n°42 – 22/10/2022. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI

00 – Norma Rangeri*: adesso comincia l’incubo. Sconfitta noi di sinistra, come ogni cittadino democratico e antifascista, dobbiamo chiederci come mai siamo stati sconfitti tanto duramente, per quali ragioni ci ritroviamo la destra al potere, perché non siamo riusciti a diventare una maggioranza solida, credibile, duratura.
01 – Kevin Carbone*: Come si forma il nuovo governo. Deputati e senatori devono riunirsi per eleggere i presidenti delle Camere. Si passa alla fase delle consultazioni del presidente della Repubblica. Poi la nomina del presidente del Consiglio e dei ministri e il voto di fiducia
02- Bruno Montesano*: IL commento della settimana. Due postfascisti. Il primo ha un passato prossimo fascista, il secondo – già ministro nel Conte I – ha appoggiato pubblicamente i neonazisti di Alba Dorata definendoli guerrieri. Che discorso fanno due presidenti delle camere post-fascisti? Un discorso che porta alle estreme conseguenze il senso comune nazionalista prodotto da centro, centrosinistra e centrodestra.
03 – La guerra e le sue verità*: il paradosso dei generali italiani che dimostrano più buon senso e una visione più corretta della guerra del 99% dei politici.
04 – Fabio Salamida *: abituiamoci a vedere Camera e Senato sempre “deserti”, un nuovo governo. Con i deputati passati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, gli emicicli della Camera e del Senato sono sembrati vuoti anche durante le operazioni di voto per eleggere i due presidenti, ma in questo caso l’assenteismo non c’entra.
05 – Luca Zorloni*: La pessima idea di non avere un ministero dell’Innovazione e del digitale. Il governo rinuncia alla delega che è stata di Paola Pisano e Vittorio Colao negli ultimi governi. Nonostante i miliardi che il Pnrr assegna al digitale e le sfide tecnologiche strategiche per l’Italia.
06 – Andrea Carugati*: opposizioni in ordine sparso. Fratoianni: manca solo il ministero delle corporazioni.
07 – BREXIT. Pierre Haski*: La fine di Liz Truss e delle illusioni della Brexit. La storia ricorderà il mandato di Liz Truss come il più breve tra quelli dei 56 capi del governo che si sono alternati alla guida del Regno Unito, nonché come il più triste.
08 – Pierre Haski*: Parigi e Berlino moltiplicano i contrasti sui temi europei La metafora desueta della “coppia” è perfettamente calzante rispetto ai rapporti franco-tedeschi degli ultimi decenni. Dunque quando un appuntamento viene annullato all’ultimo minuto è naturale preoccuparsi e chiedere se qualcosa non vada
09 – Claudio Tito *: Vertice Ue sull’energia, raggiunta un’intesa in extremis. Draghi: “Accolte tutte le proposte dell’Italia. Così bollette più basse”. Von der Leyen: “Ora dobbiamo mettere in pratica l’accordo. 40 miliardi di fondi di coesione saranno destinati a sostenere le imprese”. Sì agli acquisti comuni, spiraglio sul fondo Sure.
10 – Andrea Fabozzi*: Al Quirinale per denunciare il disastro del Rosatellum. Le consultazioni Sul Colle sfilano le opposizioni. Letta, Calenda e anche Conte sollevano preoccupazioni per la linea del nuovo governo dopo le uscite di Berlusconi invocando fedeltà atlantica ed europeismo. Sinistra e +Europa sollevano con Mattarella il problema legge elettorale incostituzionale e chiedono di non aspettare per cambiarla Il bello, o il brutto, viene oggi.
11 – Antonio Di Grado*: Pasolini e Sciascia, gli anticonformisti. Anniversari «Cent’anni di solitudine», il simposio a Racalmuto sulla generazione 1921-’25 che si terrà nel fine settimana, indaga l’epoca dei due scrittori, il loro sodalizio e le voci degli altri, da Calvino a Danilo Dolci fino a Goliarda Sapienza Leonardo Sciascia nasce nel 1921, Pasolini nel ’22.
12 – Gianni Trovati S&P conferma rating BBB Italia con Outlook stabile. L’agenzia conferma la tripla B dopo aver avvertito sui rischi di rallentamento del Pnrr. Incognita debito sugli spazi fiscali della manovra. L’agenzia Moody’s conferma il rating ’Aa3’ della Gran Bretagna ma rivede al ribasso l’Outlook a ’negativo’
13 – Notizie dal mondo

 

 

00 – Norma Rangeri*: ADESSO COMINCIA L’INCUBO. SCONFITTA NOI DI SINISTRA, COME OGNI CITTADINO DEMOCRATICO E ANTIFASCISTA, DOBBIAMO CHIEDERCI COME MAI SIAMO STATI SCONFITTI TANTO DURAMENTE, PER QUALI RAGIONI CI RITROVIAMO LA DESTRA AL POTERE, PERCHÉ NON SIAMO RIUSCITI A DIVENTARE UNA MAGGIORANZA SOLIDA, CREDIBILE, DURATURA.

Per chi è di sinistra, l’immagine di una ex missina che sale al Colle per ricevere dal presidente Mattarella l’incarico di formare il nuovo governo, è una sorta di shock politico e culturale. Nessuno, fino a qualche tempo fa, avrebbe mai potuto presagire un avvenimento così devastante per la storia di un Paese che affonda le proprie radici nella Resistenza al nazifascismo.
Ancora oggi, con tutti i rituali che accompagnano la presa del potere da parte della destra, sembra di aver fatto un brutto sogno e di vivere un orrendo risveglio.
Perfino alcuni esponenti della maggioranza, fascisti non pentiti, non credono alla realtà del passaggio dal Colle Oppio (nota sede di fasci picchiatori di Roma), al governo. Ma questo è.
Dobbiamo prenderne atto, non stiamo dentro il set di un orribile film Fanta-politico.
Giorgia Meloni sarà il prossimo presidente del Consiglio, sostenuta da una maggioranza solida, da un gruppo di fedelissimi nei ruoli chiave della compagine, nonostante i balletti ministeriali degli ultimi giorni, e le temerarie, comiche, patetiche uscite del Cavaliere, pronto a tutto per strappare la luce dei riflettori, e difendere il patrimonio familiare.
Si è molto discusso poi sul significato, storico per il nostro arretrato paese, della nomina di una donna alla guida di Palazzo Chigi. Ma, almeno in questo caso, la differenza di genere ha contato nulla.
Perché la giovane Meloni non ha mai messo le donne al centro dell’attività del e nel suo partito. Semmai, c’è da temere che proprio sui diritti conquistati dalle donne, si faranno drammatici passi indietro.
Tuttavia le va riconosciuta una notevole capacità politica che la colloca sicuramente al di sopra dei suoi alleati, Salvini e Berlusconi. E, grazie ai numeri parlamentari, Meloni potrà esercitare una leadership probabilmente anche più duratura rispetto ai partner di maggioranza.
Il tempo ci dirà molte cose, anche se già parla chiaro il lessico autarchico usato per cambiare i nomi di alcuni ministeri (“Famiglia e natalità”, “Agricoltura e sovranità alimentare”, “Delle imprese e del Made in Italy), e di segno liberista (“Istruzione e merito”).
Con gli impegni programmatici che seguiranno, capiremo quale direzione prenderà il Paese sul piano economico, sociale, internazionale (indigesto mix di atlantismo e puntinismo).
E sul piano costituzionale, quando questa destra (che nulla ha a che fare con le destre liberali di altri Paesi), metterà mano alla Costituzione, cambiandola in senso presidenzialista e del regionalismo censitario.
Lo shock iniziale non può, non deve essere superato come fosse soltanto uno stordimento momentaneo. Noi di sinistra, come ogni cittadino democratico e antifascista, dobbiamo chiederci come mai siamo stati sconfitti tanto duramente, per quali ragioni ci ritroviamo la destra al potere, perché non siamo riusciti a diventare una maggioranza solida, credibile, duratura.
In tanti hanno perso fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”.
Tanti, troppi lavoratori non riconoscono più nei partiti democratici uno “scudo” protettivo. E tanti, troppi giovani non vedono la sinistra come forza propulsiva, in grado di offrire un futuro, una speranza.
Dovremo capire perché il nostro mondo stia vivendo un dramma tanto profondo, quasi esistenziale.
Ma dovremo anche impegnarci a contrastare, giorno per giorno, le parole, gli atti, i comportamenti di chi crede solo nel vecchio motto della Casa delle libertà di guzzantiana memoria. La libertà non già nei diritti di tutti, con qualunque colore della pelle, orientamento sessuale, condizione sociale.Saranno tempi duri. Ma metteremo tutto l’impegno per non morire reazionari.
*(Fonte: Il Manifesto. Norma Rangeri, giornalista direttore del Il Manifesto)

 

01 – Kevin Carbone*: COME SI FORMA IL NUOVO GOVERNO. DEPUTATI E SENATORI DEVONO RIUNIRSI PER ELEGGERE I PRESIDENTI DELLE CAMERE. SI PASSA ALLA FASE DELLE CONSULTAZIONI DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA. POI LA NOMINA DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO E DEI MINISTRI E IL VOTO DI FIDUCIA

Sono passati quasi venti giorni dalle elezioni politiche del 25 settembre, cioè il limite massimo entro il quale le nuove Camere devono riunirsi per avviare la nuova legislatura e, successivamente alle consultazioni del presidente della Repubblica per scegliere il capo del governo, i ministri, i viceministri e i sottosegretari, votare la fiducia se c’è una maggioranza. Il procedimento incomincerà il 13 ottobre e potrebbe concludersi al più presto il 21 ottobre, con il voto di fiducia.

