n°40 – 8/10/2022. RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

01 – Lorenzo Zacchetti*: Visto agli altri. Elezioni: analisi del sorpasso di Giorgia Meloni e Fdi su Enrico Letta e il PdI dati di Baldassari di Lab21.01 sull’andamento dei due principali partiti: così i Dem hanno perso (male) le elezioni, pur partendo in vantaggio
02 – Internazionale Blinken smentisce se stesso (e Biden): «Pronti a trattare con Putin» escalation nucleare, anzi no.
03 – Il Brasile resta in sospeso. Come nelle cinque elezioni precedenti, il prossimo presidente del Brasile sarà scelto al secondo turno, che si svolgerà il 30 ottobre.
04 – Iran, le Big Tech dovrebbero decidere da che parte stare. L’Iran è in rivolta. Da alcune settimane il paese è attraversato da manifestazioni represse con la violenza, che hanno portato a centinaia di morti e altrettanti arresti.
05 – Giuliano Santoro*. POLITICA «Il duello sul reddito è la lotta dei penultimi contro gli ultimi» ANALISI. Aldo Bonomi: la Lega ha perso le «città-distretto», la sinistra i grandi centri. E ora? Bisogna «fare società» contro il rancore.
06 – Tommaso Di Francesco*. Il commento della settimana. Una stagione di disfatta a sinistra, insieme così nuova e tetra in Italia non c’è mai stata dal dopoguerra a oggi, con l’affermazione netta, a man bassa – alla fine grazie al ’iniquo Rosatellum,-non democratica, se si vedono i voti reali – e con risultati che sconvolgono non solo il quadro partitico italiano ma le stesse istituzioni democratiche sostenute dalla Costituzione nata dalla Resistenza antifascista
07 – Yascha Mounk,*: Visti Dagli Altri . Cosa c’è dietro al voto degli italiani per Giorgia Meloni

 

 

01 – Lorenzo Zacchetti*: Visto agli altri. Elezioni: analisi del sorpasso di Giorgia Meloni e Fdi su Enrico Letta e il PdI dati di Baldassari di Lab21.01 sull’andamento dei due principali partiti: così i Dem hanno perso (male) le elezioni, pur partendo in vantaggio

Meloni +7,5%, Letta -3,8%: elezioni 2022, i numeri dello storico sorpasso

Oggi criticare il Pd è facile come sparare sulla Croce Rossa, ma la prospettiva cambia se si analizza più in profondità la dinamica che ha portato al risultato elettorale dello scorso 25 settembre. E, se possibile, da questo punto di vista le proporzioni del fallimento Dem diventano ancora più clamorose.
Siamo un Paese dalla memoria corta, quindi abbiamo facilmente dimenticato come solo pochi mesi fa il Pd contendesse a Fratelli d’Italia il ruolo di primo partito in Italia, quantomeno nei sondaggi. Queste rilevazioni, tuttavia, fotografano la staticità di un determinato momento, quindi, per capire meglio il trend che ha portato Giorgia Meloni al sorpasso vincente, abbiamo chiesto a Roberto Baldassari, direttore generale di Lab21.01, di ricostruire l’andamento degli ultimi otto mesi.
La sua analisi evidenzia come lo scorso febbraio il Pd fosse il partito più gradito agli italiani, con il 21,7% dei consensi (potenziali), contro il 19,2% di FdI. Un quadro netto, anche se i Dem allora marciavano da soli, senza gli innesti (ad esempio da Art. 1, Socialisti e società civile), che poi avrebbero puntato a rinforzare la lista allargata Democratici e Progressisti. “Per uniformità di analisi” – spiega Baldassari ad affaritaliani.it – “abbiamo ricostruito l’andamento del Pd scorporando il suo dato da quello delle altre forze entrate nella lista allargata, mentre alcune rilevazioni
*(Fonte: Affaritaliani. L. Zacchetti, vicedirettore di Affaritaliani.it, ha scritto anche per TPI, Il Fatto Quotidiano)

 

