N°17 – 23/4/22 – RASSEGNA DI NEWS NAZIONALI E INTERNAZIONALI. NEWS DAI PARLAMENTARI ELETTI ALL’ESTERO

00 – Andrea Fabozzi*: Mattarella: 25 aprile per la pace, non la resa. AL QUIRINALE. Il presidente della Repubblica riceve le associazioni combattentistiche per l’anniversario della Liberazione, assente il presidente dell’Anpi.
01 – Simone Pieranni*: Scholz: «Evitare scontro con la Nato». Guterres va da Putin.
02 – Schirò (pd)* : le pensioni Inps agli ucraini che tornano in Italia.
03 – Luciana Castellina, Massimo Serafini* : Energia rinnovabile, il governo fermo sui decreti cruciali per la svolta.
04 – Serena Tarabini*: Emergenza climatica, annus horribilis per la Terra. CLIMA. Earth day, ennesimo allarme. Guterres (Onu) insiste: basta con la guerra alla natura. Dai ghiacciai alla biodiversità all’Amazonia, nel 2021record di eventi estremi.
05 – Alessandro Santagata*: L’inedita antropologia della guerra partigiana . PENSARE LA LIBERAZIONE. Intervista allo storico Santo Peli, autore di « la necessità, il caso, l’utopia» Santo Peli è uno studioso che non avrebbe bisogno di una presentazione, specie sulle pagine del manifesto.
06 – Michele Giorgio*: Drone su Al Aqsa, decine i palestinesi feriti negli scontri con la polizia. GERUSALEMME. La tensione resta alta intorno al luogo santo minacciato, sostengono i palestinesi, dall’intenzione israeliana di cambiare lo status quo del terzo sito santo dell’Islam
07 – Alberto Olivetti*: Erasmo, Putin, Zelens’skyj. DIVANO. La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti.
08 – Brevi dal mondo: Siria, Afghanistan, India, Honduras. Dopo l’Iraq, raid della Turchia a Kobane: due feriti. Nuovo attentato islamista a Kunduz: almeno 36 morti. Critica il premier Modi, deputato agli arresti in India. Hernández estradato negli Usa, con nuove accuse

 

 

00 – Andrea Fabozzi*: MATTARELLA: 25 APRILE PER LA PACE, NON LA RESA. AL QUIRINALE. IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA RICEVE LE ASSOCIAZIONI COMBATTENTISTICHE PER L’ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE, ASSENTE IL PRESIDENTE DELL’ANPI. E DICE: «UN POPOLO IN ARMI AFFERMÒ IL PROPRIO DIRITTO ALLA PACE, UN’ESPERIENZA TERRIBILE CHE SEMBRA DIMENTICATA DA CHI IN QUESTE SETTIMANE MANIFESTA DISINTERESSE PER LE SORTI E LA LIBERTÀ DELLE PERSONE»
«Dal nostro 25 aprile viene un appello alla pace. Alla pace, non ad arrendersi di fronte alla prepotenza». Dopo gli anni del Covid, Sergio Mattarella torna a ricevere al Quirinale i rappresentanti delle associazioni di ex militari, ex combattenti nella guerra di liberazioni, reduci e familiari dei caduti, quelle che per il ministero della difesa che ne vigila e finanzia i progetti sono le associazioni «combattentistiche e d’arma». Tra questa la più grande è l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani d’Italia, che nel 2021 dichiarava 120mila iscritti (tre volte quelli della seconda, Combattenti e reduci).

Ma ieri al Quirinale il presidente nazionale dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo non c’era, al suo posto un rappresentante della segreteria. Com’è noto, in queste ultime settimane Pagliarulo è stato pesantemente criticato, prima per la sua posizione contraria all’invio delle armi agli ucraini – largamente prevalente al recente congresso, ma che ha sollevato discussioni all’interno dell’associazione – poi per alcuni suoi post di diversi anni fa sulla guerra nel Donbass. Non solo è stato criticato Pagliarulo, quanto tutta l’Anpi è stata attaccata per la linea pacifista che non sarebbe coerente per un’associazione dedicata alla memoria dei combattenti per la libertà.
Mattarella ha confermato la posizione espressa più volte in questi due mesi: considera un dovere aiutare gli ucraini a difendersi dall’aggressione russa e una necessità armarli. «La solidarietà che va espressa e praticata nei confronti dell’Ucraina dev’essere ferma e coesa», ha detto ieri. Parole nette, che ricordano quelle sul dovere di «solidarietà attiva» inviate un mese fa al congresso dell’Anpi. Pronunciate stavolta in un’occasione assai evocativa, la prima di quelle in cui il presidente ricorderà la Resistenza (il 25 aprile sarà ad Acerra, teatro di una delle prime stragi naziste nel ’43).
Pagliarulo non era al Quirinale, spiegano dell’Anpi, perché impegnato nella preparazione dell’iniziativa di questa mattina a Bari dove interverrà con il presidente della camera, il sindaco e il presidente della regione. E spiegano che non sempre il presidente nazionale interviene a questa genere di cerimonia, dove a prendere la parola a nome di tutti è il presidente della Confederazione tra le associazioni. Dal Quirinale, dribblando la polemica, garantiscono che se l’ex presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia ha sempre partecipato in prima fila è perché si teneva anche la premiazione di un concorso per le scuole patrocinato dall’associazione. L’Anpi ha comunque condiviso sui social il discorso di Mattarella, per quanto assai facilmente interpretabile come un intervento nel vivo delle polemiche che hanno sollevato le posizioni dell’associazione.
«La Resistenza – ha detto Mattarella – fu una rivolta in armi contro l’oppressore, difesa strenua del nostro popolo dalla violenza … un popolo in armi per affermare il proprio diritto alla pace». «Un’esperienza terribile – ha aggiunto – che sembra dimenticata, in queste settimane, da chi manifesta disinteresse per le sorti e la libertà delle persone, accantonando valori comuni su cui si era faticosamente costruita la pacifica convivenza tra i popoli».
Il presidente non ha mai mostrato dubbi sulla necessità di armare la resistenza ucraina, oltre che naturalmente sulla legittimità costituzionale della scelta, avendo firmato il primo decreto Ucraina e apprestandosi a firmare il secondo. Ha congedato la associazioni combattentistiche e partigiane raccomandando che «il ricordo e l’esempio non vengano cancellati dal passare del tempo o da improvvisate ricostruzioni che sovrappongono pregiudizi ai fatti».
Intanto c’è la conferma che una parte importante delle associazioni riunite nella Confederazione – Aned, Fiap, partigiani cristiani, famiglie dei martiri delle Ardeatine – questo 25 aprile a Roma non saranno a Porta San Paolo, luogo simbolo della Resistenza, con l’Anpi. Per la prima volta si raduneranno altrove.
*( Andrea Fabozzi. E’ laureato in Economia e Commercio. Ha iniziato il mestiere di giornalista nel 1995)