Il combinato disposto tra la legge elettorale che fu voluta da Renzi e il taglio dei parlamentari messo in atto dal Movimento 5 Stelle rischia di rendere meno efficienti e più lente le commissioni parlamentari, rallentando ulteriormente l’iter delle leggi.

PREMESSE
L’Italia è una repubblica parlamentare, in cui la cittadinanza elegge i membri del Parlamento i quali poi scelgono il governo. Prima del presidente del Consiglio si trovano, in ordine, il presidente della Repubblica, quello del Senato e quello della Camera. Il primo è eletto ogni sette anni dal Parlamento, mentre gli altri due, detentori della funzione legislativa, sono votati dalle rispettive Camere ogni inizio legislatura. In base all’articolo 92 della Costituzione, invece “il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Presidente del Consiglio e ministri formano l’esecutivo, che deve ricevere il voto di fiducia del Parlamento per poter entrare in carica.

IL PRIMO PASSAGGIO: PRESIDENTI DELLE CAMERE E GRUPPI PARLAMENTARI
Come prima cosa devono costituirsi le Camere e i gruppi parlamentari. Deputati e senatori sono convocati il 13 ottobre per l’elezione dei rispettivi presidenti, anche se non è detto che ci si riesca in un solo giorno. Il voto avviene a scrutinio segreto e prevede soglie di maggioranza diverse. Il regolamento della Camera richiede una maggioranza di due terzi dell’assemblea alla prima votazione, mentre basta la maggioranza di due terzi dei votanti nella seconda e terza votazione. Dalla quarta è invece sufficiente la maggioranza assoluta dei voti. Se non ci si arriva si prosegue a votare.

AL SENATO È RICHIESTA LA MAGGIORANZA ASSOLUTA dei componenti l’assemblea nelle prime due votazioni e quella dei votanti nella terza. Se nessuno la raggiunge, si procede al ballottaggio tra i due candidati più votati nell’ultimo scrutinio. Considerando tutte le variabili, anche solo per questo passaggio preliminare potrebbero servire anche un paio di giorni, perché il voto segreto concede anche alle forze di coalizione di bloccare una candidatura poco gradita per spingere su una più favorevole, senza ripercussioni.

Dopo l’elezione dei presidenti i parlamentari dovranno dichiarare necessariamente a quale gruppo vogliono iscriversi, con un termine di pochi giorni dalla prima seduta. Solo a quel punto, i presidenti eletti potranno convocare una seconda riunione per l’elezione dell’ufficio di presidenza, che rappresenta i gruppi parlamentari. Tutti questi passaggi dovrebbero essere conclusi entro la settimana successiva, cioè quella del 17 ottobre.

I RISULTATI DELLE ELEZIONI 2022. CALA IL NUMERO DI DONNE IN PARLAMENTO
Deputate e senatrici elette sono il 31% del totale rispetto al 35,3% della passata legislatura. Tra i partiti più grandi, Fratelli d’Italia ha fatto eleggere meno donne di tutti: solo 50 per 185 seggi conquistati

IL SECONDO PASSAGGIO: LE CONSULTAZIONI
Tutti questi passaggi sono necessari per avviare il procedimento di formazione del governo con le consultazioni da parte del presidente della Repubblica, che riceve i presidenti d’assemblea (i primi soggetti a essere consultati) e i rappresentanti dei gruppi (spesso insieme ai segretari di partito). Le consultazioni, che sono una procedura informale e non normata in Costituzione, servono per saggiare l’esistenza di una effettiva maggioranza pronta a sostenere il nuovo esecutivo.

IL TERZO PASSAGGIO: CONFERIMENTO DELL’INCARICO AL NUOVO GOVERNO
Terminate le consultazioni, si passa al conferimento dell’incarico a costituire il governo. I tempi dipendono dall’esistenza di una maggioranza sufficiente a dare una solida fiducia all’esecutivo. Nel caso attuale, i partiti di destra hanno la maggioranza assoluta in entrambe le camere e, a parte dispute sui ministeri, non dovrebbero esserci particolari problemi.

Solitamente, la persona incaricata dal presidente della Repubblica, che può essere anche una persona non eletta, accetta con riserva, cioè svolge delle proprie consultazioni per verificare a sua volta la tenuta della maggioranza e calibrare programma e composizione dell’esecutivo. Una volta terminate le consultazioni, il presidente del Consiglio incaricato torna al Quirinale per sciogliere la riserva e presentare la lista dei ministri.

Questo passaggio non porta automaticamente alla formazione del governo, perché il capo dello Stato può chiedere sostituzioni o cambi di dicastero, come successo nel caso del rifiuto da parte del presidente Sergio Mattarella di nominare Paolo Savona come ministro del Tesoro nel 2018. I presidenti della Repubblica intervengono sia in negativo, cioè bloccando delle nomine, sia in positivo, cioè proponendo personalità ritenute utili.

I PARADOSSI DELL’ASSEGNAZIONE DEI SEGGI IN PARLAMENTO CON IL ROSATELLUM
Alla Camera Lega e Pd avranno lo stesso numero di scranni, pur avendo il primo partito preso circa la metà dei voti del secondo. Così il concetto di governabilità schiaccia quello di rappresentanza
Il quarto passaggio: le nomine
Una volta formata la lista dei ministri si passa alle nomine ufficiali, da parte del presidente della Repubblica, del presidente del Consiglio e dei ministri, che giurano fedeltà alla Costituzione italiana. A seguito del giuramento avviene la cerimonia della campanella, che inaugura l’insediamento del nuovo esecutivo con il passaggio di poteri dal governo uscente. A questo punto l’esecutivo potrà presentarsi alle Camere per ottenere la fiducia.

IL QUINTO PASSAGGIO: IL VOTO DI FIDUCIA
Dopo il giuramento e il passaggio di poteri, il nuovo governo deve presentarsi in Parlamento, entro dieci giorni dal decreto di nomina, per ottenere la fiducia di entrambe le camere. Prima del voto, è uso comune che il Presidente incaricato giuri fedeltà alla Repubblica pronunciando le seguenti parole: “giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della nazione”
*(Fonte: Wired. Kevin Carbone, giornalista)

 

02- Bruno Montesano*: IL COMMENTO DELLA SETTIMANA DUE POSTFASCISTI. IL PRIMO HA UN PASSATO PROSSIMO FASCISTA, IL SECONDO – GIÀ MINISTRO NEL CONTE I – HA APPOGGIATO PUBBLICAMENTE I NEONAZISTI DI ALBA DORATA DEFINENDOLI GUERRIERI. CHE DISCORSO FANNO DUE PRESIDENTI DELLE CAMERE POST-FASCISTI? UN DISCORSO CHE PORTA ALLE ESTREME CONSEGUENZE IL SENSO COMUNE NAZIONALISTA PRODOTTO DA CENTRO, CENTROSINISTRA E CENTRODESTRA.
Fontana, ha ripetuto diverse banalità da uomo delle istituzioni che supera le parzialità che vanno composte nella assemblea legislativa. Il parlamento deve riconquistare margini di azione contro la decretazione d’emergenza del potere esecutivo – e, intuiamo, contro l’espropriazione di sovranità da parte di organi sovranazionali e poteri oscuri.
Dietro Fontana, c’è il fantasma del discorso sostanzialmente antisemita dell’antiglobalismo di destra. Così verrebbe da interpretare le sue parole, alla luce di quanto andava dicendo fino a poco fa, mettendo insieme, ad esempio, problemi demografici e piani di sostituzione etnica. La diversità di cui ha parlato rovescia quella attribuita a stranieri è teorici gender” in una distopia comunitaria. La diversità italiana è unica e va preservata, secondo la logica del razzismo differenzia lista e culturale, contro altre costruzioni valoriali “omogenizzanti”, “monolitiche” che negano il diritto alla differenza. Conviene a tutti che nessuno si sposti dal paese dove gli è capitato di nascere
Similmente, ma non del tutto, oltre ai probabili voti dell’estremo centro liberale, La Russa ne ha ripreso i temi, a lungo presenti nel dibattito pubblico e istituzionale. Anzitutto, l’interventismo umanitario, che passa per la glorificazione delle forze armate e dell’ordine. I soldati portano la pace “in punta di fucile”.
Correlato del complesso militare-industriale, è l’apparato umanitario. In quest’ottica anche un ex dirigente del Msi può dirsi disposto ad accogliere, non solo i profughi ucraini, ma “tutti i profughi” in fuga dalla guerra. Che vanno accolti – selettivamente – “con onore”.

Nella melassa sulla storia patria “condivisa”, La Russa rifonda le origini della comunità a partire dal Regno di Italia. Nella sua ricostruzione delle origini della comunità nazionale – costante problema per chi voglia incarnare il popolo -, fascisti e antifascisti pari sono. Tatarella, Msi, vale così quanto il partigiano Pertini.

Egualmente, Fausto e Iai si equivalgono con Ramelli. Non come vite spezzate in gioventù, ma perché le loro scelte di valore sono neutre rispetto alla storia nazionale (e non repubblicana). In questa prospettiva, la violenza gioca un ruolo strategico.

Solo quella legittima dello stato – in qualunque intensità e forma – è accettabile. Quella della società – e dell’economia – va amministrata evitando che ricada su donne e bambini – e disabili ha aggiunto Fontana. Nessuna parola per omosessuali, transgender e persone oggetto di razzismo o antisemitismo.

Ovviamente. C’è spazio anche per un’apparente sensibilità al tema del lavoro povero e delle morti bianche, in particolare dei giovani, nel discorso di entrambi i post-fascisti.

