che se le correnti volevano appoggiarmi io quell’appoggio non lo avrei voluto”, ha detto per esempio Bonaccini. “Tra le candidature in campo, sono l’unica che non ha fatto parte del gruppo dirigente del Partito democratico negli ultimi dieci anni”, ha affermato invece Schlein.
Ecco: se voleva essere un modo per dare la sensazione di candidature lontane dal palazzo, il risultato è stato invece quello di accentuare il carattere populista di quelle stesse candidature, più che quello popolare. E alla fine è passata l’idea, ancora una volta, di un partito che non piace a nessuno, neppure a chi si batte per guidarlo. E in queste condizioni non sarà facile cambiare le cose.
*( Alessandro Calvi È un giornalista italiano. Ha scritto per il Riformista e il Messaggero )

 

 

03 – LA «SVOLTA» DEL PARTITO DEMOCRATICO SECONDO I GIORNALI STRANIERI. PRIMARIE PD. DIVERSI MEDIA STRANIERI VEDONO NELL’ELEZIONE DI ELLY SCHLEIN UNA «SVOLTA STORICA» PER IL PD . (*)
Diversi media stranieri vedono nell’elezione di Elly Schlein una «svolta storica» per il Pd. Per il settimanale tedesco Der Spiegel è «l’outsider anti-Meloni, alternativa alla premier post-fascista».
Anche la Seuddeutsche Zeitung ne parla come «anti-Meloni» aggiungendo che qualunque cosa faccia «ha già fatto la storia».
In Francia Liberation spiega che «gli elettori progressisti hanno scelto il rinnovamento e una svolta a sinistra, contrariamente alla volontà» degli iscritti che «avrebbero preferito una certa continuità riformista».
Nel Regno unito il Guardian, come altri media stranieri, la paragona a Alexandria Ocasio-Cortez mettendo l’accento sulle sue posizioni su lavoro e sanità, e cita un’intervista di settembre allo stesso giornale in cui Schlein spiegava il suo passato addio al Pd con il fatto di «non poter sopportare» più di stare nel partito di Renzi.
Per la Reuters Schlein ha davanti a sé una «battaglia monumentale, se spera di sanare le divisioni all’interno del suo partito e battere il blocco conservatore di Meloni alle prossime elezioni».
Per il belga Le Soir la nuova leader mostra «uno slancio e una determinazione senza pari» e «incarna la promessa di un cambiamento radicale» per un partito che era davanti a un bivio: «trasformarsi o morire»
*(Redazione Il Manifesto)

 

 

04 – La Marca (Pd)*: primarie pd. «ora tutti con Elly. Riscoprire la forza del pd per battere le destre».
«Adesso tutti uniti intorno ad Elly. Le primarie hanno dimostrato che il Partito Democratico ha ancora una lunga storia da raccontare, guardiamo con ottimismo al futuro. La Comunità Democratica ha scelto il cambiamento». È quanto afferma in una nota la senatrice del Partito Democratico, Francesca La Marca, eletta nella circoscrizione estero, ripartizione America Settentrionale e Centrale.
«Prima di tutto due doverosi ringraziamenti – prosegue La Marca – il primo va a tutte le candidate e i candidati che hanno partecipato a questo lungo ed intenso percorso costituente. Il secondo e più importante ringraziamento non può che essere rivolto agli oltre 20mila volontari, in Italia e all’estero, che ci hanno permesso di poter esprimere la nostra preferenza in oltre 5500 seggi in Italia e in ben 135 seggi all’Estero, di cui 23 solo tra Canada e Stati Uniti».
«Un primo dato importante è quello dell’affluenza – continua La Marca – intorno al milione di elettori. Un dato importante che deve rappresentare un punto di partenza. Non sono i 3,5 milioni del 2007 o l’1,6 milioni del 2019, e questo dobbiamo dircelo, però, in tempi di astensionismo record, portare alle urne un milione di cittadine e cittadini è comunque un buon risultato. Un punto da cui ripartire».
«Adesso dobbiamo fare tutti squadra intorno alla nuova Segretaria per tornare ad offrire a tutte le cittadine e cittadini italiani, anche a quelli residenti all’estero, una proposta politica chiara e coerente e che abbia l’obiettivo di sconfiggere elettoralmente una destra che sta riportando indietro il paese».
*(Sen. Francesca La Marca, Ph.D. – SENATO DELLA REPUBBLICA – Ripartizione Nord e Centro America)

 

 

05 – IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO DI ELLY SCHLEIN DOPO LA VITTORIA. CARE TUTTE E CARI TUTTI, CE L’ABBIAMO FATTA. ABBIAMO VINTO. VI SONO MI SONO IMMENSAMENTE GRATA PERCHÉ INSIEME ABBIAMO FATTO UNA PICCOLA GRANDE RIVOLUZIONE. ANCHE STAVOLTA NON CI HANNO VISTO ARRIVARE.
Il popolo democratico è vivo, è vivo, c’è ed è pronto a rialzarsi. E lavoreremo su questa fiducia: è un mandato chiaro a cambiare davvero, come abbiamo detto in queste settimane. Volti, metodo e visione. Con una linea chiara che metta al centro il contrasto a ogni forma di diseguaglianza, il contrasto alla precarietà per un lavoro di qualità, per un lavoro dignitoso e anche per affrontare con la massima urgenza e serietà l’emergenza climatica.
Parte davvero da noi. Abbiamo visto oggi per ricostruire fiducia e credibilità dove si è spezzata in questi anni.
Un popolo oggi possiamo dire che si è riunito, finalmente, e ha risposto alla nostra chiamata.
È la maggiore responsabilità che abbiamo: non tradire mai questa fiducia.
Abbiamo fatto da ponte tra il dentro e il fuori, per liberare le energie migliori. Ma anche un ponte intergenerazionale. Mi hanno molto colpita i messaggi di alcune donne di più di 100 anni, che oggi sono andate a votare per me e che hanno detto che erano 90 anni che aspettavano di votare per una segretaria.
Ma voglio pensare anche alle tante e ai tanti giovani che hanno oggi espresso il loro primo voto e che hanno messo il loro primo impegno in questa sfida collettiva.
Sento che è il momento di ringraziare, perché da questa meravigliosa esperienza, da questo lungo viaggio da sud a nord del nostro paese, passando per le isole, è molto più quello che ho ricevuto di quello che ho dato.
E prima di ringraziare vorrei che dessimo un messaggio di grande vicinanza, di solidarietà, di affetto alla famiglia di Daniele Nucera, scrutatore che purtroppo oggi si è spento durante il nostro grande esercizio di democrazia.
Voglio ringraziare la comunità democratica, l’unica che dopo la sconfitta di settembre ha scelto di rimettersi in discussione aprendo questo processo di partecipazione che si è concluso oggi con questo straordinario esercizio di democrazia aperto a tutta la società.
Voglio ringraziare il segretario uscente Enrico Letta, che ho sentito poco fa, e tutta la segreteria. Ci siamo sentiti. Ci accorderemo domani (lunedì 27, ndr) per il passaggio di consegne.
Un ringraziamento molto speciale e sentito a tutte le iscritte e gli iscritti, le volontarie e i volontari che oggi ci hanno permesso, lavorando ai seggi dalla mattina presto fino alla sera tardi, di esercitare il nostro diritto di voto, di fare queste primarie.

Non c’è mai niente di scontato in questo sforzo e l’hanno fatto non solo in ogni gazebo e seggio d’Italia ma voglio ricordare anche in particolare quelli che l’hanno fatto all’estero, la nostra comunità democratica all’estero che si è tanto spesa.
E’ stata una straordinaria festa di partecipazione, è il nostro inizio di risposta al picco di astensionismo che purtroppo abbiamo visto anche in questa città (Roma, ndr) alle ultime regionali. Ma l’abbiamo visto in tutta Italia, con un record di astensione alle ultime elezioni politiche. Ecco questa è la miglior risposta: rimetterci in cammino, rimetterci in gioco e ricominciare a partecipare.
Ma vi vorrei chiedere un impegno: noi dobbiamo avere l’ossessione delle persone che oggi comunque non hanno partecipato, di quelle che alle ultime elezioni non si sono espresse. Perché tra quelle persone ci sono purtroppo soprattutto le fasce di reddito più basse e questo vuol dire una crisi della democrazia e il rischio di una marginalizzazione permanente delle fasce più povere della nostra società. Ecco, a questo vi chiedo di continuare a rivolgere la nostra attenzione.
Un ringraziamento naturalmente lo vorrei fare, molto sentito, e ne vedo tante e tanti qui intorno, ma anche in tutta Italia, a tutti i nostri straordinari comitati “Parte da noi”. A tutte le sostenitrici e sostenitori che si sono spesi con una passione, con una determinazione, con una competenza veramente straordinarie e che mi commuovono tanto. Militanti da sempre impegnati in questo partito accanto a persone che sono rientrate dopo tanti anni di disillusione, di delusione, di poca motivazione, insieme a giovani alla prima esperienza politica che hanno scelto di farla con noi.
Un grazie di cuore lo voglio fare alla squadra nazionale della mozione Schlein e al mio team, senza i quali tutto questo non sarebbe stato davvero possibile. Vi ringrazio tutte, vi ringrazio tutti, perché in questo lungo viaggio mi avete tenuta in piedi, ecco, con 4/5 comizi al giorno altrimenti sarei stramazzata al suolo.
Siete la mia e la nostra speranza e soprattutto saremo un bel problema per il governo di Giorgia Meloni, perché da oggi noi daremo un contributo a organizzare l’opposizione in Parlamento e in tutto il paese a difesa di quell’Italia che fa più fatica, a difesa di quei poveri che il governo colpisce e che non vuole vedere, di lavoratrici e lavoratori precari sfruttati, per alzare i salari e per alzare le loro tutele, la sicurezza sul lavoro.
Anche per difendere la scuola pubblica come primo grande strumento di emancipazione sociale nel momento in cui il governo tace su un’aggressione squadrista davanti ad una scuola. Noi saremo al fianco degli studenti e delle studentesse e non li faremo passare. Non li faremo passare.
E saremo qui a fare le barricate contro ogni taglio o privatizzazione della sanità pubblica universalistica. Perché stanno già tagliando. Perché quando una manovra non mette un euro in più sulla sanità a fronte di un’inflazione così alta, non è una scelta neutra. Stanno già tagliando i servizi alle persone.
Ecco, mi viene in mente che in questo viaggio a un certo punto sono stata a Siracusa e che quello stesso giorno, poco distante da lì, a Pachino, è morto un ragazzo della mia età, 38 anni, perché al pronto soccorso non c’erano sufficienti medici per curarlo.
Noi non possiamo essere quest’Italia. Lo dico proprio oggi, lo dico proprio oggi con un’altra strage nel mare davanti a Crotone. Che pesa sulle coscienze di chi solo qualche settimana fa ha voluto approvare un decreto che ha la sola finalità di ostacolare il salvataggio in mare quando invece ci vorrebbero vie legali e sicure per l’accesso a tutti i paesi europei. E ci vorrebbe una Mare Nostrum Europea, una missione umanitaria di ricerca e soccorso in mare.
Così come saremo al fianco di chi lotta per la giustizia climatica accanto a quella sociale, perché non abbiamo più molto tempo per invertire la rotta, perché il giorno in cui abbiamo già consumato tutte le risorse che il pianeta è in grado di rigenerare arriva sempre prima: arriva luglio, e per il resto dell’anno siamo a debito con il pianeta e con le prossime generazioni.
Quindi saremo a lavorare per una vera, profonda conversione ecologica che accompagni tutta la società e tutti i settori dell’economia.