02 – INTERNAZIONALE BLINKEN SMENTISCE SE STESSO (E BIDEN): «PRONTI A TRATTARE CON PUTIN» ESCALATION NUCLEARE, ANZI NO.
IL SEGRETARIO DI STATO USA RETTIFICA GLI ALLARMI DELLA CASA BIANCA E APRE A UN IPOTETICO NEGOZIATO “SE È D’ACCORDO ZELENSKY”, CHE PERÒ LO HA VIETATO PER LEGGE.
E chiede alla Nato «raid preventivi, senza attendere che sia la Russia a colpire». Erdogan chiama il leader del Cremlino e si ripropone come mediatore: «Questo conflitto danneggia tutti»
Verrà l’apocalisse, anzi no, facciamo pace. Si nota un’evidente dissonanza nelle dichiarazioni statunitensi che hanno segnato l’apertura della giornata di ieri ma, forse, è solo il segno della confusione di questo periodo dentro e fuori l’Ucraina.
Il primo allarme era venuto direttamente dal presidente americano, Joe Biden, il quale ha paventato il rischio di «un’apocalisse nucleare». Biden ha aggiunto che «conoscendo bene Putin» sa che «non sta scherzando». Non possiamo sapere se tali dichiarazioni fossero concordate con i funzionari governativi o meno, fatto sta che fino a questo momento la Casa Bianca non si era mai espressa così perentoriamente
ORA, INVECE, BIDEN ha prima dato per scontato che Vladimir Putin a un certo punto dovrà rendersi conto di aver perso «non solo la faccia, ma anche il potere», affermazione tanto forte quanto – al momento – discutibile, almeno per quanto riguarda il potere, ma ha addirittura evocato uno dei periodi di massima tensione della Guerra Fredda. «Per la prima volta dalla crisi dei missili Cubani (ottobre 1962, ndr), dobbiamo fronteggiare la minaccia di un’atomica, soprattutto se le cose proseguiranno nella direzione in cui stiamo andando». Queste parole sono state pronunciate durante una serata organizzata per raccogliere fondi, quindi in una cornice tutt’altro che istituzionale.
Forse per questo, addirittura da un altro emisfero, il segretario di stato americano, Antony Blinken, aveva parlato in modo del tutto diverso. A margine di una visita ufficiale a Lima, in Perù, Blinken ha chiarito che gli Usa sono «pronti» a trovare una soluzione diplomatica al conflitto in Ucraina. In altri termini, sono aperti a dialogare con la Russia, anche se, ha lamentato Blinken, «purtroppo, al momento, tutto si dirige nella direzione opposta».
Il segretario di stato ha specificato che, «ovviamente», il governo ucraino dovrà essere d’accordo ma, non è chiaro come, visto che il presidente Zelensky tre giorni fa ha firmato un decreto che rende «illegale» negoziare con Putin. Blinken ha inoltre affermato che «la guerra può essere risolta solo attraverso la diplomazia». Il che suona strano in bocca a uno degli alti funzionari dell’alleato più coinvolto, sia militarmente sia economicamente sia politicamente, del governo di Kiev.
A PROPOSITO DEL PRESIDENTE ucraino, non meno scalpore hanno suscitato le sue dichiarazioni durante un collegamento on-line con un centro studi australiano. Zelensky ha esortato gli stati della Nato a effettuare «raid preventivi, senza attendere che sia la Russia a colpire» con un ordigno nucleare. Inutile dire che Mosca non aspettava altro per stigmatizzare il governo ucraino. E, infatti, il ministro degli esteri Sergei Lavrov ha subito dichiarato che le frasi di Zelensky sono una prova del fatto che ci fosse la necessità di «avviare una ‘operazione speciale’ in Ucraina» onde evitare un «attacco preventivo della Nato».
POCO DOPO GLI HA FATTO ECO il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: «le dichiarazioni di Zelensky non sono altro che un appello all’inizio di una guerra mondiale con conseguenze terribili e imprevedibili». In seguito l’ufficio presidenziale ucraino ha avuto un gran da fare per tutta la mattinata, cercando di smorzare i toni e spiegando che c’era stato un fraintendimento. Il capo dell’ufficio stampa di Zelensky, Sergiy Nikiforov, ha provato a chiarire che il suo presidente si riferiva al periodo precedente all’invasione, a misure utili a scongiurare una guerra evocando le cosiddette «sanzioni preventive» di cui si parlava lo scorso inverno.
ANCHE IL PRESIDENTE TURCO, Recep Erdogan, è stato tra i protagonisti della giornata di venerdì in virtù di un colloquio telefonico con il suo omologo russo Putin. Le agenzie di stampa turche hanno fatto sapere che Erdogan si sarebbe offerto di nuovo come mediatore tra i due stati belligeranti in quanto «la guerra danneggia tutti» e quindi si dovrebbe riaprire la strada della diplomazia. Erdogan ha inoltre assicurato Putin che potrebbe farsi portatore delle istanze russe riguardo alle esportazioni di fertilizzanti ma, al contempo, ha anche invitato Putin a trovare una soluzione condivisa con Kiev sulla centrale di Zaporizhzhia.

*( 8 ottobre 2022)

 

03 – IL BRASILE RESTA IN SOSPESO. COME NELLE CINQUE ELEZIONI PRECEDENTI, IL PROSSIMO PRESIDENTE DEL BRASILE SARÀ SCELTO AL SECONDO TURNO, CHE SI SVOLGERÀ IL 30 OTTOBRE.
Il presidente in carica Jair Bolsonaro ha sorpreso tutti conquistando il 43 per cento dei voti, molti più del previsto. È evidente che la ripresa economica, con il calo dell’inflazione e della disoccupazione, lo ha aiutato. Il suo sfidante Luiz Inácio Lula da Silva (Partito dei lavoratori), dato per favorito, ha ottenuto il 48 per cento delle preferenze. Il suo tentativo di vincere al primo turno facendo appello al voto utile contro Bolsonaro non ha funzionato.
In una campagna segnata da un pessimo dibattito sui programmi, il secondo turno offre ai due contendenti l’opportunità di presentare proposte più concrete e stabilire alleanze più ampie. Nonostante abbia governato il paese dal 2003 al 2010 non si sa cosa aspettarsi da Lula, soprattutto per quanto riguarda l’economia. Il suo partito continua a sostenere le tesi stataliste e interventiste che hanno portato il paese a una profonda recessione sotto il governo di Dilma Rousseff. Lula sbaglia a dare spazio a queste posizioni, che contraddicono i successi dei suoi mandati presidenziali, e ora potrebbe essere costretto a correggere il tiro.
Bolsonaro è stato protagonista del più sfacciato abuso di potere a ridosso delle elezioni dal ritorno della democrazia in Brasile, distribuendo sussidi e intervenendo sulle tasse sul carburante senza trovare le risorse necessarie. Ora dovrà mostrare più rispetto per le istituzioni democratiche. Se abbandonerà i toni eversivi potrebbe guadagnare voti.
Un aspetto negativo delle elezioni sono state le lunghe file ai seggi. Il lato positivo, invece, è che non ci sono stati i temuti episodi di violenza. Speriamo che la campagna elettorale continui in pace.
*( Folha de S.Paulo, Brasile)