Il patriottismo è il secondo tema. Il soggetto che Fratelli d’Italia e Lega – parzialmente post-autonomista – si candida a rappresentare è la nazione (o delle piccole patrie, i “territori”). Famiglie, imprese, terzo settore e cittadini, questa la composizione, secondo La Russa, della comunità nazionale alla quale bisogna garantire “sicurezza, benessere e dignità”.
C’è poi l’annessione di valori universali come la solidarietà, o “qualità” come l’“ingegno” e la “creatività”, come specificamente italiane – pratica che ogni classe dirigente liberale e di centro compie, a diverse latitudini, nella costruzione del “nazionalismo banale” quotidiano. Un soggetto privo di qualità intrinseche come la comunità nazionale ha bisogno di argomenti per essere tenuto insieme e preformato.
Tutte le caratteristiche positive, attribuite, a seconda dell’esigenza, a qualche evento storico o essere umano transitato o nato nel paese, diventano per estensione un valore collettivo transistorico.
Le più generali sfide contemporanee, in continuità con il discorso efficientista e tecnocratico che ha dominato il campo politico, vanno gestite in funzione della velocità – delle merci, dei capitali, dei flussi tecnologici. In tal senso va riformata la seconda parte della Costituzione.
Certo la condivisione formale delle parole di Segre da parte dell’ex missino rientra in parte in un’altra storia ormai antica. L’uso di Israele e della parte più conservatrice delle comunità ebraiche italiane – con cui Segre non c’entra nulla, chiaramente – come dispositivo di legittimazione dell’estrema destra di governo.
In quanto amici di Israele – e degli ebrei, secondo questa logica -, l’estrema destra non è razzista. Le astrazioni del “filosemitismo” sono il rovesciamento dell’antisemitismo. Anche se Segre ha fatto un discorso chiaramente antifascista, i postfascisti – in quanto amici di Israele contro gli arabi – possono fingere che anche una vittima del nazifascismo sia loro alleata.
Il pericolo del postfascismo che viene sta nell’aver usato i termini e le ragioni dell’“estremo centro”, radicalizzandone le conseguenze. L’opposizione dovrà fare un serio lavoro di ripensamento dei propri programmi e delle proprie pratiche poli
*(Fonte Il Manifesto. Bruno Montesano, è studente di Master della School of Oriental and African Studies (Soas) di Londra e si è laureato in Scienze Economiche alla Sapienza.)

 

03 – LA GUERRA E LE SUE VERITÀ *: I PARADOSSO DEI GENERALI ITALIANI CHE DIMOSTRANO PIÙ BUON SENSO E UNA VISIONE PIÙ CORRETTA DELLA GUERRA DEL 99% DEI POLITICI.

Generale VINCENZO CAMPORINI per il dopoguerra: “Sogno una Russia integrata con l’Europa in pace e connessa economicamente. Tra Russia ed Europa c’è un’assoluta complementarietà dal punto di vista delle economie, chi ha la tecnologia non ha l’energia, e viceversa. Abbiamo anche basi culturali comuni, per cui immagino una futura integrazione.”
Generale LEONARDO TRICARICO: “…Cosa facciamo noi adesso? Continuiamo a lasciare che Zelensky compia atti inquadrabili in questo attentato all’integrità territoriale russa, oppure dobbiamo fermarlo? Zelensky non può continuare a fare ciò che vuole. Serve concertazione internazionale, non c’è stata” … “Non ho mai nascosto la mia preoccupazione per l’ingresso di nuovi Paesi nella Nato e in particolar modo per l’ingresso di Finlandia e Svezia in questo particolare momento. I nuovi ingressi non renderebbero più sicura l’area e renderebbero difficili i negoziati con Mosca”
Generale ANTONIO LI GOBBI “se l’Europa fosse riuscita a imporsi come elemento neutrale di riferimento per negoziare, sarebbe stato molto meglio. Non si è stati in grado di assolvere un tale ruolo, che sarebbe spettato all’Europa, e allora è inevitabile dare le armi, anche per tranquillizzare, forse ipocritamente, la nostra coscienza …Oggi si dice che la guerra è iniziata a febbraio. In realtà è iniziata nel 2014 se non prima. La cosiddetta “operazione militare speciale” di Putin è la sua evoluzione… la UE non ha affrontato il problema ucraino come dal 2014 ad oggi, nonostante due nazioni europee, Francia e Germania, avessero un ruolo nell’ambito degli accordi di Minsk.”
Generale MARCO BERTOLINI: “L’Italia non ha mai dato le armi a nessuno. Non le ha date alla Somalia che aveva a che fare con una variante dell’Isis. Io ero lì e ci chiedevano armi, ma non gliele abbiamo date e sa perché? Perché non usiamo alimentare i conflitti, ed è lo stesso criterio che abbiamo usato in altre situazioni in cui c’era un popolo aggredito… Proprio perché il conflitto è a due passi da noi bisognava spegnerlo prima possibile, non tenerlo acceso alimentando una resistenza di poche speranze. (…) Putin ha già raggiunto i due terzi degli obiettivi che si era posto all’inizio (indipendenza delle repubbliche del Donetsk e del Luhansk e riconoscimento della Crimea come parte della Federazione Russa). Resta il discorso dell’Ucraina che non deve entrare nella Nato, ma nessuno parla di negoziato, perché sicuramente non è voluto dagli Usa, che sono i veri competitor della Russia in questa battaglia. E di conseguenza neanche Zelensky lo vuole. Mosca sta dando altro dal punto di vista tattico, ma non vede l’ora di finire questa operazione sul campo per andare a un tavolo negoziale, che però non c’è.”
Generale PAOLO CAPITINI: ”C’è stato un errore storico nel non aver coltivato il disegno di un continente che vada dall’Atlantico agli Urali tanto caro anche a Giovanni Paolo II che parlò di «Europa a due polmoni ». L’esito di questa frattura è la politica di sanzioni alla Russia e fornitura di armi all’Ucraina che denota l’illusione che queste misure possano portare risultati concreti. È lo specchio dell’incapacità di capire una realtà molto diversa dalla nostra. E il capolavoro è stato aver trasformato uno come Erdogan, che in questo caso ha saputo tacere – uno che massacra i Curdi e abbandona al loro destino migliaia di profughi a Lesbo – in un campione della pace.”
Generale FABIO MINI: “Non si sa a chi vanno le armi ma anche i soldi, tutti gli aiuti che confluiscono in Ucraina. Non si sa neanche dove vanno gli uomini”. E aggiunge: “Tecnicamente siamo in guerra”. “Dovevamo smantellare la Nato alla fine della Guerra fredda. La Nato non è più un’alleanza difensiva, è un’alleanza chiaramente offensiva perché ha come suo obiettivo quello di espandersi e dare una mano agli Stati Uniti per far fuori la Russia.” Il generale ha definito “imbarazzante” la posizione che l’Italia ha adottato nella guerra ucraina, infatti si sarebbe potuto evitare l’inizio del conflitto. “Sarebbe bastato discutere sulla politica, gli interessi e la sicurezza dell’Europa invece di accettare ad occhi chiusi una versione distorta della realtà come quella prospettata dagli Usa, dalla Ue e dalla Nato”. Dichiarazioni e foto tratte da IL BUONSENSO DEI GENERALI SU QUESTA GUERRA https://www.facebook.com/EuropaPerLaPace
*(ndr)

 

04 – Fabio Salamida *: ABITUIAMOCI A VEDERE CAMERA E SENATO SEMPRE “DESERTI”, UN NUOVO GOVERNO. CON I DEPUTATI PASSATI DA 630 A 400 E I SENATORI DA 315 A 200, GLI EMICICLI DELLA CAMERA E DEL SENATO SONO SEMBRATI VUOTI ANCHE DURANTE LE OPERAZIONI DI VOTO PER ELEGGERE I DUE PRESIDENTI, MA IN QUESTO CASO L’ASSENTEISMO NON C’ENTRA.

Il colpo d’occhio delle aule parlamentari in occasione dell’elezione dei presidenti di Senato e Camera è stato quasi desolante, se si pensa che si tratta di due delle sedute più partecipate di ogni legislatura. E no, i deputati e i senatori non sembravano così pochi perché molti si erano già assentati il primo giorno di scuola, ma a causa del taglio dei parlamentari che li ha decimati in entrambi i rami del parlamento. Per ovvii motivi non si sono potute modificare le aule, ma si sono adattate per ospitare un numero inferiore di eletti. Abituiamoci quindi a vedere aule semi deserte, anche in occasione di votazioni importanti e partecipate:
LA NUOVA DISPOSIZIONE ALLA CAMERA DEI DEPUTATI. QUALCHE CURIOSITÀ
QUELLO CHE NON FUNZIONA NEL NUOVO PARLAMENTO
Il combinato disposto tra la legge elettorale che fu voluta da Renzi e il taglio dei parlamentari messo in atto dal Movimento 5 Stelle rischia di rendere meno efficienti e più lente le commissioni parlamentari, rallentando ulteriormente l’iter delle leggi

LA NUOVA DISPOSIZIONE ALLA CAMERA DEI DEPUTATI
A Montecitorio gli onorevoli sono passati da 630 a 400. Un taglio corposo che ha portato a una nuova organizzazione dell’aula progettata dall’architetto palermitano Ernesto Basile e inaugurata il 20 dicembre del 1918. Gli scranni attrezzati con microfono e postazione per il voto sono stati diminuiti, eliminando le postazioni nelle ultime due file e nella prima, su cui sono state mantenute solo le sedute. Una scelta forse opinabile, dato che le strumentazioni eliminate potevano risultare utili in occasione delle sedute comuni dei due rami del Parlamento per l’elezione del Presidente della Repubblica. Le modifiche sono state apportate quasi in contemporanea con l’istallazione dei nuovi tabelloni digitali, che hanno sostituito gli storici tabelloni analogici con le lampadine. Un moderno schermo al led mostra ora le immagini dei deputati durante i loro interventi e illustra le indicazioni sulle votazioni in corso.