Ecco questo vogliamo fare. Lo vogliamo fare per le aree interne e montane troppo spesso dimenticate dalle politiche che si fanno a livello nazionale.
E vorremmo essere i peggiori avversari di quella paura di futuro che colpisce soprattutto tante e tanti giovani.
Ecco, lo voglio dire, perché saremo quel partito che non si dà pace finché non avremo posto un limite alla precarietà o un limite ai contratti a tempo determinato, finché non avremo abolito gli stage gratuiti, lottato per portare a casa il salario minimo. E lo dico già da ora, l’ho detto in queste settimane, ci rivolgeremo a tutte le altre opposizioni per fare questa battaglia insieme, per dire che sotto una certa soglia non è lavoro: è sfruttamento.
Un messaggio molto forte e molto caloroso lo voglio mandare a Stefano Bonaccini, ringraziandolo e facendogli i complimenti. Ringraziandolo anche per il confronto molto alto e rispettoso che abbiamo avuto. E voglio ringraziare anche Gianni Cuperlo e voglio ringraziare anche Paola de Micheli. Voglio ringraziare anche tutti i loro sostenitori, perché da domani lavoreremo insieme nell’interesse del paese e nell’interesse del partito.
Lavoreremo per l’unità. Non possiamo permetterci altro.
Lavoreremo per l’unità e posso garantire già da oggi che il mio impegno sarà quello di essere la segretaria di tutte e di tutti indistintamente. Questo ci aspetta, questa è la responsabilità che abbiamo e soltanto così noi lavoreremo insieme per tornare a vincere, presto, insieme
Questo chiedo anche loro di fare, perché mi spetta una grande una grande responsabilità che è quella di tenere insieme la nostra comunità, che oggi ha dato un segno straordinario di vivacità.
Ci spetta di tenere insieme le sue storie, di tenere insieme le culture che hanno forgiato questo partito ma senza rinunciare a indicare una direzione chiara, che è quella che è stata scelta e che oggi è stata premiata dalle elettrici e dagli elettori che si sono recati alle urne per votare.
Ecco, io vi chiedo e chiedo loro di scommettere una volta in più e ancora e di entrare presto anche a far parte di questa nostra comunità democratica: le porte sono aperte, sono spalancate.
Dobbiamo ricucire le fratture che si sono prodotte in questi anni. Siamo qui per questo e vi chiediamo di sostenere il cambiamento che vogliamo realizzare perché l’abbiamo sempre detto: un cambiamento così profondo del partito e del paese non passa solo dalla testa
Non basto io, è un cambiamento che funziona soltanto se ciascuna e ciascuno di noi ci mette un pezzo di sé a generare cambiamento tutto intorno. Ecco questo è l’impegno che noi ci siamo presi e così noi vogliamo lavorare.
Per concludere, voglio dedicare questa vittoria davvero a tutte e tutti voi, perché è vostra, perché è vostra e perché l’abbiamo fatta insieme. Voglio dedicarla però soprattutto alle donne e ai giovani che, vedremo i dati ma ho l’impressione da quello che mi hanno raccontato dai seggi in tutta Italia, abbiano dato un contributo straordinario a questa vittoria. Hanno raccolto il nostro appello a ricostruire insieme, rivolto a loro, troppo spesso schiacciati non solo dalla crisi economica e quella pandemica ma anche dalla politica e anche in questo partito.
Siamo qui per aprire quel varco, lo facciamo sul serio. Abbiamo già iniziato a farlo. Siamo qui pensando a quella ragazza a cui voglio dedicare una parte di questa vittoria, perché quando ci siamo incontrati aveva detto che a una prima riunione di partito qualcuno le aveva chiesto: “Di chi sei?”. Ecco, la miglior risposta è oggi. Da oggi è solo di se stessa, è solo di se stessa, come tutti noi.
Voglio pensare a una donna, a una grande attivista e combattente Marielle Franco, che ha ispirato l’azione di tante e tanti di noi, un’attivista uccisa in Brasile. Voglio pensare però anche ad alcune persone che purtroppo non ci sono più e che vi chiedo di ricordare insieme in un momento così importante come quello di stasera.
Il primo è un amico, un collega, un compagno di lavoro al Parlamento Europeo che purtroppo si è spento proprio oggi e che è Curzio Maltese, grande giornalista. Voglio salutare la famiglia, ci siamo visti a Firenze qualche giorno fa, di Alberto Brasca che purtroppo si è spento qualche giorno fa e non ha potuto gioire con noi di questa vittoria. Voglio salutare, se mi stanno sentendo, anche i genitori di un altro compagno straordinario, amico, attivista pugliese che si è spento qualche anno fa amico di tanti di noi: Gian Claudio Pinto e con lui Antonio Prisco, uno di coloro che hanno contribuito a organizzare la protesta, il primo sciopero dei Rider in questo paese.
Siamo qui anche per scrivere le nuove tutele del lavoro digitale. E’ una responsabilità grande che spetta alla nostra generazione.
E da ultimo voglio ricordare chi ha condiviso con me il sogno di un’Europa federale: Antonio Megalizzi, ucciso nell’attentato a Strasburgo qualche anno fa.
Ecco, è il nostro tempo. Guardate, l’avevamo detto all’inizio di questa sfida, quando ancora in pochi ci credevano, è il nostro tempo.
Noi ci abbiamo creduto davvero e ci abbiamo creduto così forte che abbiamo insieme realizzato questo sogno. Facciamo in modo che sia soltanto l’inizio.
Grazie grazie

 

 

06 – Raffaele K. Salinari *: GOVERNO COLPEVOLE, NEGA IL PRINCIPIO UNIVERSALE DEL SALVATAGGIO IN MARE «NON SPECULATE SU QUESTI MORTI»: ECCO LA SENSIBILITÀ COLPEVOLE DI GIORGIA MELONI CONTRO CHI RIFLETTE SUI REALI CONFINI DELLA DEMOCRAZIA, DA NON CONFINARE ALLA FRONTIERA RUSSO-UCRAINA

Con la sensibilità estrema che lo caratterizzava il poeta R. M. Rilke esprimeva in un sonetto il concetto che qualunque morte ingiusta, quella di un innocente in particolare, emanava una sorta di eco che doveva colpire la nostra sensibilità ottusa da una quotidianità fatta di gesti meccanici, indifferenti a ciò che accade oltre la nostra materialità.

Riflettere sulla morte di chi rischia la vita per una vita migliore, di chi mette in gioco ciò che ha di più caro, i propri figli, il futuro, per ricavarsi uno spazio, seppur angusto, di autodeterminazione, non è speculare sui morti, come ha dichiarato, con colpevole sensibilità, il presidente del Consiglio in queste ore dopo il naufragio sulle coste calabresi, bensì riflettere ancora una volta sui reali confini della democrazia che noi vorremmo non confinata alla frontiera tra Russia ed Ucraina ma senza confini, sconfinata ed inclusiva, a partire da chi chiede aiuto in nome dell’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti: tutti gli esseri umani nascono eguali in dignità e diritti.

Questi sono non i confini ma le radici della democrazia, che non si difendono solo manu militari ma attivando ogni giorno, con scelte politiche, quelle possibilità di renderla percorribile da tutti e per tutti. I naufraghi annegati nel nostro mare, sul bagnasciuga italico da difendere dalle invasioni barbariche, vengono da zone in cui i diritti umani fondamentali sono più che negati, e si imbarcano su vascelli di fortuna gestiti da una criminalità organizzata che, anche mercé il Decreto Piantedosi contro i salvataggi in mare ad opera delle Ong, ha rialzato la cresta, avendo capito che adesso può fare affari d’oro sulla pelle di chi cerca una vita dignitosa.

Le logiche del proibizionismo sono note e sono sempre le stesse: basta rendere illegale qualcosa di necessario ed ecco che il prezzo si alza, e dove ci sono soldi le mafie agiscono con efficienza ed efficacia. Non a caso ciò che produce la plusvalenza maggiore sono le armi, le droghe, e il traffico di esseri umani. D’altra parte, come ha mostrato bene la cosiddetta guerra alla droga degli anno ’80 e ’90 del secolo scorso, il suo indotto produce benefici politici per tutti coloro che vogliono militarizzare una intera società, con la motivazione che certe libertà civili e politiche devono essere ridimensionate per via dello stato di eccezione. Ecco, allora, che il quadro generale si chiarisce ancora di più: non sono certo le Ong il pull factor che si invocava per scoraggiare i migranti dal tentare la sorte, ma intanto si è manomesso un principio universale, quello del salvataggio in mare. Era questo il vero obiettivo, come pure quello di mettere la sordina a chi denuncia le ingiustizie legate ad una iniqua distribuzione delle risorse su scala globale, oggi tacciandoli di voler speculare sui morti in mare.

Ma è difficile negare il fallimento delle politiche di contenimento delle messe migranti, il fatto che i miliardi dati al regime autocratico di Erdogan, che rischia di sbriciolarsi come i palazzi crollati nel terremoto, potessero veramente fare da argine a ciò che mai si potrà impedire, come dimostra questa ultima tragedia.

E allora, di fronte alle vite perdute, vogliamo non solo esprimere il nostro cordoglio ma altresì ricordate come questi drammi sono il frutto malato della crescente insensibilità mostrata da molte nazioni europee e da certi governi in particolare, di fronte ai problemi che affliggono i paesi più esposti alle guerre ed alla povertà. La gestione dei flussi migratori con una logica da ordine pubblico internazionale o, come nel caso dell’Italia, di supposta difesa dei confini nazionali da paventate invasioni straniere, apre naturalmente la strada alla criminalità organizzata che lucra sui divieti alle migrazioni regolari e sull’assenza dal mare e sui confini terrestri delle Ong impegnate nel sostegno ai migranti.

La visione di una «Europa fortezza», ottusa e demagogica, impegnata a difendere i propri privilegi blindando le frontiere, non è solo eticamente inaccettabile ma rappresenta anche la risposta sbagliata all’inverno demografico che attraversa tutto il Continente. La democrazia si costruisce attraverso il rispetto dei Diritti umani, e quello di una migrazione sicura rientra tra quelli fondamentali. Per questo abbiamo lanciato insieme ad un largo gruppo di associazioni la «Campagna 070» per aumentare la quota del nostro Paese destinata alla cooperazione allo sviluppo e, come Ong internazionali impegnate nel rispetto della Carta dei diritti delle Nazioni Unite e degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile, continueremo la nostra opera al fianco di quanti si appellano alla fratellanza, alla giustizia e alla libertà di scegliere il proprio avvenire.
* Portavoce CINI (Coordinam(ento Italiano ONG Internazionali)

 

 

07 – Adam Tooze*: IL CAPITALISMO ALLE BAHAMAS – IL CROLLO DELLA BORSA DI CRIPTOVALUTE FTX HA ATTIRATO L’ATTENZIONE SUL PAESE CARAIBICO, CHE È DA SEMPRE UN LABORATORIO PER LE GRANDI TRASFORMAZIONI DELL’ECONOMIA CAPITALISTICA

Il 3 gennaio, a New York, Sam Bank­man-Fried si è dichiarato non colpevole di una serie di accuse legate al crollo della Ftx, la grande borsa di criptovalute di cui è stato fondatore e amministratore delegato. Il caso è diventato quindi, come spesso accade, una storia statunitense. Le Bahamas, protagoniste degli ultimi giorni della Ftx, sono passate in secondo piano. Ma la torbida relazione tra un’azienda considerata fino a poco tempo prima l’avanguardia della finanza digitale e le Bahamas – un paese di quattrocentomila abitanti sparsi su settecento isole, a ottanta chilometri dalla Florida – non è un fatto accidentale. È la dimostrazione che i Caraibi sono stati a lungo il laboratorio di Frankenstein del capitalismo globale.
La regione è stata la prima al mondo a subire le conseguenze della conquista occidentale e dello schiavismo nelle piantagioni. Nel seicento e nel settecento le Bahamas furono un rifugio leggendario di pirati e contrabbandieri. Il novecento, invece, è stato segnato dall’ascesa della potenza statunitense e dai conflitti legati alla guerra fredda. Più volte il fragile arcipelago è stato devastato da uragani, eruzioni vulcaniche e terremoti, che hanno provocato distruzione, ma hanno anche alimentato l’edilizia e nuove ondate d’investimenti. Ogni anno la spettacolare bellezza dei Caraibi attira milioni di turisti in cerca di spiaggia e sole. Casinò e resort sgomitano tra quello che resta delle piantagioni, le fabbriche chiuse e i porti franchi. Megayacht, motoscafi, navi da crociera, navi mercantili, voli turistici e aerei privati permettono a persone, denaro e beni di circolare liberamente.

I Caraibi sono caratterizzati da forti disuguaglianze. Le Bahamas, con un pil pro capite di trentamila dollari all’anno, sono uno dei paesi a più alto reddito della regione, con sacche di ricchezza estrema, come quella dei dipendenti della Ftx al resort di Albany, sull’isola di New Providence. Allo stesso tempo, il salario minimo nella capitale Nassau, pari a 250 dollari alla settimana, è quello di un paese a reddito medio-basso. Questo però basta ad attirare decine di migliaia di migranti da Haiti, che vivono di stenti nelle baraccopoli spuntate come funghi intorno a ogni città e insediamento delle Bahamas.