 

04 – IRAN, LE BIG TECH DOVREBBERO DECIDERE DA CHE PARTE STARE. L’IRAN È IN RIVOLTA. DA ALCUNE SETTIMANE IL PAESE È ATTRAVERSATO DA MANIFESTAZIONI REPRESSE CON LA VIOLENZA, CHE HANNO PORTATO A CENTINAIA DI MORTI E ALTRETTANTI ARRESTI.
Le proteste sono nate dopo l’uccisione, il 16 settembre scorso, di Mahsa Amini, donna di origini curde colpita a morte dalla polizia morale religiosa iraniana deputata al controllo dei valori e dell’etica nel paese. La donna non aveva indossato il velo in modo corretto, contravvenendo ad uno dei rigidi dettami che la repubblica islamica iraniana impone alle donne.
Le proteste che stanno portando migliaia di donne e uomini in piazza, definite da BBC News come le più decisive contro il regime islamico nel paese, non sembrano cessare, anzi si sono diffuse a tal punto da coinvolgere ormai più di 80 città. In questo momento, l’accesso alla tecnologia e all’informazione attraverso piattaforme social e in generale internet è fondamentale sia per comprendere meglio cosa stia succedendo all’interno del paese, sia per permettere a coloro che sono in Iran di veicolare informazioni dirette.
Il paese guidato da Ebrahim Raisi non è però nuovo alla censura di internet e al blocco di applicazioni di messaggistica istantanea con lo scopo di reprimere il dissenso, o la veicolazione di qualsiasi discorso contrario al regime. Durante le proteste del 2018, per esempio, molti parlamentari iraniani erano d’accordo sulla creazione di versioni “domestiche” delle più conosciute e utilizzate app di messaggistica.
L’alternativa d’altronde sarebbe d’obbligo, visto che gli utenti di queste app in Iran sono 40 milioni (su una popolazione di 80 milioni di abitanti).
Come detto, il governo iraniano esercita da molto tempo censura anche su Internet, soprattutto di siti web che trattano il tema dei diritti umani, di organi di informazione o di siti afferenti la sfera sessuale. Tutto ciò non solo durante manifestazioni o proteste come quelle in corso ora, ma regolarmente.
A partire dal 20 settembre però le azioni governative di repressione sono aumentate sensibilmente, come riportato anche dall’ultima ricerca di Open Observatory of Network Interference (OONI), un progetto no profit che ha lo scopo di documentare la censura nel mondo digitale.
I dati raccolti da OONI rivelano l’isolamento digitale del paese: oltre alle interruzioni di rete mobile, l’Iran ha intensificato la censura e impedito l’accesso ad applicazioni come Instagram e WhatsApp, lasciando libero unicamente l’accesso all’intranet nazionale iraniana (la rete domestica che ospita servizi e siti del paese, il National Information Network (NIN), che comunque blocca i maggiori servizi internazionali).
Stando a quanto riportato da Politico i cittadini tagliati fuori da internet nel paese sarebbero circa 80 milioni. L’organizzazione Netblocks, che stima i costi economici dello spegnimento di internet nel mondo, parla di una perdita giornaliera di 37 milioni di dollari. Una cifra che non sembra comunque far desistere il governo iraniano. I risvolti geopolitici non si sono fatti attendere molto. Il 23 settembre scorso il Dipartimento del Tesoro statunitense ha deciso di ampliare la portata dei software e dei servizi internet che le società statunitensi possono offrire agli utenti iraniani, allentando di fatto le sanzioni precedentemente imposte al paese.
Il fatto che piattaforme online e i servizi Internet siano tra gli attori di una protesta così rilevante per il futuro del paese, un po’ come successo durante la primavera araba a cavallo tra il 2010 e il 2011, è importante per due motivi. Da una parte ci fa capire ancora una volta quanto manifestazioni e conseguenti repressioni violente, che hanno luogo in paesi retti da regimi, riescano a superare i confini nazionali ed essere messi sotto i riflettori dei media di tutto il mondo grazie a internet. In secondo luogo ci permette di vedere se e come le grandi multinazionali tech si schierano davanti agli abusi perpetrati da un governo sui propri cittadini. Su questo punto è molto interessante l’editoriale scritto sul New York Times alcuni giorni fa da Mahsa Alimardani, Kendra Albert and Afsaneh Rigot, rispettivamente senior researcher di Article 19, membro del board di Tor Project, e membro del Berkman Klein Center for Internet & Society all’Università di Harvard.
Aggirare il controllo di internet da parte dello stato iraniano è fondamentale non solo per permettere ai cittadini e alle cittadine iraniane di accedere a servizi finanziari online necessari per la vita quotidiana, ma più in generale per permettergli l’accesso a piattaforme come Twitter, Telegram e Facebook. Secondo le studiose è quindi necessario che applicazioni di messaggistica e social network rendano il loro enorme spazio digitale un luogo in cui le notizie provenienti dalle proteste in atto possano essere veicolate nell’interesse di tutti. Per esempio, nonostante l’hashtag contenente il nome di Mahsa Amini sia stato utilizzato da moltissime persone fino a questo momento, ciò non è bastato per renderlo “ufficiale”: gli hashflag di Twitter sono hashtag ufficiali e riconoscibili, che possono aiutare ancor di più la veicolazione di contenuti relativi alle vicende in atto e diminuire la possibilità che campagne di disinformazione proliferino online. Allo stesso modo, le autrici suggeriscono che efficaci politiche di moderazione dei contenuti su piattaforme come Telegram e Facebook potrebbero far sì che le possibilità di identificazione dei manifestanti attraverso le loro conversazioni siano sensibilmente min
Come riportato da Axios, la ricerca di servizi di VPN (network privati virtuali per connettersi a internet) è aumentata del 3000% dall’inizio delle proteste che stanno scuotendo il paese. Ovviamente possedere una VPN è pressoché inutile nel caso in cui Internet sia “spento”, ma è una buona soluzione nel momento in cui il governo di un paese decide di bloccare alcuni servizi specifici (accesso a determinati siti, portali, etc). In questo senso il presidente di Starlink Elon Musk, in risposta a un tweet del segretario di stato americano Antony Blinken, ha parlato di “attivare Starlink” proprio per superare il blocco di internet imposto dal governo di Raisi. Come spesso accade però il magnate americano la spara un po’ più grossa del dovuto: Starlink, come riportato da The Intercept, per poter fornire internet richiede la proprietà dei ricevitori di segnale e una licenza governativa che ne autorizzi l’uso nel paese coinvolto, questione che pare non essere molto in linea con le direzioni del governo iraniano.
*(a cura di: Laura Carrer, giornalista freelance e ricercatrice. Scrive di sorveglianza di stato, tecnologia all’intersezione con i diritti umani, piattaforme tecnologiche e spazio urbano su IrpiMedia, Wired, Il Post, Il Manifesto e altri)