LA NUOVA DISPOSIZIONE AL SENATO DELLA REPUBBLICA
Decisamente più contenuti gli interventi nell’aula di Palazzo Madama, dove si riunisce il Senato della Repubblica. I senatori, che sono passati da 315 a 200, sono stati accorpati al centro dell’emiciclo, liberando le ultime file di scranni.
QUALCHE CURIOSITÀ
L’attuale aula di Montecitorio sostituì quella provvisoria creata dall’ingegnere Paolo Comotto, inaugurata il 27 novembre 1871 per ospitare il Parlamento che in virtù della presa di Roma si sarebbe dovuto spostare nella nuova Capitale. La vecchia aula, che si trovava in quello che oggi è il cortile interno a cui si accede dai corridoi laterali e dal Transatlantico, presentava però una serie di problemi: oltre ad avere una pessima acustica, non disponeva né di calorifici né di ventilatori e questo la rendeva molto fredda nei mesi invernali e caldissima d’estate. Il 6 luglio del 1883, nel corso di una seduta, la stampa parlamentare regalò un ventaglio all’allora presidente, Giuseppe Zanardelli, per aiutarlo a presiedere malgrado le condizioni climatiche avverse. Da allora, ogni anno si svolge la “Cerimonia del Ventaglio”, in cui i giornalisti che lavorano alla Camera donano un ventaglio al presidente di turno.
“Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”. È il passo più noto del famigerato “discorso del bivacco” il primo pronunciato da Benito Mussolini nell’aula del Parlamento, il 16 novembre del 1922. Quello che aveva prospettato in quel delirante monologo lo mise in pratica nel 1929, quando tagliò il numero dei parlamentari a 400 (fino ad allora i deputati erano 553) rendendoli tutti espressione del Partito fascista. Lo stesso Mussolini, dieci anni dopo, cambiò il nome della Camera dei deputati in Camera dei fasci e delle corporazioni alzandone il numero dei membri a 949. Con l’entrata in vigore della Costituzione, i deputati eletti divennero 613 (21 per ogni milione di elettori) e arrivarono a 630 dopo una modifica approvata del 1963.
*(Fabio Salamida – Giornalista radiotelevisivo e scrittore. Si occupa di politica e attualità. Co-conduttore a “Le Mattine di Radio Capital”)

 

05 – Luca Zorloni*: LA PESSIMA IDEA DI NON AVERE UN MINISTERO DELL’INNOVAZIONE E DEL DIGITALE. IL GOVERNO RINUNCIA ALLA DELEGA CHE È STATA DI PAOLA PISANO E VITTORIO COLAO NEGLI ULTIMI GOVERNI. NONOSTANTE I MILIARDI CHE IL PNRR ASSEGNA AL DIGITALE E LE SFIDE TECNOLOGICHE STRATEGICHE PER L’ITALIA.

Addio ministero dell’Innovazione. Il digitale non avrà un dicastero ad hoc nel governo di Giorgia Meloni. Nonostante il 27% dei fondi stanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) vada al digitale. Nonostante le promesse della Lega, che addirittura voleva insediarne gli uffici a Milano. E nonostante l’elementare constatazione che, oggi, senza innovazione e digitale non si va da nessuna parte. Le deleghe che sono state di Paola Pisano sotto il secondo governo di Giuseppe Conte e dell’ex a di Vodafone Vittorio Colao nella squadra di Mario Draghi verranno spezzettate. È facile aspettarsi che la maggior parte sarà assorbita dal ministero dello Sviluppo economico, ribattezzato delle imprese e del made in Italy, affidato al senatore Adolfo D’Urso di Fratelli d’Italia. Ma avrà voce in capitolo anche il collega Raffaele Fitto, che ha la delega agli Affari europei, alle politiche di coesione e al Pnrr. E Paolo Zangrillo, in quota Forza Italia, nuovo ministro della Pubblica amministrazione.
Non che le promesse fossero incoraggianti. In campagna elettorale il digitale è sparito dai radar. Accenni scarsi nei programmi, spesso superficiali. Assente la sicurezza informatica, pur di fronte agli evidenti rischi per la sicurezza nazionale che la coalizione di destra di fregia di voler difendere. E dire che l’uscente Colao si era anche premurato di mettere nero su bianco 42 pagine di relazione per fare il punto della situazione ed evidenziare le sfide più urgente per il potenziale nome della successione. Chissà che fine farà la pratica. L’ormai ex ministero per la Transizione e l’innovazione digitale ha da gestire 18 miliardi di euro dal Pnrr. E partite delicatissime: il cloud nazionale; il piano banda larga; la cittadinanza digitale; lo spazio.

Cosa succede adesso? Dopo la prima lista dei ministri, la spartizione delle poltrone tra la maggioranza di governo passerà a viceministri e sottosegretari. Ci si aspetta che in questa seconda tornata di nomi emerga quello di una figura incaricata di gestire la partita del digitale e delle telecomunicazioni, con grandissima probabilità all’interno della squadra dell’ex ministero dello Sviluppo economico. Nelle scorse settimane, quando l’esecutivo era in via di formazione, era stato fatto il nome di Alessandro Morelli, in quota Lega, per un potenziale ministero dell’Innovazione. Già sottosegretario ai Trasporti sotto Enrico Giovannini, nel suo lavoro alla Camera si era occupato di telecomunicazioni come presidente della Commissione trasporti. Ma sono voci di corridoio e come tali, in questo momento, vanno prese.

E dire che Colao aveva suggerito di mantenere il dicastero per rendere più organica l’attività del settore: “Mantenere un forte presidio e coordinamento a livello di Presidenza del Consiglio sul digitale, sull’innovazione e sulla tecnologia. Come esposto, gli interventi richiesti sono molteplici, complessi e afferiscono a diverse amministrazioni, centrali e locali. La Presidenza del Consiglio e il Comitato interministeriale per la transizione digitale sono il luogo naturale dove garantire il coordinamento di tutte queste iniziative, assicurando il rispetto delle tempistiche del Pnrr ed un costante allineamento con i più alti vertici politici”.

IL MINISTRO DELL’INNOVAZIONE VITTORIO COLAO AL FORUM AMBROSETTI DI CERNOBBIO
I compiti di Vittorio Colao per il prossimo ministro dell’Innovazione
In un documento di 42 pagine tutti i risultati raggiunti dall’ex top manager di Vodafone nei 18 mesi di lavoro a Roma, con quattro consigli-chiave per il suo successore. Se ci sarà

LE SFIDE FUTURE
È l’assenza di un dicastero ad hoc a far riflettere. Specie con lo Sviluppo economico, che ha assorbito il fu ministero delle Poste e telecomunicazioni, ad ammantarsi di questa veste di protettore del made in Italy. Anche perché le sfide sono tante e urgenti. Il polo strategico nazionale (Psn) del cloud, dove dovranno confluire i dati delle pubbliche amministrazioni più importanti, deve entrare nella fase operativa da dicembre. Vero è che ormai la pratica è in mano alla società di scopo, guidata dall’amministratore delegato Emanuele Iannetti e partecipata da Tim (45%), Leonardo (25%), Cdp (20%) e Sogei (10%). Ma è vero anche che serve una spinta politica decisa perché il progetto vada in porto. Gli obiettivi di Iannetti sono di mettere a punto, entro dicembre 2022, tutta l’infrastruttura dei servizi e avere almeno 280 amministrazioni migrate nel Psn entro il terzo trimestre del 2026, in linea con il target fissato dal Pnrr. A regime, il polo dovrà portare il 75% delle amministrazioni italiane a utilizzare i servizi cloud entro il 2026.

Va conclusa l’integrazione del Sistema pubblico di identità digitale (Spid) e la Carta di identità elettronica (Cie) con 16.500 amministrazioni pubbliche entro quattro anni. Tempi lunghi? Può essere, ma si sa che la pubblica amministrazione cammina lenta e ora questa pratica dovrà passare dall’ex team di Colao al dicastero di Pichetto Fratin. Senza contare, come svelato da un’inchiesta di Wired, che l’Italia sta giocando una partita delicatissima ai tavoli europei sul fronte dei sistemi di identità digitale, proprio attraverso il dicastero dedicato, per contrastare gli interessi di Francia e Germania e tutelare i propri (come i 30 milioni di identità digitali su Spid) e il governo Meloni dovrà dimostrarsi all’altezza della partita, se non vuole subire le scelte altrui e lamentarsi quando è troppo tardi.
Vanno bandite gare per l’economia dello spazio (partita ghiotta che potrebbe avere una figura ad hoc) e create figure di coordinamento per le politiche europee (vedi il Digital markets act). E ancora, proseguire sul rafforzamento dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale e per le strutture di difesa cibernetica dei ministeri.