Se state cercando di sfuggire alla legge, anche nell’epoca della sorveglianza elettronica, gli isolotti sperduti e gli aeroporti privati dell’arcipelago offrono grandi opportunità per la privacy. Negli anni settanta e ottanta la regione fu inondata dai dollari dei cartelli della droga colombiani. Ma i soldi veri, nell’ordine di migliaia di miliardi di dollari, sbarcano in paesi come le Bahamas grazie a un segreto bancario costruito attentamente e difeso strenuamente. Il modello economico bahamense si fonda su un equilibrio precario tra povertà e ricchezza estreme, in una regione che un tempo era il terreno di battaglia di tensioni geopolitiche e oggi deve affrontare la sfida storica della crisi climatica. I paradisi fiscali e i centri finanziari offshore furono creati per reazione alle imposizioni fiscali e legali del novecento. I primi nacquero in Lussemburgo, nel Liechtenstein e in tutto l’impero britannico tra le due guerre mondiali, quando i ricchi, per la prima volta, avvertirono l’esigenza di proteggere il loro denaro dalla pesante tassazione dei nuovi stati democratici, che dovevano finanziare le spese militari. Le prime società di gestione patrimoniale aprirono a Nassau negli anni trenta ed ebbero un ulteriore impulso negli anni cinquanta, quando i controlli sulle borse e sui capitali spinsero a cercare nuovi modi per spostare il denaro.

Per circolare liberamente, il capitale ha bisogno di una legislazione, cioè deve avere il riconoscimento di un sistema giuridico. Il common law britannico (basato sui precedenti della giurisprudenza) è il più adatto ad amministrare in modo flessibile contratti e diritti di proprietà a livello internazionale. Non è un caso che molti paradisi fiscali si trovino in quelli che un tempo erano avamposti dell’impero britannico.

Ma la legge da sola non basta. Prendiamo la Giamaica: è anglofona e governata dal common law, ma nessuno la considera un paradiso fiscale offshore. Il punto non è solo quale codice giuridico si usa, ma a quali usi può essere piegato. Che probabilità ci sono che possa servire per la tassazione, la regolamentazione o addirittura l’espropriazione? La questione è particolarmente importante in uno stato postcoloniale, dove la maggioranza della popolazione non è solo molto povera, ma discende dagli schiavi. Dopo l’arrivo al potere di Fidel Castro a Cuba, nel 1959, c’era il timore che la proprietà privata nei Caraibi fosse seriamente in pericolo. Quando la Giamaica ottenne l’indipendenza nel 1962, il suo sistema politico era troppo fragile per attirare i grandi capitali internazionali. In tutta la regione la combinazione di nazionalismo, radicalismo nero e socialismo costituiva una miscela esplosiva, e la minaccia della rivoluzione provocò l’intervento aggressivo delle potenze straniere. Per cominciare, quello degli Stati Uniti nella Repubblica Dominicana ai danni dell’impero spagnolo.

Ma neanche i possedimenti britannici erano al riparo. Nel 1983 il regime marxista fratricida di Grenada, in cui ancora teneva banco un governatore generale di nomina britannica, fu rovesciato da un intervento militare guidato dagli Stati Uniti e appoggiato da Barbados, Giamaica e Dominica, tutti e tre ex territori britannici. Il socialismo era stato schiacciato, il common law aveva prevalso, ma i grandi capitali non amano le turbolenze.

Un modo per evitare i pericoli della libertà era restare sotto l’autorità britannica, un’opportunità allettante per le minoranze bianche, che si sentivano minacciate da un governo scelto dalla maggioranza. Oggi i territori d’oltremare hanno assemblee parlamentari e capi di governo, ma c’è un governatore con funzioni di rappresentante locale della monarchia britannica che esercita un controllo sugli affari esteri e su tutto ciò che riguarda gli interessi economici internazionali.


Sia le Isole Vergini Britanniche sia le Bermuda hanno conservato lo status di territori d’oltremare e hanno creato fiorenti centri finanziari offshore considerati tra i più scandalosi rifugi del capitale globale. L’esempio più eclatante, però, sono le isole Cayman, che fino all’indipendenza della Giamaica erano governate da Kingston, ma dopo il 1962 scelsero di restare una colonia e, successivamente, un territorio d’oltremare. Da allora sono diventate il centro internazionale per la registrazione dei fondi speculativi hedge fund. In breve, il denaro globale ha una preferenza dichiarata non solo per il sistema giuridico britannico, ma anche per le comodità del potere imperiale, sia pure in versione ridotta.

In questo scenario le Bahamas sono l’unico caso di stato postcoloniale a maggioranza nera che è anche un centro finanziario di primo piano, tra i grandi paradisi fiscali del mondo. Il vantaggio delle Bahamas è avere sia un sistema politico stabile sia un alto reddito pro capite: per essere precisi, il più alto di qualsiasi stato indipendente a maggioranza nera nel mondo. Tra i grandi paesi caraibici è l’unico che dopo l’indipendenza è riuscito a fare a meno dell’intervento del Fondo monetario internazionale (Fmi).
IMPORTANZA SOPRAVVALUTATA

Si sarebbe tentati d’immaginare un circolo virtuoso, in cui i servizi finanziari offshore generano ricchezza che a sua volta è alla base della stabilità democratica. Questo, però, vorrebbe dire sopravvalutare l’importanza dei servizi finanziari come motore della crescita economica. Nelle Bahamas i servizi finanziari contribuiscono solo al 10-15 per cento del pil e al 2 per cento dell’occupazione. La scarsa incidenza sull’economia locale è una caratteristica specifica della finanza offshore. D’altronde la sua ragion d’essere è eludere il fisco e ridurre al minimo i vincoli territoriali.

MOLTI PARADISI FISCALI SI TROVANO IN PAESI CHE APPARTENEVANO ALL’IMPERO BRITANNICO

In realtà, oltre al fatto di aver ereditato il diritto comune britannico e di aver evitato la spirale della politica rivoluzionaria e controrivoluzionaria, ciò che ha dato al sistema finanziario offshore il privilegio della stabilità politica è stata la ricchezza generata dal turismo e dagli investimenti immobiliari stranieri. Da questo punto di vista, la chiave del successo è stata la vicinanza agli Stati Uniti. Bimini, la catena di isole più a ovest delle Bahamas, si trova ad appena ottanta chilometri da Miami. Se il mare è calmo, si può completare la traversata in un paio d’ore in traghetto o su una barca privata. Il volo da Miami a Nassau dura un’ora. L’80 per cento dei milioni di visitatori che ogni anno arrivano alle Bahamas viene dagli Stati Uniti. La moneta locale, il dollaro bahamense, è agganciata al dollaro statunitense con un cambio di uno a uno. Le catene di fornitura, i prodotti alimentari e il sistema scolastico sono americanizzati. La storia coloniale sarà pure britannica, ma dal 1945 l’influenza predominante è statunitense.

Il turismo e l’edilizia contribuiscono a più del 60 per cento del pil bahamense e producono profonde trasformazioni nel paese. Il turismo è un’attività ad alta intensità di capitale, che richiede miliardi di dollari d’investimenti diretti esteri e l’impiego di una significativa quantità di manodopera. Sono le fortune del turismo e dell’edilizia a rendere le Bahamas un paese sufficientemente stabile da essere anche un centro finanziario offshore attraente. Il residence con attico in cui era rintanata la Ftx non è solo uno sfondo. È una parte essenziale della storia.

Il sistema poggia su un equilibrio molto delicato. L’economia del turismo, come quella finanziaria, è esposta a shock improvvisi e drammatici, ma proprio perché si basa sull’impiego di manodopera locale, grandi infrastrutture e compravendita di terreni – e quindi sulla trasformazione dell’ambiente – provoca conflitti diversi rispetto a quelli generati dall’attività bancaria offshore. Ha a che fare piuttosto con l’incendiaria politica razziale del post-colonialismo, soprattutto nel caso delle Bahamas, a causa della vicinanza non solo alle coste americane ma anche al sud degli Stati Uniti, in cui le battaglie contro la segregazione e i diritti civili hanno storicamente coinciso con il fermento dei movimenti indipendentisti caraibici.

Tra gli anni trenta e i sessanta, prima dell’indipendenza, le élite locali bahamensi e i loro finanziatori stranieri avevano creato un’economia turistica e finanziaria concepita come un’enclave basata sulla segregazione razziale. A Nassau un importante esponente della banda d’affari bianca nota come Bay street boys usò i profitti realizzati con il contrabbando del rum all’epoca del proibizionismo per costruire un muro di tre metri che divideva la parte bianca della città da quella nera. L’atto costitutivo del progetto di sviluppo di un’area di ventimila ettari a Freeport, sull’isola di Grand Bahama, autorizzava i proprietari a gestire in autonomia la loro politica d’immigrazione. Il complesso turistico-industriale era rigidamente segregato. Gli interessi criminali che nel 1959 si spostarono da Cuba alle Bahamas si assicurarono che i tavoli da gioco fossero piantonati dai loro uomini di Las Vegas e Miami.


Tutto questo provocò la resistenza della popolazione locale, che sfociò in un movimento per l’organizzazione del lavoro, i diritti civili, il principio di maggioranza e l’indipendenza, guidato dal Partito liberale progressista (Plp). Nel 1958 questa sfida allo status quo prese la forma di uno sciopero generale guidato dai tassisti. Nel 1960 il Plp si unì al movimento per i diritti civili negli Stati Uniti. Nel 1964 Martin Luther King soggiornò a Bimini per preparare il suo discorso d’accettazione del premio Nobel. Il divo del cinema Sidney Poitier fece campagna per il movimento dei diritti civili sia a Hollywood sia alle Bahamas, dov’era cresciuto. Nel frattempo Londra comunicò che non avrebbe sostenuto un regime bianco di minoranza ormai fuori dalla storia. Nel 1967 il Plp formò il primo governo di maggioranza e nel 1973 portò il paese all’indipendenza.

Con il Plp che invocava lo sviluppo economico e l’emancipazione nera, nel distretto finanziario di Nassau montava il nervosismo. Nel 1967 ci fu una breve fuga dalla moneta bahamense e il timore di un ritiro dei capitali dalle banche di Nassau. Le Bahamas persero il primato finanziario a vantaggio delle Cayman. Nonostante un ambizioso programma di nazionalismo economico, tuttavia, il Plp non fece niente per arginare la finanza offshore. Anche se nel paese arrivavano meno soldi rispetto alle Cayman, i flussi di capitali continuavano a essere enormi. Nel maggio 1976 i prestiti offshore registrati dalle banche statunitensi nei Caraibi erano più di quelli registrati a Londra. Se nel 1965 c’erano appena cinque filiali di banche statunitensi nella regione, nel 1991 erano quattrocento solo nelle Bahamas, con 287 miliardi di dollari di depositi. La vera battaglia per il futuro delle isole, tuttavia, non aveva al centro le banche internazionali o il registro delle imprese, ma l’economia reale del turismo, dei casinò e degli immobili offshore. L’indipendenza coincise con il primo shock del prezzo del petrolio. In nome del suo programma nazionalista, il Plp vietò la vendita di terra agli stranieri e tolse a Freeport il diritto di regolare autonomamente l’immigrazione. Gli investitori statunitensi, che consideravano le Bahamas come un’appendice offshore del sistema razziale del sud degli Stati Uniti, protestarono. Un titolo del New York Times nell’estate 1973 recitava: “L’indipendenza rovinerà la Bahamas?”. Il governo del Plp rispose con un piano nazionale di sviluppo economico, investendo nella costruzione di alberghi e lanciando un programma di formazione per insegnare al personale di servizio locale il modo corretto per accogliere i visitatori statunitensi. Sorridere diventò una priorità nazionale.

Fu, a esser generosi, un successo parziale. Le Bahamas persero turisti a favore della Giamaica e di Puerto Rico, e furono relegate a destinazione per le navi da crociera. Il Plp fu tenuto al potere dall’orgoglio patriottico dei cittadini, ma per il governo aumentavano le difficoltà. L’ala sinistra del partito si staccò per formare un gruppo radicale nero. Sulle isole Abaco, nel nord, i segregazionisti bianchi irriducibili, contrari al governo di maggioranza di Nassau, cominciarono ad addestrare una milizia e provarono anche a reclutare mercenari dagli Stati Uniti in vista di una possibile secessione.

ALLE BAHAMAS LA FINANZA OFFSHORE È SEMPRE RIMASTA LA CILIEGINA SULLA TORTA
Fu in questo scenario che le Bahamas furono inondate da un fiume di denaro, molto più pericoloso per la sovranità del paese. All’inizio degli anni settanta il cartello della droga colombiano di Pablo Escobar prese il controllo del traffico di cocaina dal Perù. Con l’espansione del mercato statunitense, il cartello si rese conto che aveva bisogno di una filiera più efficiente rispetto ai corrieri che attraversavano il confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Le dimensioni della domanda giustificavano l’investimento in una logistica a maggiore intensità di capitale. I motoscafi veloci e gli aerei leggeri che partivano dalle Bahamas erano la soluzione perfetta. Nel 1978 i contrabbandieri legati al cartello di Medellín presero il controllo di un’intera isola, Norman’s Cay, che avevano trasformato in deposito e stazione di rifornimento. Si stima che nel 1988 passasse per le Bahamas tra il 40 e l’80 per cento della cocaina e della marijuana che entravano negli Stati Uniti.