 

05 – Giuliano Santoro*. POLITICA «IL DUELLO SUL REDDITO È LA LOTTA DEI PENULTIMI CONTRO GLI ULTIMI» ANALISI. ALDO BONOMI: LA LEGA HA PERSO LE «CITTÀ-DISTRETTO», LA SINISTRA I GRANDI CENTRI. E ORA? BISOGNA «FARE SOCIETÀ» CONTRO IL RANCORE.

«Per capire bisogna assumere uno sguardo sottostante: guardare la base della piramide, quelli che stanno sotto». Aldo Bonomi, sociologo e coordinatore del Consorzio Aaster da anni indaga le pieghe del rapporto tra economia e società, la relazione tra flussi e luoghi dentro la globalizzazione. Da questa prospettiva ha descritto la fine del fordismo e la nascita prima del capitalismo molecolare e poi di quello delle piattaforme. Ora accetta di discutere con il manifesto dei risultati delle elezioni politiche.

DUNQUE, COSA VEDE DAL LATO DEI SOTTOSTANTI?
Osservo la scomposizione e ricomposizione dei soggetti sociali, studio la composizione tecnica dei processi produttivi. Lo schema che adopero prevede che i flussi abbiano in impatto sui luoghi e sulle vite minuscole. Le cambiano socialmente, culturalmente, antropologicamente e direi anche politicamente. Seguendo questo schema traggo la prima conclusione: queste elezioni sono il fallimento delle élite, che non sono più in grado di produrre egemonia culturale e tranquillità sociale. Questo mi pare il primo dato dato su cui ragionare.

COSA HA PRODOTTO QUESTO FALLIMENTO?
I flussi prima erano rappresentati da cose diverse tra loro ma molto chiare: la finanza, le reti hard-soft (come l’Alta velocità, Amazon o internet), le migrazioni. Poi sono arrivati altri tre flussi che non sono solo economici e che impattano sulla composizione sociale: la pandemia, la guerra e il gap ambientale. Aggiungo anche il Pnrr, che era stato presentato come il flusso della speranza.

TUTTO CIÒ CHE EFFETTI HA PRODOTTO NELLE URNE?
Bisogna guardare ai ceti medi impauriti e in crisi. Sono i tanti penultimi che temono di diventare ultimi. Tra questi, facendo una forzatura dal punto di vista della lettura ideologica, ci metto anche le piccole e medie imprese, i capitalisti molecolari, i lavoratori autonomi, i precari, i lavoratori della conoscenza, la classe creative e le partite Iva. Ora, ragionando in termini politologici anche se non è il mio campo, sa dove vedo la dimensione degli ultimi? Stanno in quel 37 per cento di astensione.