LE BATTAGLIE NASCOSTE DIETRO AL SISTEMA EUROPEO DI IDENTITÀ DIGITALE
Standard da definire. Imprese in lizza per assicurarsi gli appalti per app e servizi. Stati divisi sugli schemi di sicurezza. Le barricate dell’Europarlamento sulla privacy in rete. La costruzione di un’identità digitale comunitaria scatena scontri e divisioni. L’inchiesta di Wired
La questione reti
L’unica partita su cui il governo Meloni sembra avere le idee chiare è la rete unica. A trazione statale. Nel programma Fratelli d’Italia annunciava di volere “la proprietà pubblica delle reti sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni”. Nel caso delle telecomunicazioni significa lasciare in capo a Tim la rete unica, dove confluirebbe anche quella di Open Fiber, scorporare i servizi e mettere la società sotto il controllo di maggioranza di Cassa depositi e prestiti, ossia dello Stato. E a parte le questioni societarie, c’è anche la rincorsa affannosa a cablare l’Italia in banda larga. Un traguardo che Colao aveva fissato al 2026. Ma su cui l’ex collega allo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, aveva messo le mani avanti: difficile farcela. Mancano operai per i cantieri, ma anche materiali rallentati dai colli di bottiglia delle forniture. Se si mettono insieme anche gli allarmi delle compagnie telefoniche sui riflessi dei blackout energetici sulla connettività e la fatica ad aggiornare le reti al 5G, è una bella gatta da pelare. Che a questo giro Giorgetti guarderà da lontano, dallo scranno di ministro dell’Economia.
*(Fonte: Wired. Luca Zorloni, è responsabile del sito e dell’area digitale di Wired.it. Si occupa, in particolare, di telecomunicazioni, sicurezza informatica, privacy)

 

06 – Andrea Carugati*: OPPOSIZIONI IN ORDINE SPARSO. FRATOIANNI: MANCA SOLO IL MINISTERO DELLE CORPORAZIONI
REAZIONARI A CATENA NEL FRATTEMPO I DEM DICHIARANO IN ORDINE SPARSO, DIMOSTRANDO DI NON AVERE ANCORA UNA STRETEGIA DI OPPOSIZIONE. ANNA ASCANI, APPENA ELETTA VICEPRESIDENTE DELLA CAMERA, PARLA DI «GOVERNICCHIO», LA CAPOGRUPPO IN SENATO MALPEZZI DENUNCIA LA PRESENZA DI «SOLE 6 DONNE SU 24 MINISTRI»

«Dopo aver ascoltato lista, nomi e denominazioni del governo Meloni dico ancora più convintamente opposizione, opposizione, opposizione». Enrico Letta se la cava con una citazione del famoso “resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli contro Berlusconi. Poi però Letta riconosce la novità di «una donna premier, un fatto storico per il nostro Paese». Nel tweet successivo, il leader Pd si spinge a fare gli auguri di buon lavoro al neopremier, «ora guardiamo avanti», e divaga sulla riunione della direzione Dem il 28 ottobre che «fisserà l’agenda del congresso».
Nel frattempo i Dem dichiarano in ordine sparso, dimostrando di non avere ancora una strategia di opposizione. Anna Ascani, appena eletta vicepresidente della Camera, parla di «governicchio», la capogruppo in Senato Malpezzi denuncia la presenza di «sole 6 donne su 24 ministri». «La sovranità è una parola vuota usata solo in chiave identitaria e le pari opportunità vanno insieme alla natalità. È il governo più a destra della storia repubblicana».
«Servirà un’opposizione ferma e unita. Servirà proteggere il paese e i diritti», le fa eco Debora Serracchiani. Mentre Laura Boldrini parla di «governo della destra retrograda, autarchica e un po’ grottesca» e si chiede: «Siamo a Roma o a Varsavia?».
Più chiaro il giudizio di Nicola Fratoianni, del gruppo Sinistra e Verdi: «Nell’elenco delle “nuove” denominazioni dei ministeri manca solo il dicastero delle Colonie e quello delle Corporazioni, per il resto è la fotografia del tentativo di una restaurazione nell’Italia del 2022». Fratoianni parla di «disegno profondamente ideologico della destra» che «si accompagna ad una compagine di livello mediocre, che non riuscirà a dare risposte ai problemi del Paese». Marilena Grassadonia di Sinistra italiana passa in rassegna i ministri più pericolosi per i diritti lgbt: Eugenia Roccella «strenua oppositrice del ddl Zan e
promotrice del fallito referendum per abolire le unioni civili»; Carlo Nordio «che paragonò l’omosessualità alla pedofilia durante le audizioni in Senato»; e Alfredo Mantovano «antiabortista e vicino alle posizioni delle Sentinelle in piedi». «Non ci possono essere dubbi su quali saranno le posizioni di questo governo sulle questioni che riguardano le discriminazioni contro le persone Lgbt+ e le donne. Nessuno», attacca Grassadonia. Duro anche il coordinatore di Articolo 1 Arturo Scotto: «Il governo più a destra da almeno un secolo a questa parte. Ministeri dal nome bizzarro che evocano un tempo antico.
Antichissimo. Faremo opposizione dura e intransigente a questa pennellata di nero sulla vita della Repubblica».
Più paludato Giuseppe Conte, che fa gli auguri alla premier ed evidenzia «alcuni segnali preoccupanti». Quali? Crosetto che passa dalla industrie delle armi alla Difesa «a garanzia di una sicura corsa al riarmo». E ancora, il ministero degli Esteri a Forza Italia e altre nomine che «preannunciano un brusco arretramento nel percorso di riconoscimento e rafforzamento dei diritti civili». «Prepariamoci a un’opposizione intransigente e senza sconti, per il bene del paese», chiude il leader del M5S. E Riccardo Magi di +Europa: «Nasce il governo delle destre unite nel dire no ad avanzare sui diritti, nell’ambiguità sulla politica estera e sui valori democratici, nello scaricare sulle future generazioni i costi delle loro promesse».
Carlo Calenda loda Meloni: «Avere una premier donna che si è battuta con coraggio per arrivare a palazzo Chigi con le sue sole forze è comunque un grande cambiamento per l’Italia. Saremo all’opposizione. Ma le auguriamo di avere successo per l’Italia». Anche Renzi fa auguri e complimenti alla prima donna alla guida del governo, «speriamo prima di una lunga serie». «Buon lavoro alla maggioranza ma anche alle due opposizioni, quella riformista e quella populista», chiude il leader di Iv.
Nel cosiddetto terzo polo è una gara a chi usa i toni più morbidi: «Da parte nostra nessun pregiudizio: faremo un’opposizione senza sconti, con l’augurio che il nuovo esecutivo sia davvero all’altezza delle durissime sfide che il paese ha di fronte», auspica il capogruppo alla Camera Matteo Richetti.
*(Fonte: Huffingtonpost. Andrea Carugati, giornalista, laureato in Comunicazione politica, dopo alcuni anni all’Unità dal 2014 scrive di politica per Huffingtonpost Italia,)

 

07 – BREXIT. Pierre Haski*: LA FINE DI LIZ TRUSS E DELLE ILLUSIONI DELLA BREXIT. LA STORIA RICORDERÀ IL MANDATO DI LIZ TRUSS COME IL PIÙ BREVE TRA QUELLI DEI 56 CAPI DEL GOVERNO CHE SI SONO ALTERNATI ALLA GUIDA DEL REGNO UNITO, NONCHÉ COME IL PIÙ TRISTE.

Ma questo non è il fatto più rilevante. Se la casa al numero 10 di Downing Street, l’indirizzo del premier a Londra, si è trasformata in una macchina per polverizzare le ambizioni politiche è perché la missione è chiaramente impossibile, e non importa se a provarci sia un demagogo senza fede né legge come Boris Johnson o una reincarnazione fuori tempo massimo di Margaret Thatcher come Liz Truss…
La missione è impossibile perché consisteva nel trasformare la Brexit in un successo, laddove gli ultimi sei anni dimostrano che gli elettori britannici hanno commesso il peggiore sbaglio della loro vita quando hanno votato sì al referendum del 2016. In quell’occasione la popolazione del Regno Unito aveva aderito a maggioranza a un progetto ideologicamente allettante, quello di “riprendere il controllo”, come ripetevano i paladini della Brexit. Ma quel progetto non è mai andato d’accordo con la realtà del paese e del resto del mondo.

Piani irrealizzabili

La Brexit ha vinto grazie a una doppia illusione. La prima è quella dello slogan menzognero sfoggiato sugli autobus londinesi e che prometteva di investire nel sistema sanitario le somme enormi che ogni settimana andavano versate all’Unione europea. La seconda è quella di aver voluto credere a una “Singapore sul Tamigi”, un luogo deregolamentato che potesse attirare i capitali messi in fuga dalla burocrazia di Bruxelles. L’illusione è stata tanto più scriteriata se consideriamo che si fondava su una lettura sbagliata del mondo e inoltre è andata a sbattere contro fatti imprevisti, come il covid-19 e la nuova guerra fredda (o calda, a seconda delle regioni).

Londra deve coesistere con indicatori tutti al ribasso

Da quel momento diversi premier conservatori hanno tentato di far funzionare un piano irrealizzabile, incapaci di dire ai britannici “ci siamo sbagliati” perché a quel punto sarebbero state le loro menzogne e le loro illusioni a finire nel mirino.
E così Londra deve coesistere con indicatori che sono tutti al ribasso. Il Regno Unito ottiene risultati peggiori rispetto a qualunque paese paragonabile nella stessa situazione, e c’è una sola spiegazione: la Brexit.

Il prossimo primo ministro non avrà successo a meno che non decida di intraprendere una svolta realista, non tanto per rientrare nell’Unione europea (per rimediare alla rottura servirà almeno una generazione) ma almeno per negoziare un rapporto senza paraocchi ideologici con i 27.

Il naufragio di Liz Truss potrebbe servire a restituire ai conservatori un minimo di senno. I tory hanno già modificato i criteri di candidatura per rendere quasi impossibile il ritorno di Boris Johnson, e questo è già qualcosa. Se ai conservatori servissero ulteriori motivi per risvegliarsi, gli basterà dare un’occhiata ai sondaggi in cui i laburisti hanno 30 punti di vantaggio. Se le elezioni si svolgessero oggi, i tory non supererebbero i 22 parlamentari. Un suicidio collettivo, insomma.