Il flusso dei guadagni del traffico di droga era immenso. Miliardi di dollari sporchi erano riciclati attraverso conti bancari e bonifici. Perfino nelle sperdute Abaco depositi in contanti, conti offshore e ricavi del turismo, dell’edilizia e dei casinò si mescolavano in un potente cocktail. Secondo uno studio del 1979 della Ford foundation, ogni anno si spostavano dagli Stati Uniti alle Bahamas venti miliardi di dollari di guadagni della droga e dell’evasione fiscale. Ancora oggi sarebbe il 200 per cento del pil bahamense. Era un giro d’affari gigantesco, che infatti stimolò una forte ripresa economica. Ma era anche una minaccia per la fragile sovranità di uno stato che aveva appena raggiunto l’indipendenza.

Nel 1980 il primo ministro Lynden Pindling dichiarò che il traffico di cocaina era “la più grande minaccia al tessuto sociale ed economico delle Bahamas. Se non lo fermeremo, ci distruggerà. Il denaro in circolazione è semplicemente troppo”. I cartelli della droga stavano corrompendo il sistema politico bahamense. La coesione sociale era a rischio: la polizia era al soldo dei cartelli, i ragazzi disoccupati cercavano ovunque soldi facili e la tossicodipendenza dilagava. Ma soprattutto, come avrebbero sperimentato in modi diversi Panamá, la Colombia e il Nicaragua, le guerre della droga erano l’anticamera dell’intervento degli Stati Uniti. All’inizio degli anni ottanta non era un segreto che la polizia di Miami spingesse per incriminare e addirittura estradare Pindling, accusato di complicità con i cartelli. Il governo degli Stati Uniti evitò d’intervenire in modo aggressivo, perché Pindling godeva di una straordinaria popolarità ed era un convinto anticomunista. Fu comunque un momento delicato per la stabilità del paese e per le relazioni con gli Stati Uniti, su cui quella stabilità si fondava.

Alla fine dei conti, il crollo della Ftx è stato solo un evento marginale

Cambio di guardia

Alla lunga gli sforzi statunitensi di mettere fine al traffico della droga pagarono. La fine della guerra fredda aveva modificato lo scenario geopolitico della regione. Nel 1992 Pindling e il Plp persero le elezioni, ma ancora prima del cambio della guardia a Nassau le élite delle Bahamas avevano deciso di migliorare la reputazione delle isole. Sotto forti pressioni degli Stati Uniti, dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) e di altre istituzioni internazionali, le banche locali cominciarono, almeno in superficie, ad aumentare la trasparenza e a contrastare il riciclaggio di denaro.

Naturalmente i servizi offshore erano ancora un’ottima fonte di ricavi. E poiché il loro scopo era l’elusione fiscale, gli scandali restarono un fenomeno ricorrente. Tra il 1994 e il 2002 l’ex dittatore cileno Augusto Pinochet riciclò quasi dodici milioni di dollari attraverso due società di comodo alle Bahamas. Nel 2006 le autorità statunitensi incriminarono il presidente di una società d’investimenti offshore con sede alle Bahamas per aver riciclato più di un miliardo di dollari di fondi provenienti dall’evasione fiscale, dal traffico di droga e da frodi finanziarie. Nel 2017 lo scandalo dei Paradise papers ha squarciato il velo sulla proprietà di migliaia di società offshore create dallo studio legale Appleby, con sede nelle Bermuda, per conto di una serie di clienti, tra cui aristocratici europei, oligarchi russi e politici africani.

Le autorità bahamensi non vogliono che il loro paese sia considerato uno stato canaglia, per questo hanno deciso di rispettare almeno superficialmente le regole. Alle critiche dall’estero hanno risposto prendendo misure contro i clienti più sospetti. Il trattato di estradizione che ha permesso di arrestare Bankman-Fried e di consegnarlo agli Stati Uniti è stato firmato nel 1990 e ha segnato una svolta. Dopo essere stata criticata dall’Ocse nel 2000, Nassau ha approvato delle riforme che hanno reso la normativa bancaria più rigida. Le Bahamas hanno anche intensificato la lotta al riciclaggio del denaro: nel 2022, nonostante la vicenda della Ftx, il paese è stato cancellato dalla lista delle giurisdizioni accusate di riciclaggio di denaro e ha ottenuto il punteggio massimo nella classifica della lotta contro i reati finanziari.

Ma la finanza offshore è sempre rimasta la ciliegina sulla torta. I capisaldi dell’economia bahamense sono il turismo e l’edilizia, e il loro rilancio è stato cruciale per la stabilizzazione del paese negli anni novanta. Nel 1992 il nuovo governo di Hubert Ingraham, del Movimento nazionale libero (Fnm), abolì il divieto per i cittadini stranieri di comprare terreni sotto i cinque ettari e cominciò ad assegnare gigantesche concessioni sui terreni pubblici per incentivare il lancio dei cosiddetti “progetti ancora” nell’arcipelago. Il modello è Lyford Cay, primo quartiere di lusso recintato alla periferia di Nassau, poi replicato in tutte le isole in posti come la Baker’s Bay di Great Guana Cay, in cui celebrità come Michael Jordan hanno casa di fronte al mare.

A sinistra: Sam Bankman-Fried a Nassau, 26 aprile 2022; a destra: Harbour Island, Bahamas, gennaio 2020 – Erika P. Rodriguez; Peter Frank Edwards, The New York Times/Contrasto; Redux/ContrastoA sinistra: Sam Bankman-Fried a Nassau, 26 aprile 2022; a destra: Harbour Island, Bahamas, gennaio 2020 (Erika P. Rodriguez; Peter Frank Edwards, The New York Times/Contrasto; Redux/Contrasto)
Nel frattempo a New Providence c’è stato un sorprendente rilancio dell’albergo con casinò. Negli anni sessanta e settanta i motori dello sviluppo del settore alberghiero erano stati le grandi aziende di Las Vegas e Miami.

Negli anni novanta sia i soldi sia l’ispirazione sono arrivati da quella che, a prima vista, sembrava una fonte improbabile: il Sudafrica. Alla fine degli anni settanta nel Bophuthatswana, una sorta di stato-satellite del regime segregazionista di Pretoria, il magnate degli alberghi Sol Kerzner aveva costruito il resort Sun City, sinonimo dello sfarzo più sfrenato e bersaglio dei boicottaggi anti-apartheid. Negli anni novanta, con la fine dell’apartheid e la rimozione delle sanzioni, Kerzner sperava di espandersi e di esportare il suo modello di resort-enclave in Nordamerica. Nel 1994 costruì un grande casinò sui terreni ceduti ai nativi americani mohegan nel Connecticut, a poca distanza da New York e Boston. Sempre nei primi anni novanta comprò una quota del fatiscente resort Paradise Island, alle Bahamas. Dopo un investimento di più di un miliardo di dollari ribattezzò la struttura Atlantis, che diventò il modello di un nuovo tipo di esperienza turistica postmoderna.

Paradise Island fu trasformato in un sito archeologico immaginario che svelava le origini del mito della città perduta di Atlantide. Un’esperienza tematica a tutto tondo si aggiungeva al divertimento e alle emozioni tipiche di un villaggio turistico, portando sui tavoli da gioco e sugli scivoli ad acqua quegli stessi eccessi narrativi che anni dopo le criptovalute avrebbero introdotto nel mondo della finanza. In entrambi i casi non si trattava di un semplice esempio d’ingegneria finanziaria o di infrastruttura turistica, ma di un modo completamente nuovo d’immaginare l’attività finanziaria e quella ricreativa.

A sinistra: Nassau, Bahamas, gennaio 2020; a destra: Eleuthera, Bahamas, gennaio 2020 – Peter Frank Edwards, Redux/Contrasto (2)A sinistra: Nassau, Bahamas, gennaio 2020; a destra: Eleuthera, Bahamas, gennaio 2020 (Peter Frank Edwards, Redux/Contrasto (2))
Leggende a parte, Atlantis diventò in breve tempo la principale fonte privata di occupazione del paese e spinse la crescita delle Bahamas verso nuovi primati. Durante le prime fasi della costruzione del resort, tra il 1994 e il 1998, il pil pro capite aumentò del 56 per cento. Tra il 1994 e il 2002, il 64 per cento degli investimenti diretti provenienti dall’estero e il 40 per cento dei nuovi posti di lavoro erano direttamente collegati al resort.

La fantasia postmoderna di Atlantide fu il volano di una crescita economica reale. Ma questa ricchezza era fortemente esposta agli shock esterni. Gli attentati dell’11 settembre 2001 fermarono il turismo per un paio di stagioni. La guerra internazionale al terrorismo creò una stretta senza precedenti sul riciclaggio di denaro. Ancora una volta le Bahamas si affrettarono a mettersi in regola. L’economia ripartì, ma subì un’altra brusca frenata a causa della crisi finanziaria del 2008. Repubblica Dominicana, Antigua e Barbuda, Giamaica e St. Kitts and Nevis furono costrette a richiedere l’aiuto dell’Fmi. Le Bahamas erano troppo forti per farlo.

Dopo la crescita vertiginosa degli anni novanta e dei primi anni duemila, tuttavia, lo sviluppo si è fermato, Atlantis ha perso smalto, i ricavi dell’attività bancaria offshore sono diminuiti. Il pil pro capite bahamense è tornato ai livelli del 2007 solo nel 2015. In termini di potere d’acquisto la situazione era ancora meno rosea, con un calo del pil pro capite di più del 10 per cento tra il 2007 e il 2017. Nel frattempo la spesa pubblica in sussidi e salari aumentava. Di conseguenza il rapporto tra debito pubblico e pil, che negli anni novanta era inferiore al 30 per cento, nel 2014 ha superato il 73 per cento, sopra la media dei paesi caraibici.

Eleuthera, Bahamas, gennaio 2020 – Peter Frank Edwards, Redux/Contrasto (2)Eleuthera, Bahamas, gennaio 2020 (Peter Frank Edwards, Redux/Contrasto (2))
Patrimoni russi

In cerca di alternative, nel 2014, dopo l’invasione russa della Crimea, le Bahamas sono diventate per un breve periodo l’approdo dei patrimoni russi in fuga dalle sanzioni occidentali e dai tentativi del presidente Vladimir Putin di rimpatriare le fortune degli oligarchi. Questi fondi, tuttavia, sparivano con la stessa velocità con cui erano arrivati. Poco prima del 2020, anche per effetto dell’inserimento nelle liste nere delle autorità straniere, i depositi esteri nelle banche offshore bahamensi diminuivano del 6 per cento all’anno. Dopo la crisi finanziaria del 2008 grandi speranze erano riposte nel progetto di Baha Mar a Cable Beach, un resort di quattrocento ettari finanziato dalla Export-Import Bank of China e da aziende edilizie di Hong Kong. La struttura non ha replicato neanche lontanamente il successo di Atlantis. Dopo una serie di ritardi e un investimento di quattro miliardi di euro, ha aperto solo nel 2017 e ha avuto scarsi risultati.

La crescita dei debiti e la stagnazione del pil hanno messo in allarme le agenzie di rating, che hanno progressivamente declassato il debito pubblico bahamense. Nel 2018, su suggerimento dell’Fmi, le Bahamas si sono impegnate a mantenere il debito pubblico al 50 per cento del pil. È stato un segnale allarmante dell’esigenza di stabilizzare l’economia, per di più accompagnato dalla decisione impopolare d’introdurre un’imposta sulle transazioni. È stato in quel momento che i bahamensi si sono affidati alle criptovalute. La finanza digitale era la magia che serviva per rilanciare il suo stagnante settore dei servizi? I partiti politici hanno salutato l’avvento di una nuova era. Nel 2019 la banca centrale delle Bahamas è stata una delle prime al mondo a lanciare una valuta digitale: il sand dollar. A novembre del 2020 il parlamento ha approvato il Digital assets and registered exchanges bill per disciplinare la registrazione e lo status giuridico dei beni digitali. Nel 2020 le Bahamas erano il paese più all’avanguardia nella regolamentazione delle criptovalute. È uno dei motivi che ha spinto la Ftx a spostarsi lì, ha ammesso Bankman-Fried. L’altro era che Nassau aveva adottato misure anticovid relativamente morbide, un’osservazione che ci ricollega al secondo, in ordine di tempo, dei due disastri che hanno colpito l’economia locale in rapida successione.