LA POLITICA HA SOTTOVALUTATO QUESTO TIPO DI FENOMENI?
È lo iato di cui parlavo tra le élite e i sottostanti. Da anni succedono cose che ne sono l’effetto. Il leghismo e il grillismo sono stati segnali forti. Anche quello di oggi, il melonismo, è altrettanto forte e va interpretato. Per farlo bisogna ragionare in termini gramsciani di blocco sociale ed egemonia culturale. Se uno scompone e ricompone questo blocco sociale ritrova le piattaforme territoriali e quelle digitali, fatte di piccoli comuni e territori in polvere. Ci sono anche le città-distretto, lì dove c’è la crisi della Lega. È lì che Salvini ha perso i suoi penultimi. E poi bisogna considerare i cambiamenti delle città medie e delle città metropolitane, dove è finita l’egemonia della Ztl, a proposito di élite. Dentro le città metropolitane c’è la composizione dei nuovi ultimi, ci sono quelli che non hanno reddito di sopravvivenza. Ecco: nella guerra tra i penultimi e gli ultimi la posta in palio era il reddito di cittadinanza.

CHE FARE?
Bisogna fare società, bisogna dare vita a politiche e forme di rappresentanza che si interpongano tra gli ultimi e i penultimi. Tra economia e politica, rimettere in mezzo la società. Bisogna lavorare sulle dissolvenze, sulla dissolvenza della Lega sul territorio e la dissolvenza dei partiti della sinistra.

LA POVERTÀ POLITICA A SINISTRA CONTRASTA CON LA RICCHEZZA DELLE ESPERIENZE SOCIALI SUI TERRITORI.
È così. Faccio un esempio: durante la pandemia ci siamo accorti che avevamo costruito un welfare verticale, ci siamo accorti che lo Stato non aveva la capacità di percorrere l’ultimo miglio. Quello spazio per fortuna era coperto da un tessuto orizzontale di militanza sociale. Ma la politica non ha capito nulla e ha continuato come prima, pensando che fosse sufficiente delegare tutto ciò alla Caritas.

INVECE QUESTE PRATICHE SONO CENTRALI?
Sono distretti sociali evoluti, interrogano l’economia e i modelli di sviluppo. Questa nebulosa è effervescenza sociale, è quella che chiamo la comunità di cura larga. Non è solo l’associazionismo, il volontariato o il terzo settore. È anche la medicina di territorio, le scuole, gli psicologi, il sindacato e le nuove rappresentanze, le organizzazioni delle piccole partite Iva e dei lavoratori creativi. Si riparte da qua, altrimenti vince la comunità rancorosa.
Il rapporto tra sfera sociale e dimensione politica è il nodo irrisolto di questi anni di crisi della sinistra. Che nesso c’è tra il fare società e il potere costituente?
Le esperienze di cui parlavo prima sono oasi. Noi dobbiamo capire come fare carovana tra le oasi. Prima di ripartire per il deserto, per attraversarlo e fare esodo, ci si ritrova per il caravanserraglio. Di oasi in oasi, si fa carovana. La carovana non ha a che fare la forma-partito. Basta andare in giro per l’Italia, è tutto un pullulare di fermenti che rimangono chiusi e autoreferenziali e che devono fare carovana. È questa, adesso, la grande questione politica.
*( Fonte: Il Manifesto. Giuliano Santoro, è un giornalista e scrittore italiano.)

06 – Tommaso Di Francesco*. IL COMMENTO DELLA SETTIMANA
Una stagione di disfatta a sinistra, insieme così nuova e tetra in Italia non c’è mai stata dal dopoguerra a oggi, con l’affermazione netta, a man bassa – alla fine grazie al ’iniquo Rosatellum,-non democratica, se si vedono i voti reali – e con risultati che sconvolgono non solo il quadro partitico italiano ma le stesse istituzioni democratiche sostenute dalla Costituzione nata dalla Resistenza antifascista. Perché la formazione vittoriosa a guida Meloni si ispira al neofascismo – ci ostiniamo a dire post-fascista, sbagliando perché non si richiama al ventennio mussoliniana irriproducibile, ma a settanta anni di insidia della democrazia rappresentata dal Msi e dalle sue evoluzioni partitiche, in una litania di strategie della tensione, spesso interne agli apparati dello Stato e con legami internazionali, che ha disseminato di stragi la storia repubblicana.
Attenzione però a vedere questo stravolgimento solo come riguardante l’Italia. Il terremoto infatti riguarda la stessa Europa unita fin qui realizzata che non vuole vederla perché c’è la guerra Ucraina nel pieno di una devastante escalation, con le pipeline colpite e le promesse russe che arrivano di guerra atomica e reazioni Usa «consequenziali».
Dei tre commenti che a caldo sono arrivati sulla vittoria di Fd’I, tre colpiscono in modo particolare: quello del premier polacco Morawiecki, con cui Meloni condivide tutto.
Dio, patria e famiglia, autoritarismo e filo atlantismo rilanciato alla luce del conflitto russo-ucraino; poi il portavoce della formazione Vox, filo-franchista, questa sì e apertamente nostalgica e perfino filo-mussoliniana, Santiago Abascal che vede nella vittoria dell’estrema destra di Fd’I «quelli che indicano la strada»; ma soprattutto il primo, semplice titolo del New York Times: «È uno spostamento a destra dell’Europa intera». Che fa il paio con la consapevolezza diffusa e l’evidenza che il traino dell’Europa è ormai diventato proprio l’est delle democrazie illiberali di Ungheria, Polonia, Repubblica ceca, con i Baltici tutti impegnati nella ricostruzione di una forte rilegittimazione delle rispettive sovranità nazionali, alimentando nazionalismo, xenofobia, razzismo e limitazioni dello stato di diritto. E che come ogni buon nazionalismo è ostile e si proclama superiore e antagonista a quello degli altri.
L’affermazione della destra estrema in Italia mette a nudo la condizione di estrema fragilità dell’Unione europea residua. Che fine ha fatto l’Unione europea voluta dai padri fondatori come Altiero Spinelli, sovranazionale e solidale, in economia, istituzioni, diritti, welfare, frontiere aperte, politica estera? O vacilla o non c’è, sotto il peso della crisi economica, pandemica e della guerra. Sforna montagne di denaro, che non olet e che può gestire con vantaggio anche ogni regime di «democratura» come direbbe Predrag Matvejevic.