In attesa dei prossimi sviluppi possiamo chiudere con la frase pronunciata da re Carlo III quando ha ricevuto Liz Truss a Buckingham: “Dera oh dear”, che potremmo tradurre con “oh misericordia!”. Perfino il re è esasperato…
*(Fonte: Internazionale. Pierre Haski, è un giornalista francese. Cofondatore di Rue 89. È stato vicedirettore del periodico Libération dal gennaio 2006 Traduzione di Andrea Sparacino)

 

08 – Pierre Haski*: PARIGI E BERLINO MOLTIPLICANO I CONTRASTI SUI TEMI EUROPEI LA METAFORA DESUETA DELLA “COPPIA” È PERFETTAMENTE CALZANTE RISPETTO AI RAPPORTI FRANCO-TEDESCHI DEGLI ULTIMI DECENNI. DUNQUE QUANDO UN APPUNTAMENTO VIENE ANNULLATO ALL’ULTIMO MINUTO È NATURALE PREOCCUPARSI E CHIEDERE SE QUALCOSA NON VADA.

L’annullamento del consiglio dei ministri franco-tedesco che si sarebbe dovuto svolgere la prossima settimana, arrivato la sera del 19 ottobre, è un fatto assolutamente insolito, soprattutto considerando che l’incontro è stato rinviato addirittura all’inizio del 2023. Ufficialmente la causa è un problema di calendari, ma la notizia arriva in un contesto segnato da diversi disaccordi sull’energia e la difesa che nelle ultime settimane hanno avvelenato l’atmosfera tra Parigi e Berlino.

Fino a poco tempo fa fonti parigine attribuivano questi sussulti all’avvento di una nuova coalizione al potere a Berlino, composta da tre partiti che faticano a mettersi d’accordo, e al fatto che la Germania sia senz’altro il paese più destabilizzato dalla rottura con la Russia, a causa del gas ma anche, più in generale, sul piano della politica estera.

LA CUPOLA DELLA DISCORDIA
L’annullamento dell’incontro dimostra che quella spiegazione non è sufficiente.
Sulle questioni legate alla difesa Parigi si preoccupa del fatto che la Germania stia prendendo decisioni che voltano le spalle alla logica europea. Non si tratta tanto della scelta di Berlino di acquistare aerei F35 statunitensi (vincolata al ruolo tedesco nella dissuasione nucleare) quanto dell’annuncio recente, da parte di 14 paesi europei (tra cui la Germania), dell’intenzione di acquistare il sistema antimissile israeliano Iron dome (cupola di ferro) anziché lavorare a un’opzione europea. La Francia si è rifiutata di partecipare a questa iniziativa.

Aggiungiamo a tutto questo le difficoltà dei due progetti militari franco-tedeschi, quello per il successore del Rafale e quello per il carro armato del futuro, ed è evidente che un settore chiave sia ormai in panne.

VIENE DA CHIEDERSI SE PARIGI E BERLINO CONDIVIDANO ANCORA UNA VISIONE COMUNE PER L’EUROPA
Un altro grande tema è quello dell’energia, con uno scontro sul nucleare accentuato dalla presenza dei verdi nel governo tedesco e il fastidio manifestato da Berlino per il rifiuto francese di impegnarsi nel progetto di un gasdotto franco-spagnolo destinato alla Germania. Non tutti gli argomenti sono di grande portata, ma messi insieme hanno un peso.
Questa increspatura dei rapporti arriva nel momento sbagliato, in piena guerra ucraina e in una fase in cui sono attese decisioni al livello europeo, soprattutto in occasione del Consiglio europeo in programma per il 20 ottobre. Più in generale, viene da chiedersi se Parigi e Berlino condividano ancora una visione comune per l’Europa o se invece il loro rapporto consista solo in una serie di appuntamenti mancati.
In realtà bisogna valutare la portata dello shock che la guerra in Ucraina rappresenta per Parigi e Berlino. Il nuovo cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dovuto ambientarsi in un contesto strategico stravolto, e senza dubbio non ci è pienamente riuscito.
Inoltre Francia e Germania sono state criticate dai paesi del fianco orientale dell’Europa, delusi per l’eccessiva compiacenza del tandem franco-tedesco nei confronti della Russia di Putin e rassicurati più dal ritorno dell’ombrello statunitense che dalle profezie della difesa europea.
Insomma non è il momento adatto per un conflitto tra Germania e Francia. Ma forse era necessario manifestare il disaccordo per poterlo superare. Come in tutte le coppie.
*(Fonte: Internazionale. Pierre Haski, è un giornalista francese. Cofondatore di Rue 89. È stato vicedirettore del periodico Libération dal gennaio 2006. Traduzione di Andrea Sparacino)

 

09 – Claudio Tito *: VERTICE UE SULL’ENERGIA, RAGGIUNTA UN’INTESA IN EXTREMIS. DRAGHI: “ACCOLTE TUTTE LE PROPOSTE DELL’ITALIA. COSÌ BOLLETTE PIÙ BASSE”. VON DER LEYEN: “ORA DOBBIAMO METTERE IN PRATICA L’ACCORDO. 40 MILIARDI DI FONDI DI COESIONE SARANNO DESTINATI A SOSTENERE LE IMPRESE”. SÌ AGLI ACQUISTI COMUNI, SPIRAGLIO SUL FONDO SURE.

Nella notte, dopo 12 ore di confronto durissimo tra i leader europei, i Paesi hanno trovato un’intesa sulle misure da adottare contro il caro energia. “Raggiunto un accordo, prevalgono unità e solidarietà”, ha detto Charles Michel.

DRAGHI. “ACCOLTE LE PROPOSTE DELL’ITALIA. COSÌ BOLLETTE PIÙ BASSE”
Dal premier italiano Mario Draghi è arrivato prima solo un commento, dopo le scintille con il cancelliere Scholz delle ultime ore: “È andata bene”. Poi in conferenza stampa Draghi, il presidente del Consiglio uscente ha commentato: “Il pacchetto approvato” dal vertice Ue “accoglie tutte le proposte dell’Italia: la creazione di un corridoio per i prezzi del gas, il disaccoppiamento tra i prezzi di gas e quelli dell’elettricità la necessità di avere strumenti comuni per affrontare e mitigare il rincaro dei prezzi dell’energia, l’effetto del rincaro dei prezzi dell’energia su imprese e famiglie”. “Nessuno di noi, soprattutto dopo il Consiglio di Praga, poteva aspettarsi che saremmo arrivati a una decisione così unitaria. Con oggi l’Europa è certamente più unita”, ha proseguito Draghi.
“La decisione di questa notte, come gli annunci dei mesi scorsi, hanno portato a un calo del prezzo del gas”, ha aggiunto Draghi. “Il prezzo del gas sul mercato TTF che aveva toccato i 350 euro per megawatt ora ad agosto e sceso a 116 euro, circa 1/3. E oggi dopo che si è diffusa la notizia che abbiamo trovato un accordo ha perso il 10%, a dimostrazione che la componente speculativa che c’è nella formazione di questo prezzo è molto rilevante. Questo è il mondo in cui andava affrontata la crisi dall’inizio e si tradurrà presto in bollette più basse””, ha proseguito.

LE POSIZIONI DEI LEADER

LA PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE, URSULA VON DER LEYEN, ha evocato subito la strada ancora da percorrere. “Ora dobbiamo lavorare sull’attuazione degli strumenti che abbiamo approvato, a partire dagli acquisti comuni, dalla condivisione del gas e dalla limitazione dei prezzi eccessivi”. E ha confermato che 40 miliardi di fondi di coesione non utilizzati sono stati destinati al sostegno delle imprese.
IL PRESIDENTE FRANCESE, EMMANUEL MACRON, ha insistito sul ruolo che è affidato ora alla Commissione. “Sulla solidarietà finanziaria, c’è un mandato molto preciso che consentirà alla Commissione europea di farci avere nelle prossime settimane proposte per un meccanismo di garanzia come avevamo fatto con il fondo Sure durante la pandemia, oppure per poter utilizzare i prestiti ancora disponibili oggi nel quadro del Reproberei, dando un po’ di flessibilità”.
SU SURE – sul modello adottato per il Covid, garantendo prestiti a tassi agevolati ai Paesi più in difficoltà – ha frenato subito il falco MARK RUTTE, primo ministro olandese. “Prima di tutto dobbiamo usare i fondi che abbiamo e solo dopo valuteremo cosa potrebbe essere necessario”. Ma aggiunge: “Siamo disposti ad accettare che la Commissione, se si renderà necessario, faccia le sue proposte” per nuovi fondi comuni.
MA LE PAROLE PIÙ ATTESE ERANO QUELLE DEL CANCELLIERE TEDESCO OLAF SCHOLZ, protagonista di un vero e proprio muro sul price cap. “Abbiamo preso una decisione che dà il mandato” alla Commissione europea “di indagare su ciò che è possibile” fare, “il focus è ovviamente sui fondi che abbiamo già”. Quanto all’emissione di debito comune Ue per far fronte alla crisi energetica, ha aperto uno spiraglio: “C’è ancora da discutere molto, il dibattito continuerà”. La verità è che le conclusioni finali sono abbastanza ambigue da lasciare soddisfatti, almeno in parte, tutti i 27 leader.
Tetto al prezzo del gas, il braccio di ferro Ue si sposta sui dettagli tecnici. Scalfito il muro dei nordici, ma è incognita sui tempi

COSA C’È NELL’ACCORDO
La via da seguire – secondo le conclusioni del vertice – resta quella proposta dalla Commissione il 18 ottobre. C’è l’intesa su un price cap temporaneo, o meglio i ventisette capi di Stato e di governo hanno concordato di dare un mandato “pieno e chiaro” alla Commissione europea di adottare “decisioni concrete” sul price cap al Ttf di Amsterdam. Con vari paletti: deve essere temporaneo, di ultima istanza e non mettere a rischio le forniture.
Nel testo sono previsti gli acquisti congiunti di gas – volontari ma obbligatori per una quota del 15% del volume totale degli stoccaggi in Europa – e poi incentivi per le rinnovabili e un price cap al gas nella formazione dell’elettricità, sul modello spagnolo. La novità che soddisfa il premier italiano è l’apertura – ancora molto cauta – su un possibile nuovo debito comune. Tra le misure, infatti, figura “la mobilitazione di rilevanti strumenti a livello nazionale e Ue” con l’obiettivo di “preservare la competitività globale dell’Europa e per mantenere l’integrità del mercato unico”. Una frase che, secondo Palazzo Chigi, dimostra che le proposte italiane sono state accolte.