Il primo è stato l’uragano Dorian, che si è abbattuto sulle Bahamas nel settembre 2019, provocando danni enormi nelle Abaco e a Grand Bahama, stimati intorno al 25 per cento del pil nazionale. Qualche mese dopo la pandemia ha paralizzato il turismo mondiale. È difficile pensare a una combinazione più micidiale per l’economia dell’arcipelago. Nel 2020 l’aumento della spesa pubblica e un crollo del 16 per cento del pil hanno portato il rapporto tra debito pubblico e pil oltre il 100 per cento. Il governo del Plp, entrato in carica nel 2021, ha cercato di mantenere i nervi saldi. La rapida riapertura post-covid apprezzata da Bank­man-Fried faceva parte di un tentativo di attirare i dollari del turismo, rilanciare il pil e rendere più gestibile il peso del debito pubblico. Ma nel 2022, con lo shock dell’aumento del prezzo del petrolio e dei prodotti alimentari, e l’impennata dei tassi d’interesse statunitensi, la spavalderia di Nassau si è sgonfiata. Gli esperti locali, ormai, parlano in tono rassegnato di un imminente intervento dell’Fmi.

È stata questa catastrofica serie di shock a rendere così irresistibilmente allettante la prospettiva di ospitare la Ftx, forte all’epoca di una valutazione superiore ai 25 miliardi di dollari. Non era la solita operazione offshore lontana da occhi indiscreti o l’ennesimo miliardario che comprava un’isola di nascosto. L’arrivo della Ftx nel settembre 2021, poco prima che il bitcoin raggiungesse il valore record di 66mila dollari, è stato accolto da una vera e propria festa nazionale. Nell’aprile 2022 il primo ministro Philip Davis è andato a stringere la mano a Bankman-Fried e ha dato inizio ai lavori per i futuri uffici della Ftx a Nassau. La nuova sede dell’azienda, proclamava Davis a giugno, doveva diventare “uno spazio in grado di rivaleggiare con il campus di Google”.

Ma non sono state solo le autorità locali a farsi ammaliare. Bankman-Fried è riuscito ad attirare alle Bahamas l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e l’ex premier britannico Tony Blair, oltre a una serie di personalità di Wall street. La Ftx ha messo in piedi uno spettacolo, una specie di parco tematico per ricchi, che però si è trasformato in un disastro di proporzioni imbarazzanti.

DA SAPERE – IL MERCATO DEL LAVORO
Tasso di disoccupazione delle Bahamas, % – Fonte: IloTasso di disoccupazione delle Bahamas, % (Fonte: Ilo)
Per le Bahamas, alla fine dei conti, la Ftx è stata solo un evento marginale, l’ennesimo progetto, l’ultimo dei tanti investimenti stranieri falliti. Come hanno dichiarato le agenzie di rating, il fallimento dell’azienda non ha avuto alcun effetto sulla valutazione del debito pubblico del paese. Il fatto che sia stato investito tutto questo capitale politico nel progetto è di per sé stesso un trionfo della speranza sul buon senso. Quello che conta, per le Bahamas, è la continua crescita del turismo e del settore immobiliare. Ed entrambi dipendono da che tempo fa.

Quando c’è il sole e soffia il vento, si è tentati di liquidare anche disastri economici gravi come una questione di sfortuna. In fondo la pandemia è partita dalla lontana Cina, e l’isteria che si è scatenata a livello mondiale si è dimostrata esagerata. Dorian è stato una catastrofe, ma nei Caraibi gli uragani sono la norma. Ci sono stati danni e distruzione, ma i miliardi di dollari di risarcimento pagati dalle assicurazioni hanno tenuto in piedi la bilancia dei pagamenti. Di fronte alle calamità naturali il capitalismo continua a funzionare. Anzi, gli ingranaggi girano ancora più velocemente.

DA SAPERE – LA RIPRESA DALLA PANDEMIA
Variazione del pil delle Bahamas, % – Fonte: banca mondiale/OcseVariazione del pil delle Bahamas, % (Fonte: banca mondiale/Ocse)
Questa narrazione è confortante, ma vale fino a un certo punto. Dorian è un fenomeno nuovo e minaccioso: una tempesta che si è abbattuta sull’arcipelago con venti di trecento chilometri all’ora, generando decine di tornado e scatenando forze ancora più violente. È stato uno dei peggiori uragani mai registrati nell’emisfero occidentale, che ha stazionato nell’area per un periodo insolitamente lungo, seminando distruzione per quasi 48 ore. Il bilancio delle vittime è stato contenuto solo perché l’uragano ha colpito isole poco densamente popolate, e le persone sono state avvertite con un sufficiente preavviso. Molte vittime haitiane senza documenti non sono state conteggiate.

Fenomeni di questo tipo diventeranno più frequenti. Siamo nell’era dell’antropocene, e per i Caraibi è una minaccia mortale. Se Dorian avesse colpito New Providence, in cui risiedono due terzi della popolazione, l’esistenza delle Bahamas sarebbe stata messa a rischio. Ma l’avvertimento più grave è l’aumento del livello del mare: l’arcipelago, formato da affioramenti vulcanici e barriere coralline, ora è uno dei luoghi più vulnerabili al mondo.

Agli incontri annuali delle Nazioni Unite sul clima i Caraibi sono una voce importante. Nel 1994 Barbados ospitò la prima Conferenza globale sullo sviluppo sostenibile dei piccoli stati insulari, che definì una nuova categoria di paesi a rischio. Oggi le Bahamas e Barbados rappresentano due facce opposte della risposta dei Caraibi alla crisi climatica: Barbados, che ha un debito pubblico più alto, ha promosso la Bridgetown initiative, per creare un’architettura finanziaria capace di mettere a disposizione centinaia di miliardi di dollari di fondi contro le crisi e investimenti per l’adattamento climatico nei paesi in via di sviluppo più vulnerabili. Le Bahamas, invece, vedono nel cambiamento climatico un’opportunità per l’ennesima operazione d’ingegneria finanziaria: metteranno sul mercato i cosiddetti crediti di carbonio blu, basati sulla capacità di assorbimento degli ecosistemi costieri di mangrovie ed erba marina che circondano l’arcipelago. Gli inquinatori globali potranno comprare questi crediti, compensando le loro emissioni e assicurando alle Bahamas una fonte di ricavi.

Ma se c’è una cosa che la storia delle Bahamas insegna è che questi piani sono spesso una chimera. Non si risolve il problema del clima spostando da un punto all’altro il diritto a inquinare, così come non si sfama una nazione con la finanza offshore. Non che la finanza sia irrilevante: ai Caraibi serve un’assicurazione, sia privata sia pubblica. La decisione presa all’ultimo vertice sul clima di creare un fondo globale per le perdite e i danni a cui possano attingere i paesi vittime della crisi climatica è un passo nella direzione giusta. Tutto questo, però, deve tradursi sul campo nella preparazione e nell’adattamento delle persone e dei territori. Una delle eredità della disuguaglianza economica e della discriminazione razziale è che il 90 per cento dei bahamensi non ha mai preso lezioni di nuoto. Questo ha avuto conseguenze tragiche quando Dorian ha lasciato migliaia di persone nell’acqua fino al collo.

Man mano che le magnifiche acque e il clima caldo e ventoso diventano più instabili e pericolosi, l’unica cosa che può sostenere i paesi emersi dall’impero britannico nella seconda metà del novecento è un piano di preparazione e resistenza ai disastri, che richiederà nuovi investimenti pubblici. Per questo il delicato equilibrio tra finanza offshore e turismo di lusso che ha caratterizzato le Bahamas e i suoi vicini più ricchi nel primo mezzo secolo dalla loro indipendenza non basterà. ◆ fas
*(Adam Tooze è uno storico britannico. Insegna alla Columbia University, negli Stati Uniti. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è L’anno del rinoceronte grigio (Feltrinelli 2021). Questo articolo è uscito sul numero 1501 di Internazionale)

 

 

08 – Irene Doda*: BARCELLONA VUOLE TASSARE LE CONSEGNE IN CITTÀ. LA CITTÀ DI BARCELLONA VUOLE SPERIMENTARE UN NUOVO MODO DI COMBATTERE IL TRAFFICO, ASSICURANDO ALLO STESSO TEMPO UNA FORMA DI GIUSTIZIA FISCALE: ATTRAVERSO UNA TASSA PER LE COMPAGNIE DI CONSEGNE A DOMICILIO E DELIVERY.
Le aziende di e-commerce che utilizzano gli spazi pubblici e che dichiarano un turnover di oltre un milione di euro all’anno dovranno pagare una tassa dell’1,25% sui loro ricavi. Al momento ci sono circa ventisei compagnie che rientrerebbero tra i soggetti tassabili: cinque di queste, tra cui Amazon, DHL e UPS, sono responsabili di oltre il sessanta per cento delle consegne a domicilio. Al progetto è stata data l’approvazione definitiva alcuni giorni fa.

Secondo quanto dichiarato dai suoi promotori, la tassa, già da molti definita Amazon tax, dovrebbe generare un introito per le casse cittadine di oltre due milioni di euro all’anno. Il denaro raccolto dovrebbe essere reinvestito in supporto ai negozi fisici e alle attività di commercio locali. Tra gli obiettivi della policy c’è quello di spingere le persone a uscire di casa per acquistare i prodotti di cui hanno bisogno, oppure di ritirarli presso punti specifici.

Secondo Jaume Collboni, il vicesindaco del capoluogo catalano, la legge avrà sia un effetto sulla mobilità sostenibile, incentivando gli spostamenti a piedi e riducendo il traffico di mezzi a motore, sia una ricaduta positiva in termini di equità fiscale. L’amministrazione intende “evitare la discriminazione tra le condizioni fiscali delle imprese locali e le piattaforme di e-commerce – che fino ad ora praticamente non hanno pagato le tasse comunali.”.
“Né il consumatore finale, né il piccolo fattorino autonomo, né i servizi di consegna nei punti di ritiro come biglietterie o negozi saranno tassati”, ha aggiunto Collboni.
La tassa è stata annunciata lo scorso dicembre, e i grandi operatori logistici non hanno esitato a protestare. Il gruppo spagnolo di rappresentanza industriale UNO Logistica, di cui Amazon fa parte, ha definito l’operazione della città di Barcellona “discriminatoria”.
L’esperimento è ancora agli inizi. Tuttavia, altre città potrebbero seguire le orme di Barcellona. David Belliard, vicesindaco di Parigi con delega alla mobilità e ai trasporti, ha parlato della possibilità di un “eco-contributo” di alcuni centesimi per pacco da far pagare ai colossi del commercio digitale. L’idea di una misura di policy che migliori la mobilità cittadina e restituisca, almeno in parte, i proventi dell’ecommerce alla comunità locale appare sempre più allettante per le metropoli europee.
*(a cura di: Irene Doda, vive a Forlì e lavora come scrittrice e giornalista freelance. Si occupa di lavoro, tecnologia e questioni di genere; spesso di tutte e tre queste cose insieme. Ha scritto per Wired, Singola, Il Tascabile e altre riviste online e cartacee)

09 – Stefania Cella*: BIDEN: PIANO DELLA CINA? “VANTAGGIOSO SOLO PER RUSSIA”. SECONDO IL PRESIDENTE AMERICANO JOE BIDEN IL PIANO PROPOSTO DA PECHINO SAREBBE IRRAZIONALE E “VANTAGGIOSO SOLO PER LA RUSSIA”.
Continua la guerra tra Russia e Ucraina. Recentemente il conflitto è piombato in una situazione di stallo dove nessuno dei due Paesi è intenzionato a fare un passo indietro. Da parte sua, la Russia ribadisce la sua supremazia in alcuni territori ucraini. L’Ucraina in questa situazione non abbandona la linea e continua a difendere i suoi territori.

IL, 24 febbraio 2023, la guerra tra Russia e Ucraina ha segnato un anno esatto. In questa situazione la Cina ha proposto alcuni negoziati, che sono stati successivamente bocciato dall’Europa. Anche Biden si è detto contro il piano della Cina: “Se Putin lo applaude come può ritenersi buono?” dice alla Bbc.

Secondo il presidente degli Stati Uniti che ha respinto il piano di pace proposto dalla Cina per porre fine alla guerra in Ucraina, la proposta non sarebbe adeguata in quanto avvantaggerebbe solo la Russia. “Se Putin lo applaude come potrebbe ritenersi buono?”. Sono queste le parole del presidente Joe Biden in occasione di un’intervista alla Abc News.