Ma la percezione dei cittadini europei qual è? Se aumenta la povertà per tutti e la ricchezza per pochi, se la crisi energetica e le sanzioni tagliano i bilanci familiari, se il riarmo è la condizione primaria di spesa di paesi centrali nella tenuta delle fondamenta e della storia dell’Unione, come la Germania che con 200 miliardi impegnati nella Bundeshwer trapassa nella zona buia che cancella i tabù della sua storia troppo spesso infausta?

È dunque uno spostamento a destra dell’intera Europa, certo già in itinere ma che ora si radicalizza con l’avvento della destra estrema italiana arrivata al governo. Nessuno si faccia illudere dalle schermaglie iniziali «controlleremo il rispetto dei diritti», controproducenti, di Ursua von der Leyen sulla vittoria di Meloni, o le preoccupazioni veritiere della prima ministra francese. L’Unione europea che abbiamo conosciuto non esiste più. Traballa in vita solo grazie al sostegno di due grandi nazioni, Germania e Francia dove la leadership di Macron è in grave difficoltà, si può dire in netta minoranza politica nel Paese, anche per l’emergere a destra del fenomeno Marine Le Pen «fratello francese» di quello di Giorgia Meloni.
Fratelli d’Italia, nel solco delle «ragioni» neofasciste di questi settanta anni, altro non è adesso in chiave internazionale che la rappresentazione forte del sovranismo nazionalista italiano, erede rivisitato del populismo, e su basi ideologiche di estrema destra, che fa e farà subito dell’obiettivo di «fermare i migranti ad ogni costo» – del resto aiutata non poco dalla scelta di esternalizzazione delle frontiere della stessa Unione europea e dalla disparità vergognosa di trattamento tra profughi ucraini e quelli del disperato resto del mondo – una abile quanto violenta ragione di governo. Un sovranismo nazionale estremo in una forma forte e desueta che mai avevamo conosciuto, perché Salvini da questo punto di vista è un impostore con provenienza da una formazione separatista.
All’irruzione di questo nuovo nazionalismo, in una deriva della storia politica europea che vede in Svezia l’affermazione di una forza di estrema destra razzista, l’Ue non reggerà. Perché metterà in discussione, di fatto, i contenuti della Costituzione italiana che legano il Paese fondante come l’Italia all’Unione: l’articolo 11 che bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali, potrebbe essere in pericolo, denunciava in questi giorni il costituzionalista Andrea Manzella sulle pagine del Corriere della Sera. Soprattutto grazie a Putin che con l’aggressione all’Ucraina alimenta la preparazione dell’Europa alla guerra. Giorgia Meloni cavalca questo disastro, tanto più che la crisi economica pesante che si affaccia aiuterà la rivendicazione nazionalista in Europa, con la riapertura populista delle richieste sul Pnrr fino alla «revisione dei Trattati», da apparire lei come la «vera europeista» di fronte alla divisiva crisi energetica in atto.
E soprattutto sotto l’ombrello protettivo degli Stati uniti, perché dice Blinken: «L’Italia è preziosa alleata…siamo ansiosi di lavorare con il nuovo governo» a guida Meloni. In virtù della sua reiterata fedeltà alla Nato, e dove c’è l’Alleanza atlantica non c’è politica estera europea. È questo un portato politico costitutivo – l’atlantismo nella guerra fredda era anticomunista – del Msi nella sua molteplice storia antidemocratica, cuore e anima del «pensiero» che infiamma Giorgia Meloni.
*( Fonte: Il Manifesto. Tommaso Di Francesco, un poeta, giornalista e scrittore italiano)

 