LE RIPERCUSSIONI SUL MERCATO
Per quanto la strada tecnica di un tetto al prezzo sia lastricata di insidie, per il momento sul mercato prevale la fiducia per un’azione incisiva da parte delle diplomazie europee. I contratti al Ttf di Amsterdam, hub di riferimento europeo, sono scambiati a 114,50 euro al megawatt ora, in calo di circa il 10% nella mattinata
*(Fonte: La Repubblica. Claudio Tito, giornalista)

 

10 – Andrea Fabozzi*: AL QUIRINALE PER DENUNCIARE IL DISASTRO DEL ROSATELLUM. LE CONSULTAZIONI SUL COLLE SFILANO LE OPPOSIZIONI. LETTA, CALENDA E ANCHE CONTE SOLLEVANO PREOCCUPAZIONI PER LA LINEA DEL NUOVO GOVERNO DOPO LE USCITE DI BERLUSCONI INVOCANDO FEDELTÀ ATLANTICA ED EUROPEISMO. SINISTRA E +EUROPA SOLLEVANO CON MATTARELLA IL PROBLEMA LEGGE ELETTORALE INCOSTITUZIONALE E CHIEDONO DI NON ASPETTARE PER CAMBIARLA IL BELLO, O IL BRUTTO, VIENE OGGI.

Stamattina alle 10.30 come ultimo atto delle velocissime consultazioni del presidente della Repubblica, al Quirinale salirà la delegazione del centrodestra.
Unita, malgrado le divisioni siano state così evidenti, e soprattutto così chiaramente ascoltabili, negli ultimi giorni. Berlusconi, secondo le regole di ingaggio, sarà ridotto al silenzio. Parla solo Giorgia Meloni che, senza imbarazzi, dovrà dire che la coalizione ha indicato al capo dello Stato proprio sé stessa come presidente del Consiglio.
Ma è già accaduto che il Cavaliere si trovasse in posizione subalterna all’uscita delle consultazioni davanti ai giornalisti, nell’aprile del 2018, e quel video della sua performance in cui prima si mette a contare sulle dita i punti del programma come a dettarli a Salvini e poi con una piroetta agguanta comunque i microfoni, è ormai un classico.
Le consultazioni finiscono oggi prima di pranzo, dunque, dopo di che il segretario generale del Quirinale farà sapere che il presidente ha convocato Meloni per conferirle l’incarico e nel pomeriggio la leader di Fratelli d’Italia uscirà per annunciare che ha accettato l’incarico senza riserva – come è accaduto solo nel 2008 quando Berlusconi fu in grado di comunicare immediatamente la lista dei ministri – o com’è più probabile con la riserva di prassi da sciogliere positivamente a stretto giro. Verosimilmente già domani, per giurare poi domani stesso (anche qui i precedenti non mancano, ultimo il governo Gentiloni
che giurò solo quattro ore dopo lo scioglimento della riserva) o comunque entro lunedì.
Perché, come hanno già stabilito le conferenze dei capigruppo di camera e senato, le dichiarazioni programmatiche della presidentessa del Consiglio e il voto di fiducia sul nuovo governo ci sarà martedì a Montecitorio e mercoledì a palazzo Madama.
Ieri dunque è stata una giornata soprattutto di attesa. Nessuna sorpresa si attendeva e nessuna sorpresa c’è stata nella sfilata sul Colle dei gruppi della coalizione di centrosinistra, dei 5 Stelle e di Azione Italia viva, che si preparano a fare opposizione. Voteranno ovviamente tutti contro la fiducia Solo gli autonomisti hanno lasciato aperta la possibilità di astenersi (ma hanno anche espresso preoccupazioni per i precedenti nazionalisti di Fratelli d’Italia). E così come da tradizione sui divani dello studio alla Vetrata, o nel più grande salone degli arazzi di Lille dove sono state fatte accomodare le delegazioni più ampie, attorno a un tavolo, gli ospiti di Mattarella hanno proposto ognuno altri temi. Più volte la necessità che il nuovo governo sia atlantista ed europeista, l’hanno fatto Calenda ed Enrico Letta che poi lo hanno riferito alla stampa. Anche Conte ha voluto battere su questo tasto ed è stato l’unico che ha chiesto esplicitamente che il ministro degli esteri non sia del partito di Berlusconi, visto quello che il Cavaliere ha detto di Putin. Ma, naturalmente, di ministri il capo dello Stato parla e parlerà con la presidentessa incaricata e non con l’opposizione.
Al Quirinale si è anche materializzato il fantasma della legge elettorale. A chi ha sollevato il tema, i rappresentanti del gruppo misto del senato, della componente di Sinistra/Verdi della camera e della componente di +Europa della camera, è parso di trovare orecchie attente. Il capo dello Stato sa che il Rosatellum è tutto tranne che una legge priva di difetti e che c’è un legame stretto tra una legge che non consente libertà di scelta e il crollo della
partecipazione al voto. «Abbiamo ricordato al presidente un dato – ha detto il capogruppo del Misto al senato, il senatore di Sinistra/Verdi Peppe De Cristofaro – il centrodestra ha il 59% dei seggi ma solo il 43% dei voti: sono una maggioranza solo in virtù di una legge elettorale che è la peggiore nella storia della Repubblica. Uno dei primi impegni del nostro gruppo è presentare una proposta di legge per il ritorno al proporzionale che cancelli le
distorsioni clamorose che si sono determinate in questi anni e blocchi la crescita esponenziale dell’astensionismo». Nel pomeriggio è stata la volta del presidente di +Europa Riccardo Magi, salito con la delegazione del gruppo misto della camera. «Noi riteniamo la legge elettorale nettamente incostituzionale – ha detto – anche guardando alle recenti pronunce della Consulta. Crediamo che questa debba essere una priorità di questa legislatura, da affrontare in modo che si arrivi a un risultato e quindi non nelle ultime settimane». Se ne riparlerà intanto nelle giunte per le elezioni di camera e senato che presto saranno formate e che sono competenti sui ricorsi dei non eletti, come sui reclami contro il Rosatellum presentati direttamente dagli elettori ai seggi.
*(Fonte: IL Manifesto. Andrea Fabozzi, Giornalista professionista dal 1996, ha iniziato scrivendo per il quotidiano Liberazione)

 

11 – Antonio Di Grado*: PASOLINI E SCIASCIA, GLI ANTICONFORMISTI. ANNIVERSARI «CENT’ANNI DI SOLITUDINE», IL SIMPOSIO A RACALMUTO SULLA GENERAZIONE 1921-’25 CHE SI TERRÀ NEL FINE SETTIMANA, INDAGA L’EPOCA DEI DUE SCRITTORI, IL LORO SODALIZIO E LE VOCI DEGLI ALTRI, DA CALVINO A DANILO DOLCI FINO A GOLIARDA SAPIENZA LEONARDO SCIASCIA NASCE NEL 1921, PASOLINI NEL ’22.
Si è già detto e scritto del loro duraturo sodalizio intellettuale, a partire dalle recensioni pasoliniane a uno Sciascia esordiente, di cui il poeta friulano fu l’unico a cogliere la sostanza squisitamente letteraria anziché lasciarsi incantare, come i tempi esigevano, dalle sirene dell’impegno civile e dell’imperante «realismo». Ma la contiguità dei due centenari, e la loro occorrenza in anni di opaca omologazione, di generale acquiescenza ai diktat del «contesto», oggi sembrano manifestare con più drammatica evidenza che, con loro, sono scomparse la figura e la funzione dell’uomo-contro, dell’intellettuale anticonformista, fonte di dubbi e provocazioni, di congetture e confutazioni.
Due vite, le loro, e due filosofie del tutto diverse; eppure accomunate da una profonda sintonia, a partire da quelle remote recensioni fino alle «lucciole» pasoliniane evocate da Sciascia nell’affaire Moro. Non è il caso, del resto, d’insistere sulle differenze, ora che un presente troppo difforme dalla lezione di moralità e di stile di Sciascia e Pasolini le cancella affiancandoli – e distanziandoli – in una sbiadita icona.
Infatti, se è di Pasolini o di Sciascia che occorre trattare, insomma di uomini liberi, in costante e inappagata ricerca, ecco che opinionisti e accademici sono pronti a sfoderare una parola-chiave che, fingendo d’alludere significativamente, sottrae all’impegno di dire alcunché: questa parola è «moralismo».

PRONUNCIARLA EQUIVALE sempre più a una sorta di farisaico, e liberatorio, scarico di coscienza. E serve, infatti, a isolare tutt’al più un caso individuale, irripetibile, una meditazione solitaria e arcigna, al limite fastidiosamente intimidatoria: un’icona laica da venerare da lungi, non certo da imitare. Invece è venuto il momento di ricostruire un mondo, una galassia intellettuale, una rete di «sentieri interrotti» intorno a quei casi apparentemente isolati. E infatti, se di loro si è detto, nulla però si è detto su un’intera generazione – la loro, quella dei nati nel primo lustro degli anni Venti, quella tra gli altri di
Calvino e Berlinguer, di don Milani e Danilo Dolci, di Basaglia e Goliarda Sapienza, di Francesco Rosi e del grande amico e conterraneo di Sciascia Emanuele Macaluso – che ha segnato nel nostro paese la storia della letteratura e delle arti, della politica e del dibattito intellettuale e civile.
Una storia della cultura e delle forme espressive scandita per generazioni è ancora da fare: questo nostro tentativo (del convegno, ndr) intende innovare il consueto appuntamento dei centenari, facendone occasione di indagini sincroniche che, ai soliti medaglioni celebrativi, sostituiscano la febbrile temperatura delle epoche di volta in volta indagate, a una storia unilineare e finalisticamente orientata sostituiscano il fecondo caos del confronto, dello scontro, del quotidiano e scomposto divenire dell’invenzione espressiva e della battaglia delle idee.