E prosegue asserendo: “Non ho visto nulla nel piano che indichi che ci sia qualcosa che sarebbe vantaggioso per chiunque non sia la Russia”. Ma oltre alle polemiche sul documento di pace proposto da Pechino, Biden ha anche escluso la possibilità che la Cina potesse negoziare la pace durante la guerra. La proposta del Paese sarebbe – a detta di Biden – del tutto irrazionale.

LA FORNITURA DI JET MILITARI
Per quanto riguarda l’invio di jet militari, discusso in occasione dell’incontro con il G7, Biden ha per il momento escluso la possibilità di fornirli. “No, non ha bisogno degli F-16 adesso”, dichiara Biden quando i giornalisti gli hanno chiesto delucidazioni circa un eventuale fornitura. Biden: “escludo per ora” la fornitura di F-16. “Stiamo inviando ciò di cui i nostri esperti militari ritengono abbia bisogno in questo momento. Ha bisogno di carri armati, ha bisogno di artiglieria, ha bisogno di difesa aerea, incluso un altro himars

 

 

10 – Alberto Fraccacreta*: CULTURA – LIUDMYLA DJADCHENKO, LA SCONFITTA DELLA VITA NEL GIOCO CONTRO IL TEMPO. L’INTERVISTA. PARLA LA POETESSA UCRAINA CHE TERRÀ OGGI UNA «LECTIO» A FIRENZE NEL GIORNO DELL’ANNIVERSARIO DELL’INVASIONE RUSSA. «LO SCORSO ANNO HO SMESSO DI SCRIVERE: IMMAGINI E METAFORE MI SEMBRAVANO INSULSE E FALSE E I MIEI SENTIMENTI ERANO SPARITI. HO PROVATO PAURA, IMPOTENZA E DISPERAZIONE»

Liudmyla Djadchenko è una delle giovani poetesse più talentuose d’Ucraina. Residente a Kiev, vicepresidente dell’Associazione degli scrittori ucraini, è autrice di un paio di sillogi, i cui testi principali – con alcuni inediti – sono ora tradotti da Paolo Galvagni nell’antologia La fobia dei numeri (Interno Poesia, pp. 128, euro 15,00). La lirica di Djadchenko ha un sostrato junghiano ed è fortemente spiritualistica, pur nella concretezza del dettato. Non mancano cenni accesi di rivendicazione d’identità con riferimenti all’Odissea, al Vangelo, al samsara.
Come dichiara la poetessa in una lettera acclusa all’edizione italiana: «Dall’inizio dell’invasione militare su larga scala da parte della Russia sul territorio ucraino, lo scorso anno, ho smesso di scrivere poesie: immagini e metafore mi sono apparse all’improvviso insulse e false, e i miei sentimenti sono spariti, per via della terribile realtà che mi circondava (…). Ho provato paura, impotenza e disperazione. E dolore totale: per il mio popolo, che viene colpito dal nemico, e per la mia terra e le mie città, che vengono distrutte dalle bombe russe».
Vincitrice della 67/a edizione del premio Ceppo Internazionale «Piero Bigongiari» (a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi), oggi, a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, Djadchenko terrà una lectio a Firenze nella sala del Gonfalone del Consiglio regionale della Toscana. Ha risposto con sorprendente solerzia alle nostre domande, nonostante fosse «in viaggio per l’Italia» e, «a causa della guerra», la strada si dimostrasse «lunga e tortuosa».
La poetessa ucraina Ljudmyla Djadcenko
«La fobia dei numeri». A cosa si riferisce esattamente questo verso, che è anche il titolo della raccolta pubblicata qui in Italia?
Per quanto riguarda la poesia specifica, si tratta ovviamente della paura del tempo, degli anni che hanno un’espressione numerica. Pensavo che l’età e l’invecchiare fossero avvertiti maggiormente dalle donne ma, parlando con i miei amici maschi più anziani, mi sono resa conto che tutti ricordavano con nostalgia la giovinezza, e si riferivano alla senilità come sorte avversa. Così, la «fobia dei numeri» che «da domani come nebbia penzoleranno» è un accenno di vita sulle rive del tempo. Ci sono tentativi di accettare questa paura attraverso l’autoironia («in silenzio li guardo – spavento vicendevole»).
Tuttavia, nel finale del testo, si può ancora rintracciare l’umiltà nei confronti di questi numeri e la solitudine che implicitamente accompagna sempre la vecchiaia: ecco perché il soggetto lirico della citata poesia sparge briciole per gli uccelli, in modo che almeno qualcuno rompa la solitudine e il silenzio con un suono. Noi arriviamo in questa vita da soli e la lasciamo soli. Un atto assolutamente individuale. Gabriel García Márquez ha scritto che «il segreto per invecchiare bene è aver fatto un patto di onestà con la solitudine». Per quanto concerne il titolo del libro, mi piace come si adatta alle varie sfumature semantiche: è la paura della precisione (certezza numerica), la mancanza di opzioni, che nuoce alla poesia e all’arte in generale (del resto, l’arte è sempre la ricchezza d’interpretazione di un’immagine); oppure la cognizione di una sconfitta contro il tempo e il suo innegabile dominio; oppure l’arte come tentativo di fissarsi nel reale. Nella lingua ucraina c’è un sinonimo di solitudine, che è formato dal valore numerico «uno». Possiamo dire che in questo caso la paura dei numeri è anche paura della solitudine. La vita è forse il gioco di una persona con il tempo, alla fine del quale il tempo vince.

Qual è il suo rapporto con la spiritualità?
A volte mi sembra che tutta la poesia – questo monologo rivolto a sé stessi – sia in realtà una delle forme di conoscenza del mondo e di Dio. Sì, sono attratta dalla religione fin dalla tenera età, ma ora ho una diversa percezione della dimensione spirituale. Credo che sia necessario uscire dal sistema dualistico: il mondo intero è una simbiosi di gamme graduali differenti. Il significato di una determinata cosa non è sempre in sé, ma al di fuori di essa (ad esempio, un giornale ha un senso preciso quando c’è qualcuno che lo legge). Bene, gli scienziati sono stati in grado di infrangere il principio di località: le parti del fotone sono state separate e allontanate l’una dall’altra, e hanno continuato a interagire. Quando gli scienziati hanno calcolato la velocità del trasferimento delle informazioni tra i fotoni, essa era cento volte maggiore della velocità della luce. Mi pare che questa sia la stessa idea della Bibbia: il mondo è una singola entità. Il peccato dell’uomo è che ha cominciato a percepire il mondo e sé stesso in maniera frammentaria, cioè divisa. Finché le diverse denominazioni «competeranno» tra loro, si allontaneranno da Dio, dall’amore, mentre la spiritualità riguarda proprio l’identificazione di sé stessi con gli altri.

Anche il «tu» è molto presente nei suoi testi. Che consistenza spirituale e materiale ha?
Si può dire che il «tu» si manifesta nelle mie poesie in tre diversi aspetti: come persona vicina (un potenziale oggetto lirico indirizzato dal soggetto lirico); come Dio; e molto spesso come un’altra faccia di sé stessi. È una sorta di pratica di sé nell’«altro». Senza l’«altro» la persona non può conoscersi, l’«altro» è la capacità di modificare il proprio io e di proiettarsi nel destinatario. Mi piace il modello semiotico-strutturalista che si ritrova, in particolare, negli scritti di Umberto Eco e che ci ha suggerito di guardare all’interazione tra il lettore e l’autore come un processo in cui l’altro, cioè il lettore, ravvisa il suo vero io in nuove circostanze. Con le parole della mia poesia: «amare è spargere sé stessi nello spazio / raffigurando nomi d’altri».

È nata a Morynci, lo stesso paese di Taras Sevchenko. Cosa significa questo poeta per l’identità ucraina?
Così come Dante è il «padre» della lingua italiana, Sevchenko è il creatore della moderna lingua letteraria ucraina. Lo chiamerò anche il creatore dell’identità ucraina e della nazione ucraina tout court. Lui non voleva essere un «piccolo russo» (la Piccola Rus’ è il nome di alcune terre ucraine conquistate nel periodo zarista, ndr) e lo ha dichiarato, rinunciando ai privilegi dell’Impero russo, quando gli altri nostri intellettuali hanno accettato silenziosamente tali condizioni. A quanto mi risulta, Sevchenko è il primo prigioniero politico dello stato russo, esiliato per dieci anni in Kazakistan con il divieto dello zar di scrivere e dipingere.
Tuttavia, gli anziani kazaki gli hanno permesso di dipingere i loro santuari. Ora questi disegni, acqueforti, acquerelli decorano i musei d’arte in Kazakistan. Inoltre, a Taras Sevchenko è stato permesso di scolpire lapidi musulmane nella pietra, e ha educato molti figli dei kazaki. Il governo a quel tempo vedeva nelle sue poesie (che erano sia satira politica, sia appelli rivoluzionari per il cambiamento nel sistema politico e sociale, sia poesie storiche) una minaccia per consolidare le opinioni sulla possibilità che l’Ucraina fosse uno stato indipendente, e combatté contro esso. Sfortunatamente, la mia gente deve ancora lottare per la libertà, e non solo per sé stessa.
*( Alberto Fraccacreta è nato a Foggia nel 1989. È iscritto al terzo anno di Dottorato in Italianistica presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata)

 

 