07 – Yascha Mounk,*: VISTI DAGLI ALTRI . Cosa c’è dietro al voto degli italiani per Giorgia Meloni. Qualche anno fa mi ero fermato a una stazione di servizio per fare benzina alla Fiat Cinquecento di mia madre non lontano dalla nostra casa di famiglia, nel sud della Toscana.
Quando sono entrato nel negozio per pagare, ho notato che vendevano degli accendini con sopra la faccia di Benito Mussolini, il dittatore fascista che ha governato l’Italia dal 1925 al 1943.
Sono rimasto scioccato. La Toscana è sempre stata una regione tradizionalmente di sinistra. Il monte Amiata, una montagna ricoperta di boschi sul cui crinale sorge il mio paese, è stato usato come base dai partigiani che combattevano i nazisti durante la seconda guerra mondiale. Per quale motivo il benzinaio locale si era messo a vendere souvenir fascisti?
L’ho chiesto alla persona alla cassa. Si è imbarazzato. “Neanche a me piacciono. Ce li hanno mandati dal quartier generale qualche giorno fa”, mi ha risposto. Poi si è ripreso, felice di trovare qualcosa che, secondo lui, mi avrebbe sicuramente rabbonito. “Non si preoccupi: la settimana prossima ci arrivano degli accendini con la faccia di Che Guevara!”.
La costituzione italiana, che è entrata in vigore nel 1948, è decisamente antifascista, eppure la cultura politica del paese non ha veramente mai rotto in modo netto con il suo passato. Se una stazione di servizio tedesca vendesse oggetti che commemorano Adolf Hitler sarebbe davvero scioccante (e probabilmente illegale): in Italia, trovare souvenir di Mussolini in vendita nei negozi non è così inusuale. Allo stesso modo, mentre i grandi partiti tedeschi non vogliono avere nulla a che fare con gli estremisti di destra come Alternative für Deutschland, in Italia i partiti con radici neofasciste fanno da tempo parte del panorama politico.

RADICI PREOCCUPANTI
Nonostante questo, il successo elettorale del 25 settembre di Giorgia Meloni e del suo partito, Fratelli d’Italia, è senza precedenti. È infatti la prima volta nella storia italiana del dopoguerra che un partito con radici fasciste è stato il più votato alle elezioni. E ora è molto probabile che Meloni, la quale ha ottenuto poco più di un quarto dei voti, diventerà prima ministra alla testa della coalizione di estrema destra che comprende la Lega di Matteo Salvini e Forza Italia, guidata da Silvio Berlusconi.
Come cambierà l’Italia il prossimo governo? E quanto potrà danneggiare le istituzioni democratiche del paese?

LA STORIA D’ITALIA DÀ MOTIVO DI PREOCCUPARSI.
Fratelli d’Italia ha le sue radici nel Movimento sociale italiano (Msi), che fu fondato dopo la seconda guerra mondiale da politici fascisti che avevano avuto un ruolo importante nella repubblica di Salò, il regime fantoccio filonazista che ha governato l’Italia settentrionale dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia nel 1943. Il simbolo del partito di Meloni è una fiamma tricolore, che molti vedono nel suo significato originario di esprimere eterna lealtà a Mussolini.
La stessa Meloni, che guida Fratelli d’Italia dal 2014 ed è cresciuta nel quartiere popolare della Garbatella, a Roma, si è fatta le ossa tra le file giovanili dell’Msi. Oggi inveisce regolarmente contro gli immigrati e il movimento lgbt+, e al livello internazionale ha fatto causa comune con partiti di estrema destra e leader illiberali come l’ungherese Viktor Orbán.
A giugno Meloni è intervenuta a un comizio elettorale di Vox, il partito di destra spagnolo. “Cinquecentotrenta anni fa la caduta di Granada ha concluso la reconquista. L’Andalusia è tornata alla Spagna e l’Europa è diventata cristiana”, ha detto. “Oggi il secolarismo della sinistra e l’islam radicale minacciano le nostre radici”. Il compromesso con questi oppositori è impensabile: i partiti di destra come Vox e Fratelli d’Italia, ha detto, devono dire chiaramente no “alla lobby lgbt”, “alla ideologia del gender” e “all’immigrazione di massa”.
Il fatto che un partito neofascista governerà presto in Italia ha comprensibilmente spaventato gli osservatori internazionali. “Giorgia Meloni potrebbe governare l’Italia, e l’Europa è preoccupata”, diceva un recente titolo del New York Times. “L’Italia sta tornando al fascismo?”, si chiedeva un podcast di Foreign Policy. Ma le cose in Italia non sono mai come sembrano. Anche se la prospettiva di Meloni prima ministra è motivo di sconforto, ci sono poche probabilità che l’Italia effettivamente ritorni al suo periodo più buio.