NELLA SPAGNA che Sciascia aveva «nel cuore» quella forma di periodizzazione era ed è
una pratica corrente: si parla d’una «generazione del ’98» (quella di Unamuno e Machado), di quella poetica detta «del ’27» (Lorca, Salinas, Guillen, Cernuda, Alberti) e così via, e non a caso fu un grande ispanista, Oreste Macrì, a scandire per generazioni la storia della poesia italiana del Novecento. Ma senza seguito; e invece una prospettiva generazionale servirà a meglio intendere, come le precedenti e le successive, una generazione come quella del ’56, del XX congresso del Pcus e dell’invasione sovietica dell’Ungheria, eventi che da ottimistiche illusioni la convertirono a solitarie e coraggiose scommesse intellettuali.
Fra i «dieci inverni» degli anni ‘50 e le prime ventate della modernizzazione la loro irruzione da protagonisti sulla ribalta nazionale sarà segnata da eventi che, a somiglianza delle generazioni spagnole definite da un evento storico o da un’occasione letteraria, e per distinguerli dalla generazione precedente che è quella del ’45, quella della Resistenza, della liberazione, della ricostruzione, ci autorizzano a parlare di una «generazione del ’56». Che è poi l’anno del XX congresso del Pcus e dell’invasione sovietica dell’Ungheria, dell’abbandono o della revisione da parte di molti del comunismo togliattiano o quanto meno dell’ipoteca stalinista, e della crisi, ratificata dalle polemiche sul Metello di Pratolini, di quel neorealismo che aveva dato parole e immagini alle varianti dispoticamente ottimistiche del «sogno di una cosa»; ed è l’anno delle Parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia, precedute l’anno prima da Ragazzi di vita e seguite nel successivo dalle Ceneri di Gramsci di Pier Paolo Pasolini.
Cent’anni di solitudine, infine, i loro: anni di sofferta ma laboriosa e feconda solitudine, di pensiero critico e arditezze espressive maturati in un laboratorio animato da operosità e genialità, forse, non più viste da allora.

SCHEDA
Da «La ricotta», 1963 foto di Paul Ronald, Collezione Maraldi. Dal poeta al pittore, un fiorire di mostre. In occasione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), l’Azienda speciale Palaexpo di Roma, le Gallerie nazionali di arte antica e il Maxxi celebrano a partire dall’autunno 2022, nelle rispettive sedi museali, con un grande progetto espositivo coordinato e condiviso, la figura del regista, scrittore e artista. Il titolo Pier Paolo Pasolini. tutto è santo è ispirato alla frase pronunciata dal saggio Chirone nel film Medea (1969), che evoca la sacralità del mondo: quello del sottoproletariato, arcaico, religioso, in conflitto con gli eroi dell’altro – razionale e laico. Un percorso che intreccia discipline, media, opere originali e documenti di archivio, concepite per potersi integrare. La mostra al Palaexpo affronta la sua dimensione radicale di poeta e autore, vissuta con la totalità di un corpo che attraversa il mondo e sperimenta la fisicità come splendore e tragedia. La rassegna di Palazzo Barberini metterà a fuoco il ruolo controverso che lo sguardo pasoliniano ha svolto e svolge nell’orientare e provocare il nostro immaginario visivo, tra dimensione estetica, retaggio storico-antropologico e impegno ideologico. Al Maxxi la chiave di lettura dell’opera pasoliniana è restituita attraverso le voci di artisti contemporanei, le cui opere evocano l’impegno politico dell’autore e l’analisi dei contenuti sociali ispirati dalla sua produzione. Intanto, il Parco archeologico del Colosseo presenta Frammenti. Il Teorema di Pasolini nelle immagini di Laurent Fiévet, una mostra di video arte che gli rende omaggio, mentre alla Galleria nazionale d’arte moderna ci sarà il Pasolini pittore, dal 28 ottobre. E oggi si apre a Udine il progetto speciale dell’associazione Nuova Consonanza, I luoghi di Pasolini.
Memorie, visioni, passioni che si svolgerà fra Roma e Udine fino al 20 novembre.
L’inaugurazione sarà a Udine presso la Casa Cavazzini. Prima data romana, il 24 al Teatro Palladium.
*(Fonte: IL Manifesto. Antonio Di Grado, critico letterario e saggista italiano.)

 

12 – Gianni Trovati*: S& P CONFERMA RATING BBB ITALIA CON OUTLOOK STABILE. L’AGENZIA CONFERMA LA TRIPLA B DOPO AVER AVVERTITO SUI RISCHI DI RALLENTAMENTO DEL PNRR. INCOGNITA DEBITO SUGLI SPAZI FISCALI DELLA MANOVRA. L’AGENZIA MOODY’S CONFERMA IL RATING ’AA3’ DELLA GRAN BRETAGNA MA RIVEDE AL RIBASSO L’OUTLOOK A ’NEGATIVO’

Anche S &P Global Ratings sceglie la via dell’attesa e come Moody’s evita modifiche al rating dei titoli di Stato italiani, che rimane quindi ancorato alla tripla B con outlook stabile (ribassato da positivo a fine luglio).
Venerdì 28 ottobre sarà il turno di Dbrs (BBB High con outlook stabile), mentre Fitch (BBB, outlook stabile) si esprimerà il 18 novembre.
La posizione degli analisti internazionali rimane quindi sospesa in attesa degli eventi, ed evita scossoni nella fase delicata della partenza del nuovo governo.
Tutti i big del rating hanno del resto già espresso i loro timori nelle scorse settimane, prospettando un 2023 a crescita negativa (per S&P sarà -0,1% nello scenario base, per Fitch -0,7%) e soprattutto sottolineando i rischi collegati a un rallentamento del Pnrr che FdI in campagna elettorale aveva detto di voler modificare.
«Una revisione del Pnrr causerebbe forti ritardi e incertezze sulle prospettive economiche», ha avvertito S&P. Sul Piano il 21 ottobre è intervenuta anche Bankitalia: la sua piena attuazione, nei calcoli del nuovo Bollettino economico, potrebbe portare 300mila occupati in più nel 2024.
L’agenzia S& P conferma il rating BB+ della Grecia con outlook stabile. Lo si legge in una nota dell’agenzia, nella quale si precisa che l’outlook riflette l’attesa che le politiche di bilancia consentiranno al paese di assorbire l’impatto indiretto della guerra in Ucraina.
MOODY’S SU GRAN BRETAGNA
L’agenzia Moody’s conferma il rating ’Aa3’ della Gran Bretagna ma rivede al ribasso l’outlook a ’negativo’. Lo afferma l’agenzia in una nota, sottolineando che la revisione dell’Outlook è legata all’imprevedibilità politica in un contrasto di prospettive di crescita più deboli e un’inflazione alta.

13 – Intanto nel mondo.
Ucraina-Russia
Il 19 ottobre le autorità ucraine hanno accusato la Russia di voler attuare una “deportazione di massa” della popolazione dei territori occupati. Poche ore prima le autorità filorusse della regione di Cherson, nel sud dell’Ucraina, avevano avviato il trasferimento di almeno 50mila persone verso est in risposta alla controffensiva ucraina. Il 20 ottobre Kiev ha annunciato restrizioni ai consumi di elettricità in seguito ai bombardamenti russi contro le infrastrutture energetiche del paese.

Regno Unito
La ministra dell’interno Suella Braverman, ultraconservatrice, si è dimessa il 19 ottobre dopo essere stata accusata di aver usato l’indirizzo email personale per inviare documenti ufficiali. Al suo posto è stato nominato Grant Shapps. Il 14 ottobre il ministro delle finanze Jeremy Hunt, che tre giorni prima aveva preso il posto di Kwasi Kwarteng, ha annunciato l’abbandono del programma economico del premier Liz Truss.

Birmania
Il 19 ottobre otto persone sono morte e diciotto sono rimaste ferite nell’esplosione di due bombe all’ingresso della prigione di Insein a Rangoon. Le vittime sono tre impiegati della prigione e cinque visitatori. L’attentato, che non è stato rivendicato, è stato attribuito ai “terroristi” dalla giunta militare al potere. Il carcere ospita centinaia di prigionieri politici arrestati dopo il colpo di stato del 1 febbraio 2021.

India
Il 19 ottobre l’ex ministro Mallikarjun Kharge, 80 anni, è stato eletto leader del partito del Congress (opposizione), che per la prima volta da più di vent’anni non sarà guidato da un esponente della famiglia Gandhi. Kharge sostituisce infatti Sonia Gandhi. Il partito del Congress, che condusse il paese all’indipendenza dal Regno Unito, è oggi fortemente indebolito.

Malawi
La polizia ha annunciato il 19 ottobre la scoperta nel distretto di Mzimba, nel nord del paese, di una fossa comune con i resti di venticinque persone, probabilmente migranti etiopi diretti in Sudafrica. Un portavoce della polizia, Peter Kalaya, ha spiegato che è stata aperta un’inchiesta per chiarire le cause del decesso.

Salute
Il 19 ottobre l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha affermato che la carenza di vaccini contro il colera dovuto all’aumento dei casi nel mondo costringe a passare da due somministrazioni a una sola. Dall’inizio dell’anno ventinove paesi hanno segnalato casi della malattia e preoccupano in particolare le epidemie ad Haiti, in Malawi e in Siri
*(Fonte: Internazionale)

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