11 – ANTONIO PIEMONTESE*: LA GUERRA IN UCRAINA COSTA ALL’AMBIENTE 51 MILIARDI. DALLO SVERSAMENTO DI SOSTANZE CHIMICHE ALLE MINE ANTIUOMO FINO AI PROBLEMI FUTURI DEI TERRENI AGRICOLI: IL VICEMINISTRO UCRAINO PER LA PROTEZIONE AMBIENTALE SPIEGA LE CONSEGUENZE DEL CONFLITTO PER GLI ECOSISTEMI.
Un anno dopo l’invasione l’Ucraina è un paese da ricostruire.
Non solo nelle città. I danni ambientali si faranno sentire a lungo, dice a Wired il viceministro alla Protezione ambientale e alle risorse naturali Ruslan Hrechanyk, in collegamento video da Kyiv. Hrechanyk ha avuto un passato da ingegnere forestale prima di arrivare nella squadra di governo. “I russi compiono crimini di guerra tutti i giorni violando le regole internazionali, compreso il protocollo di Ginevra – spiega il politico – I danni causati dall’invasione secondo i nostri calcoli sono superiori a 51 miliardi di dollari, una stima peraltro in costante crescita. Abbiamo registrato più di 2.300 casi di crimini ambientali. Oltre un terzo di tutte le nostre foreste sono state coinvolte nelle ostilità, con danno che valutiamo attorno ai 500 milioni di dollari”.
Circa 4.500 attacchi informatici nel 2022, più del triplo rispetto all’anno prima. Bombardamenti coordinati con infezioni malware e ddos per aumentare i danni dell’offensiva. Le infrastrutture energetiche nel mirino. I dati di un anno di conflitto informatico scatenato da Mosca contro Kyiv
I DANNI ALLE RISORSE IDRICHE
Non solo. “Stimiamo che i danni alle nostre risorse idriche ammontino a 1,5 miliardi di dollari. Anche l’ecosistema marino risente del conflitto: il carburante delle navi affondate viene sversato in acqua e ci sono stati segnalati più di mille casi di delfini morti nel mar Nero, non solo nei pressi delle nostre coste, ma anche in quelle delle regioni confinanti. Sulla base delle rilevazioni che abbiamo a disposizione, i decessi aumentano in coincidenza con il lancio dei missili da parte dei sottomarini di Putin”, prosegue il politico.
Nell’ottobre scorso, a Mykolaiv, un attacco con droni ha danneggiato i serbatoi di uno dei maggiori produttori di olio di semi di girasole del Paese. Il liquido è finito nell’estuario del fiume Bug, prima di venire aspirato. Il personale dei parchi nazionali è ancora in servizio, annota Hrechanyk, anche se non sono aperti al pubblico per motivi di sicurezza. “Ma oltre cinquemila esperti sono stati precettati e arruolati nelle forze armate. E oggi nel Paese c’è scarsità di personale competente”, dice il viceministro.
IL PROBLEMA DEL NUCLEARE
Chiediamo: Kyiv è in grado di gestire centrali atomiche e relative scorie al momento? Per Hrechanyk “la Russia viola tutte le possibili regole di sicurezza nucleare. La situazione del sito attorno all’impianto più grande d’Europa, quello di Zaporizhzhia, non è controllabile. Con un atto terroristico, Mosca ha distrutto le paratie della centrale idroelettrica di Kachovka, causando un drastico calo nel reservoir che serve a raffreddarlo. Al momento, il livello dell’acqua è di 13,8 metri, contro i sedici necessari: nei giorni scorsi siamo scesi fino a 13,6 metri. Si rischia un incidente simile a quello di Fukushima, che, sulla base della direzione dei venti, potrebbe coinvolgere anche l’Europa. Ma c’è anche il National Science Centre del Kharkhiv Institute of Physics and Technology, dotato di un piccolo reattore costruito per scopi scientifici: i Russi lo bombardano regolarmente con azioni mirate. Al momento è impossibile ripararlo del tutto”.
“Non credete alle bugie”, il tweet pubblicato dal presidente ucraino Volodymyr Zelelsky il 26 febbraio 2022 dal centro di Kyiv, a seguito delle fake news diffuse dalla Russia su una sua possibile fuga e resa
LA GUERRA IN UCRAINA NON CI INTERESSA PIÙ
Lo dimostra un’analisi dei canali social del presidente ucraino Volodymyr Zelensky: l’opinione pubblica si è assuefatta al racconto quotidiano del conflitto e non si interessa più
IL PAESE PIÙ MINATO DEL MONDO
Hrechanyk si dice sicuro della vittoria finale. Ma l’incognita più grande per il futuro, racconta, è un’altra: l’Ucraina, al momento, è il Paese più minato del mondo. Quanto ci vorrà a sminarlo? “Gli specialisti dei servizi di emergenza statali lavorano senza sosta, ma possono liberare al massimo quindici ettari di territorio al giorno. È un’impresa ciclopica; una corsa contro il tempo per preparare il rientro agli otto milioni di rifugiati, mentre le truppe di Mosca continuano a posizionare ordigni”, dice. Secondo il ministero (che cita il rapporto Agribusiness in Ukraine), il 15% del territorio agricolo è contaminato da mine. Gli sversamenti di petrolio e quella di metalli pesanti, come quelli contenuti in missili e granate, potrebbero condurre alla temporanea impossibilità di coltivare. Per quanto riguarda le macerie degli edifici colpiti dai bombardamenti, i dati in possesso del ministero dicono che il volume è paragonabile a quello dei rifiuti domestici prodotti dall’intero Paese nel corso di un anno. Il governo sta approntando procedure per gestirli: vengono portati dagli enti locali in centri temporanei dove le componenti pericolose sono separate. Va notato che la gestione dei rifiuti è tema complesso già in tempo di pace; con un conflitto in corso, le maglie dei controlli, formalmente ancora presenti, si allentano molto.
UN PROTOCOLLO CONTRO I DANNI AMBIENTALI
Kiev diffonde regolarmente i dati dell’impatto ambientale della guerra secondo una metodologia di calcolo sviluppata internamente, afferma Hrechanyk, e c’è senz’altro l’intenzione di toccare le corde dell’emotività su un tema che, in questi anni, sta a cuore alle opinioni pubbliche. Ma la tutela degli ecosistemi in caso di conflitto rientra nei trattati internazionali dal 1977, quando a Ginevra si siglò la Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente a fini militari o ad ogni altro scopo ostile, entrata in vigore l’anno seguente. Il movente fu la preoccupazione per le conseguenze dell’impiego dell’Agente Arancio in Vietnam. Al trattato si giunse dopo una fase preliminarte di dialogo tra il presidente americano Richard Nixon e il segretario generale del Partito comunista sovietico Leonid Breznev a metà decennio. Un documento che ha mostrato limiti pesanti: anche perché a completare l’iter di firme e ratifiche necessarie è stata meno della metà dei membri delle Nazioni unite. Questo, assieme ai distinguo tipici della diplomazia, l’hanno reso uno strumento di bandiera, un’arma spuntata, difficile da impugnare. E si sa che, in caso di guerra, le promesse valgono ancora meno.
*(Fonte: Wired. Antonio Piemontese, giornalista professionista. Dopo gli inizi in cronaca, si occupa prevalentemente di economia per Wired)

 

 

12 – M. Berner, Heike Buchter, Ann-Kathrin Nezik,*: IL LAVORO SICURO NON SI TROVA CON GOOGLE. I COLOSSI DELLA SILICON VALLEY SEMBRAVANO NON DOVER MAI SMETTERE DI CRESCERE E DI ASSUMERE PERSONE. MA NEGLI ULTIMI MESI HANNO TAGLIATO MIGLIAIA DI POSTI DI LAVORO.

Per quasi quattro anni Steve, uno sviluppatore di software, ha dato tutto se stesso al lavoro: passava il tempo libero ad affinare le sue competenze e riteneva di essere uno dei dipendenti più efficienti della sede di Google di New York, negli Stati Uniti, un pilastro dell’azienda. È per questo che, a metà gennaio, quando ha visto quella notifica comparirgli sullo schermo, ha pensato a un errore. L’account che usava per entrare nella rete aziendale da casa risultava bloccato. Poi, però, è andato su internet e ha letto che Google aveva licenziato dodicimila dipendenti in tutto il mondo, un fatto senza precedenti nei suoi venticinque anni di storia. “Mentre fissavo lo schermo del portatile ho realizzato di essere uno di quelli”, racconta Steve, 29 anni, che ha chiesto di non svelare il suo cognome. In sottofondo si sente la figlia di quattro mesi che piagnucola. Anche la moglie di Steve, Allie, che come lui ha 29 anni e per Google si occupava di marketing, è stata licenziata e per giunta nel bel mezzo del congedo di maternità. “Senza preavviso e senza spiegazioni”, precisa. Ora vogliono mettersi in proprio aprendo un’azienda per creare animazioni video.

Dall’oggi al domani Steve e Allie hanno perso una serie di cose che negli Stati Uniti non sono affatto scontate: un lavoro ben pagato, l’assicurazione sanitaria e il diritto a otto mesi di congedo parentale retribuito, oltre alla certezza di far parte di un’azienda in cui le cose potevano solo migliorare.

Licenziamenti nel settore tecnologico statunitense – fonte: the wall street journalLicenziamenti nel settore tecnologico statunitense (fonte: the wall street journal)
Ma i tempi sono cambiati e non solo per Google. Nelle ultime settimane decine di aziende tecnologiche hanno licenziato migliaia di persone. Ha cominciato la casa madre di Facebook, la Meta, che a novembre ha mandato via undicimila dipendenti. Poi a gennaio Amazon ha tagliato diciottomila posti di lavoro. Poi si sono aggiunti Spotify, la Salesforce, Twitter e la Microsoft, che hanno cacciato altre migliaia di lavoratori. “I software stanno divorando il mondo”. All’inizio del 2023 la leggendaria frase di Marc Andreessen secondo cui il digitale avrebbe schiacciato tutto il resto sembra ormai superata.

Che succede? All’improvviso le star della Silicon valley – quelle aziende che non sbagliavano mai un colpo e che per anni hanno fatto profitti enormi battendo tutti i record in borsa – sembrano aver perso il tocco magico. Come mai? E perché stanno usando metodi che si addicono all’economia tradizionale, non certo ad aziende che si sono sempre vantate di essere migliori e più creative?

Dopo l’annuncio dei licenziamenti, Google ha pubblicato un post sul blog ufficiale dell’azienda in cui l’amministratore delegato Sundar Pichai parla della necessità di “rivedere la base dei costi”. Qualche giorno prima, Andy Jassy, l’amministratore delegato di Amazon, in una sua dichiarazione aveva usato una formula molto simile. Ormai gli amministratori delegati delle aziende tecnologiche parlano la lingua di Wall street. Qualche anno fa le cose non stavano ancora così. Quando Google è approdato in borsa, nel 2004, il suo motto era don’ t be evil, non essere cattivo. Il motore di ricerca riusciva a ignorare le leggi di Wall street, investiva miliardi in progetti sperimentali e per anni non ha pagato dividendi agli azionisti. Mark Zuckerberg, il fondatore della Meta, ha mantenuto il controllo dell’azienda anche dopo la quotazione in borsa, attribuendo diritti speciali di voto alle azioni in suo possesso.

Gli investitori hanno accettato tutto questo anche perché, nel corso degli anni, le quotazioni hanno continuato a crescere in modo esponenziale. Ma ora le grandi aziende tecnologiche, a lungo considerate immuni da attacchi ostili, sono entrate nel mirino di investitori cosiddetti attivisti, che si battevano per influenzarne la gestione e aumentarne la redditività. A Wall street li paragonano agli squali richiamati dall’odore del sangue. Alla fine di gennaio è entrato nel capitale dell’azienda di software Salesforce il fondo d’investimento Elliott, probabilmente l’investitore attivista più famigerato al mondo. In passato aveva preso di mira la tedesca ThyssenKrupp. Su Google, invece, ha fatto pressione il gestore di fondi speculativi Christopher Hohn. In una lettera a Pichai, il manager ha scritto che l’azienda aveva troppi dipendenti, e che tra l’altro erano pagati troppo: lo stipendio medio è di trecentomila dollari all’anno. Due mesi dopo Pichai ha ceduto.

Tra le cause di questa situazione c’è anche il comportamento delle banche centrali

La vita online

Per capire come sia stato possibile arrivare a questo punto bisogna fare un passo indietro. Tre anni fa, nel marzo 2020, il covid-19 si è diffuso in tutto il mondo e la vita di miliardi di persone si è trasferita online, a tutto vantaggio delle aziende tecnologiche. Le vendite online di Amazon sono esplose e lo stesso è successo con le entrate pubblicitarie di Google e della Meta, visto che ovunque negozi e ristoranti si erano messi a comprare spazi pubblicitari per sopravvivere al lockdown. Per due anni il fatturato di queste aziende è cresciuto rapidamente e, in parallelo, ci sono state assunzioni di massa: dall’aprile 2020 al settembre 2022 il numero dei dipendenti di Google è cresciuto di 64mila unità, mentre Amazon nello stesso periodo ha quasi raddoppiato il numero dei dipendenti, arrivando a 1,5 milioni.

Durante la pandemia il club dei colossi tecnologici statunitensi, un tempo relativamente piccolo, è cresciuto esponenzialmente, finché l’aumento dei costi per la forza lavoro non ha superato quello del fatturato e dei profitti. E poi in borsa le cose hanno cominciato ad andare male: nell’ultimo anno le azioni di Google, Amazon, Meta, Microsoft e Apple hanno perso più di tremila miliardi di euro in totale. Pichai nel suo post ha spiegato che in una “realtà economica diversa” erano stati assunti molti dipendenti in più e ha promesso, restando sul vago, che avrebbe rimodulato le “priorità”.

E allora risulta ancora più sorprendente il fatto che dietro ai licenziamenti non sembra esserci alcuna strategia: Google ha mandato via dipendenti del settore delle finanze, delle risorse umane e del marketing, ma anche molti programmatori. Sono stati cacciati lavoratori di lunga data e nuovi assunti. L’unica cosa che hanno in comune tutte queste persone è che il licenziamento è arrivato come un fulmine a ciel sereno.

Uno sviluppatore racconta che, non molto tempo prima, aveva chiesto al suo capo se, visti i licenziamenti nelle altre aziende, doveva preoccuparsi. La risposta è stata “certo che no”: il suo era un progetto troppo importante. Eppure, solo poche settimane dopo, gli è stato comunicato che doveva andarsene, per email. Oggetto: “Comunicazione in merito al tuo rapporto di lavoro”.

“Mi identificavo moltissimo con l’azienda”, spiega lo sviluppatore, che racconta quanto fosse fiero di appartenere alla cerchia dei googler, come si definiscono i dipendenti della multinazionale, e di essere uno di quelli che ce l’avevano fatta nella Silicon valley. Ora deve accettare l’idea che, quando troverà un nuovo lavoro, lo stipendio sarà più basso: ormai ci sono troppi sviluppatori sul mercato.

Lo scoppio della bolla

Cosa vuole ottenere Google, che fa ancora profitti miliardari, licenziando migliaia di dipendenti? I profitti del terzo trimestre del 2022 ammontavano a 14 miliardi di dollari, su un fatturato di 69 miliardi. Molte aziende cifre del genere neanche se le sognano. E allora perché licenziare? A 3.500 chilometri dalla Silicon valley una donna, che forse conosce la risposta a questa domanda, parla al telefono con Die Zeit. Kim Forrest, 60 anni, ha fondato la Bokeh Capital Partners, una società di investimenti di Pittsburgh. Prima di passare alla finanza, anche lei sviluppava software. Forrest ricorda ancora molto bene i primi anni duemila, il periodo in cui lo scoppio della bolla di internet mandò in bancarotta tantissime aziende tecnologiche. Secondo lei, questa volta non andrà così male. “All’epoca molte aziende non avevano un modello efficace”. Oggi invece le cose stanno diversamente. Tuttavia, Forrest assiste clienti alle prese con una decisione difficile: comprare o vendere, restare o fuggire a gambe levate dalle azioni di Google, Meta e Amazon?