AL MOMENTO MELONI STA BRILLANDO COME UNA STELLA, MA LA SUA LUCE POTREBBE OFFUSCARSI ALTRETTANTO RAPIDAMENTE
Uno dei motivi è che Meloni ha relativamente preso le distanze dal passato del suo partito. Ha dichiarato che il “fascismo è storia” e ha sospeso i membri del partito che continuavano a inneggiare ai leader fascisti. Meloni ha anche cercato di dimostrare che sarebbe una partner affidabile per gli alleati dell’Italia in Europa e Nordamerica. Per esempio, ha smussato le sue critiche contro l’Unione europea, sottolineando che vuole che il paese resti nell’eurozona. E, a differenza di molti altri leader di estrema destra in Europa, Meloni ha criticato apertamente Vladimir Putin e ha espresso sostegno all’Ucraina.
Ma il motivo principale che fa dubitare che Meloni possa cambiare l’Italia più di tanto è semplicemente che non è né così popolare né così potente come si potrebbe pensare dalla sua vittoria elettorale. Al momento sta brillando come una stella, ma la sua luce potrebbe offuscarsi altrettanto rapidamente.
Alle precedenti elezioni politiche italiane, nel marzo del 2018, il Movimento 5 stelle ha sorpreso gli osservatori internazionali ottenendo quasi un terzo dei voti; Fratelli d’Italia di Meloni aveva preso solo il 4 per cento. Nei due anni successivi ben due governi sono caduti per via del caos e delle rivalità interne, rendendo praticamente impossibile per qualunque partito formare una maggioranza di governo unita.
Tra tutte le opzioni, le principali fazioni del parlamento italiano si sono accordate nel febbraio del 2021 a formare un governo tecnocratico di unità nazionale sotto la guida di Mario Draghi, l’ex presidente della Banca centrale europea.
Fratelli d’Italia è l’unico partito rimasto all’opposizione. Come hanno predetto molti all’epoca, quella scelta ha praticamente garantito il suo successo. Considerata la stagnazione economica e le difficoltà della pandemia che il paese ha subìto ultimamente, la rapida ascesa di Fratelli d’Italia non ha sorpreso nessuno.
Questo suggerisce che la vittoria di Meloni non ha a che fare tanto con il passato fascista italiano quanto con la rabbia per il difficile presente del paese. Ma con lo stesso meccanismo, la popolarità di Meloni potrebbe svanire quando avrà assunto la responsabilità di governo. In questo senso il destino dell’ultimo astro nascente della politica italiana è abbastanza indicativo: dopo il sorprendente successo del 2018, il Movimento 5 stelle ha perso metà dei suoi voti.

ALLEATI LITIGIOSI
Anche la possibile durata di un governo Meloni resta tutta da dimostrare. Per continuare a guidare la coalizione di maggioranza dovrà mantenere il sostegno di entrambi i suoi litigiosi alleati: Salvini farà il possibile per tornare sotto i riflettori e probabilmente si scontrerà con Meloni sulla politica estera (lui, per esempio, è molto meno propenso a sostenere l’Ucraina), mentre Berlusconi, l’eterno opportunista dopo essere stato lui stesso premier per tre volte, non si farà scrupoli a scaricare i suoi alleati se gli converrà farlo. Considerato quanto sono volatili queste personalità – e quanto in Italia si siano dimostrate instabili tutte le coalizioni in passato – la caduta di un governo Meloni tra uno o due anni non sarebbe una sorpresa.
La preoccupazione più imminente riguardo al nuovo governo italiano non è la minaccia delle istituzioni democratiche né tantomeno un ritorno al fascismo. Ci si preoccupa invece dell’effetto che la politica di estrema destra avrà sui progressi faticosamente raggiunti negli scorsi decenni per gli immigrati e le minoranze sessuali in Italia.
Gli italiani del dopoguerra hanno vissuto e respirato politica come pochi altri. I principali partiti avevano milioni di iscritti. I comizi elettorali delle campagne elettorali attiravano folle oceaniche. Normalmente più del 90 per cento degli elettori si presentava alle urne. La posta in gioco politica sembrava esistenziale.
Oggi, nonostante le apparenze, quei tempi sembrano finiti, almeno per ora. Nelle città e nei paesi che ho girato nelle scorse settimane la metà degli spazi per affissioni elettorali era rimasta vuota. In una città collinare della Toscana, un sostenitore di un partito di destra parlava appassionatamente e a lungo, ma aveva solo una decina di spettatori. In un’altra città, un anziano candidato di sinistra aveva attirato un certo pubblico suonando dal tetto di un furgoncino elettorale un pezzo di Fabrizio De André, un cantautore degli anni sessanta e settanta, ma ha subito perso il loro interesse quando ha cominciato a parlare del suo programma politico. L’affluenza alle urne quest’anno è stata inferiore al 70 per cento, il minimo di sempre.
La maggior parte degli italiani con cui ho parlato in questi giorni aspetta il nuovo governo con esausta tranquillità. Una mia vicina, una schietta settantenne che, come quasi tutti nel suo paesino, ha sempre votato a sinistra, mi ha espresso il suo disprezzo per Giorgia Meloni. Ma quando le ho chiesto se fosse preoccupata per quello che la leader di Fratelli d’Italia possa fare al paese, ha alzato le spalle. “Alla fine questo governo non sarà così diverso da quelli precedenti”, mi ha detto. “Non riuscirà a risolvere granché. E poi cadrà”.
Spero che abbia ragione.
*( Yascha Mounk, Traduzione di Claudio Rossi Marcelli, Questo articolo è stato pubblicato dal mensile statunitense The Atlantic.)

Views: 82

AIUTACI AD INFORMARE I CITTADINI EMIGRATI E IMMIGRATI

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*


Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.