Licenziamenti nel settore tecnologico statunitense – fonte: the wall street journalLicenziamenti nel settore tecnologico statunitense (fonte: the wall street journal)
Forrest non è molto ottimista. “Le persone hanno voglia di tornare al ristorante e di provarsi un paio di scarpe prima di comprarle”, dice. Più di così queste aziende non possono crescere e per gli investitori al momento sono bloccate in una sorta di terra di nessuno: hanno perso capacità di attrazione agli occhi di chi puntava su quotazioni in forte crescita, mentre chi setaccia Wall street in cerca di occasioni comprando azioni di aziende sottovalutate, non si fida più di loro, neanche quando assicurano che la smetteranno di bruciare tutti quei miliardi.

Tra le cause di questa pessima situazione c’è anche il comportamento delle banche centrali. Per anni hanno mantenuto tassi d’interesse vicini allo zero, alimentando l’euforia per i titoli tecnologici: per moltiplicare il denaro dei clienti, i fondi pensione, le fondazioni e le assicurazioni non potevano far altro che comprare azioni. Poi, all’inizio del 2022, per frenare l’inflazione le banche centrali hanno messo improvvisamente fine all’epoca dei tassi d’interesse bassi. Molte cose che avevano contribuito ad alimentare l’industria tecnologica sono diventate difficili: acquisizioni miliardarie finanziate con crediti a basso costo e la pratica commerciale di accaparrarsi il maggior numero possibile di clienti anche a costo di perdite.

Guardando ai bilanci di queste aziende, inoltre, ci si rende conto del fatto che dipendono da un numero molto ristretto di prodotti: i profitti di Google, proprio come quelli della Meta, derivano soprattutto dalle inserzioni pubblicitarie. Ma che succede se la crisi economica spinge le aziende a tagliare i fondi destinati alla pubblicità? E se i politici europei dovessero mettere in atto il loro progetto di bloccare i flussi di dati su cui si basano le campagne mirate?

Google ha tante idee nuove, ma poche sono anche redditizie. E per quanto riguarda quella che probabilmente è la più importante tecnologia del futuro, l’intelligenza artificiale, l’azienda arranca. Nell’autunno 2022 è uscito ChatGpt, un chatbot della startup OpenAi capace di rispondere a qualsiasi domanda: nonostante qualche difetto, è un perfetto motore di ricerca. C’è un unico problema: il maggior finanziatore di questa tecnologia non è Google, ma la Microsoft.

Ora il motore di ricerca californiano vorrebbe recuperare il terreno perso nel minor tempo possibile e per questo pare che siano tornati alla carica anche i fondatori, Larry Page e Sergey Brin, che si erano ritirati tre anni fa e che ora, dietro le quinte, porterebbero avanti personalmente una campagna per l’intelligenza artificiale. Forse perché non danno abbastanza credito a Pichai, un manager efficiente più che visionario.

Per Pichai, stretto com’è tra interessi diversi, è una situazione difficile. Da un lato dovrebbe rischiare, cioè investire nell’intelligenza artificiale anche se i profitti non si vedranno prima di qualche anno. Dall’altro, però, c’è Wall street, che preme per i tagli. Christopher Hohn, per esempio, vorrebbe convincerlo a licenziare altre 25mila persone.

Il problema è che l’umore è a terra. Da quando c’è stata l’ondata di licenziamenti, diverse migliaia di dipendenti ed ex dipendenti di Google si ritrovano sulla piattaforma di messaggistica Discord per sfogare rabbia e delusione. “Ho perso ogni motivazione”, scrive uno di quelli rimasti. “Io non riesco a combinare niente, fisso lo schermo e basta”, dice un altro. Il 2 febbraio, davanti alla sede newyorchese di Google, hanno organizzato una manifestazione: “Googler contro l’avidità”.
*( M. Berner, Heike Buchter, Ann-Kathrin Nezik, Die Zeit, Germania – Questo articolo è uscito sul numero 1500 di Internazionale)

 

 

13 – Cos’è il decreto milleproroghe* – È UN DECRETO LEGGE CON CUI IL GOVERNO DISPONE IL RINVIO DI DETERMINATE SCADENZE. NEGLI ANNI I SETTORI DI INTERVENTO DI QUESTO STRUMENTO SONO DIVENTATI SEMPRE PIÙ VASTI, PORTANDO ANCHE A DEGLI ABUSI.

Con il termine “milleproroghe” si fa riferimento a un decreto legge che il governo emana solitamente una volta all’anno. Il contenuto di tale norma prevede il rinvio di scadenze o dell’entrata in vigore di alcune disposizioni il cui mancato rispetto potrebbe provocare gravi problemi per cittadini, imprese e istituzioni. La funzione del decreto è quindi quella di affrontare con un unico atto una serie di termini che altrimenti dovrebbero essere trattati e risolti separatamente.
Ad esempio, il decreto per il 2023 prevede tra le altre cose:
• la proroga delle autorizzazioni all’assunzione di personale all’interno di diverse agenzie e strutture ministeriali;
• la proroga del termine per la presentazione della dichiarazione Imu da parte degli enti non commerciali;
• la proroga dell’esenzione dall’obbligo di fatturazione elettronica per gli operatori sanitari;
• la proroga dell’aggiudicazione dei lavori per gli interventi su asili e scuole dell’infanzia finanziati con il Pnrr;
• la proroga della possibilità per i pubblici esercizi di piazzare dehors sul suolo pubblico;
• il prolungamento fino al 2025 del contratto di espansione (una misura di sostegno alle imprese in difficoltà finanziarie e tesa a facilitare l’esodo anticipato verso la pensione del personale);
• il rinvio del divieto di circolazione per i mezzi Euro 2 del trasporto pubblico locale.

Oltre ai rinvii delle scadenze il milleproroghe, come tutti i decreti legge, può prevedere anche l’introduzione di nuove misure. Nel decreto per il 2023 ad esempio si autorizza l’erogazione delle risorse di un fondo da 10 milioni di euro istituito dalla legge di bilancio per il 2022 a favore dei proprietari di abitazioni non utilizzabili a causa dell’occupazione abusiva.
Come illustrato dal dossier della camera relativo al decreto del 2018, tale atto venne adottato per la prima volta nel 2001 e da allora è divenuto una consuetudine. Secondo una parte della letteratura in materia tuttavia, norme assimilabili al milleproroghe erano già presenti negli anni novanta.
Trattandosi di un decreto legge a tutti gli effetti, come gli altri atti di questo tipo deve essere convertito in legge dal parlamento entro 60 giorni dalla sua pubblicazione. In caso contrario le norme in esso contenute decadono.
Col passare del tempo i settori di intervento su cui si va ad intervenire tramite questo strumento sono andati aumentando. Ciò però ha portato anche a degli effetti collaterali. Durante l’iter di conversione in parlamento infatti spesso il decreto milleproroghe si è arricchito di un ulteriore carico di norme che rispecchiavano le sensibilità e gli interessi dei partiti.

DATI . Come detto, l’utilizzo abituale di questo strumento può essere fatto risalire al 2001. Da allora infatti ne è stato pubblicato almeno uno tutti gli anni. Fanno eccezione il 2003, il 2004 ed il 2006 dove i Dl di questo tipo sono stati 2. Mentre nel 2017 e nel 2019 non ne è stato pubblicato nessuno. Nel 2018 però il decreto uscì a luglio.

Un altro elemento degno di nota riguarda il fatto che, dalla sua introduzione, il decreto milleproroghe ha affrontato un numero crescente di questioni. Una parziale conferma di questa tendenza la possiamo trovare analizzando il numero di articoli contenuto in ogni decreto di questo tipo.
Osservando l’andamento delle ultime legislature infatti, notiamo che questo dato (salvo alcune eccezioni) è stato via via crescente. Fino a raggiungere il picco di 82 articoli nel 2020. Negli ultimi anni invece l’ampiezza del decreto, pur restando consistente, è diminuita. Nel 2021 infatti il milleproroghe contava 37 articoli, nel 2022 invece erano 49. L’ultimo atto emanato ne contiene 46. Un numero comunque significativo se si considera che il primo atto di questo tipo ne contava appena 9.

ANALISI
La natura di questo strumento e la mancanza di una regolamentazione organica sul suo utilizzo (parliamo infatti di un decreto legge sui generis) ha portato nel tempo anche a degli abusi. Con problemi sia di natura tecnica che politica.

I problemi di natura tecnica riguardano i limiti che vincolano l’utilizzo del decreto legge. Si dovrebbe poter fare ricorso a questo strumento infatti solo in caso di necessità e urgenza e i suoi contenuti dovrebbero essere omogenei tra loro. Con il milleproroghe invece si interviene in settori anche molto diversi il cui unico elemento comune è la necessità di rinviare le scadenze. Per questo si è parlato di un atto omnibus, una norma cioè dal contenuto estremamente eterogeneo.

Sul tema è intervenuta la corte costituzionale che ha riconosciuto la legittimità dello strumento ma ha posto alcuni importanti paletti.

[Il decreto milleproroghe deve] obbedire alla ratio unitaria di intervenire con urgenza sulla scadenza di termini il cui decorso sarebbe dannoso per interessi ritenuti rilevanti dal governo e dal parlamento.

– Corte costituzionale, sentenza 22 del 2012
Strettamente legati a questo tema vi sono anche i problemi di natura politica. Spesso infatti con il milleproroghe si è scelto di affrontare questioni spinose che non necessariamente prevedevano una scadenza temporale. Ma che, a causa delle pressioni da parte dell’opinione pubblica e dei gruppi di interesse, sarebbe stato più difficile affrontare singolarmente.

SPESSO IL DECRETO MILLEPROROGHE È STATO SFRUTTATO PER FAR APPROVARE LE NORME PIÙ CONTROVERSE.

Per citare un esempio di questo tipo, con il decreto per il 2023 è stato disposto l’ennesimo rinvio sull’adeguamento dell’Italia alla cosiddetta direttiva Bolkestein. Tale norma prevede che i servizi pubblici e le concessioni siano affidati a privati solo per mezzo di una gara pubblica. Per l’Italia in particolare i problemi hanno riguardato le concessioni balneari, più volte prorogate anche dopo l’entrata in vigore della direttiva. Ciò peraltro ha comportato l’apertura da parte delle istituzioni europee di diverse procedure di infrazione a carico del nostro paese.
Della questione si era occupato da ultimo il governo Draghi attraverso la legge annuale sulla concorrenza per il 2021. Questa norma, che peraltro rientra tra le riforme previste dal piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), prevede sostanzialmente la conclusione delle attuali concessioni balneari entro la fine del 2023. È prevista poi un’eventuale proroga di un anno.

Durante l’iter parlamentare di conversione del decreto milleproroghe però sono stati approvati alcuni emendamenti che intervengono proprio su questo fronte. Sostanzialmente la scadenza delle concessioni viene allungata al 2024 mentre il termine ultimo per l’espletamento delle procedure di gara slitta al 2025.

Questa scelta non ha mancato di destare polemiche. A questo proposito però occorre precisare che la proroga delle concessioni non è in contrasto con il Pnrr. Il piano infatti prevede l’attuazione con cadenza annuale di una legge volta a facilitare la concorrenza e il libero mercato. Tuttavia non ci sono vincoli sui contenuti di questa norma. Le country specific recommendations per il 2019 e il 2020, che sono state la base per la definizione dei Pnrr, infanti non contengono indicazioni a proposito delle concessioni balneari.

La liberalizzazione del settore «non è formalmente inserita» nel piano nazionale per la ripresa […]. A una prima occhiata eventuali ritardi nell’attuazione degli interventi attesi non sembrerebbero incidere sui soldi europei del recovery fund. Ma nel più ampio insieme di impegni per la competitività il tema si potrebbe porre.

– Emanuele Bonini, Concessioni balneari: l’Italia sotto la lente di ingrandimento della Commissione Europea. La Stampa (23 gennaio 2023).
Al di là del Pnrr comunque occorre ricordare che è tuttora in corso una procedura di infrazione a carico del nostro paese e la situazione in questo senso potrebbe aggravarsi se non si giungerà a una soluzione su questo fronte. Lo stesso presidente della repubblica ha censurato questo nuovo rinvio e ha chiesto ulteriori interventi in materia da parte di governo e parlamento. Anche la commissione europea inoltre ha annunciato di stare studiando il provvedimento al fine di valutare eventuali incompatibilità con il diritto comunitario.
*(Fonte: Openpolis. – decreti legge, Governo e Parlamento Dove: parlamento)

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