 

 

01 – Simone Pieranni*: Scholz: «EVITARE SCONTRO CON LA NATO». GUTERRES VA DA PUTIN.
MENTRE MOSCA PREPARA L’OFFENSIVA IN DONBASS E LASCIA INTENDERE LA POSSIBILITÀ DI MIRARE A UN TERRITORIO PIÙ VASTO, CAPACE DI UNIRE FEDERAZIONE RUSSA A DONBASS E TRANSNISTRIA, RICOMINCIANO A MUOVERSI TENTATIVI DIPLOMATICI.

L’UE, CON LE PAROLE del presidente del Consiglio Charles Michel ha chiesto l’apertura immediata di corridoi umanitari da Mariupol e dalle città assediate, in particolare in occasione della Pasqua ortodossa (così come in precedenza era stato richiesto dall’Onu).
Michel dopo la telefonata con il presidente russo Putin ha sottolineato «in maniera diretta» che l’Unione è «unita» nel suo «incrollabile» sostegno alla sovranità e all’integrità dell’Ucraina e ha «dettagliato i costi delle sanzioni europee per Mosca».

MICHEL – CON UN TWEET – ha anche «chiesto a Putin di stabilire in maniera urgente un contatto diretto con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, come chiesto dallo stesso Zelensky». La risposta di Putin però non induce a ottimismo; nella telefonata, secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa russa Tass, Putin avrebbe denunciato «le dichiarazioni irresponsabili dei rappresentanti del Consiglio europeo relativamente alla necessità di una soluzione militare del conflitto in Ucraina».

Le condizioni per arrivare a un’eventuale tregua per il Cremlino sono chiare: «A tutti i soldati dell’esercito ucraino, i militanti dei battaglioni nazionalisti e i mercenari stranieri è stato garantito che avrebbero avuto salva la vita, un trattamento decente in linea con il diritto internazionale e adeguata assistenza medica. Il regime di Kiev non permette loro di cogliere questa possibilità»; ovvero senza una resa palese (che consegnerebbe a Putin qualche combattente del battaglione Azov da mostrare alla sua opinione pubblica come prova della «denazificazione» dell’Ucraina), niente tregua.
LE SPERANZE di un cessate il fuoco sono ora appese alla visita a Mosca che intraprenderà lunedì 26 aprile il segretario generale dell’Onu Guterres. Il suo Eri Kaneko ha precisato che con Lavrov ci saranno «un pranzo e un incontro di lavoro» e che poi «sarà ricevuto» da Putin. Sulla possibile visita a Kiev, Kaneko ha spiegato che l’Onu «è ancora al lavoro con l’Ucraina per la preparazione» della visita. A proposito di una tregua per la Pasqua ortodossa ha aggiunto che l’Onu «lavora con questa speranza».
IERI SULLA SITUAZIONE in Ucraina è intervenuto anche il cancelliere tedesco Scholz (molto criticato dagli ucraini nell’ultimo periodo). Secondo Scholz è assolutamente da evitare un coinvolgimento diretto della Nato; ha poi confermato che la Germania invierà gli aiuti militari pattuiti e che un eventuale embargo al gas russo non sarebbe sufficiente a terminare la guerra.
GUERRA CHE PROSEGUE e continua a mostrare orrori: dopo Bucha, Borodyanka, ora l’attenzione è sulle fosse comuni denunciate dagli ucraini nei pressi di Mariupol, e che verrebbero mostrate da nuove immagini satellitari. Ieri il servizio stampa del comune di Mariupol sul proprio canale Telegram ha affermato che la Russia ha seppellito fino a 9mila civili ucraini nel tentativo di nascondere il massacro avvenuto durante l’assedio della città portuale.
COME RIPORTATO dall’agenzia Ap «Il fornitore delle immagini satellitari, la Maxar Technologies, ha affermato che le foto mostrano più di 200 fosse comuni» nella città di Manhush, a una ventina di chilometri da Mariup
*( Simone Pieranni, laureato in Scienze Politiche, nel 2009 ha fondato China Files, agenzia editoriale con sede a Pechino che collabora con media italiani)

 

 

02 – SCHIRÒ (PD): LE PENSIONI INPS AGLI UCRAINI CHE TORNANO IN ITALIA. Ai cittadini ucraini i quali avevano lavorato in Italia ed erano poi tornati in Ucraina, e che ora sono nuovamente tornati in Italia perché costretti a lasciare il loro Paese di origine a causa della guerra in corso, non saranno revocate le prestazioni di vecchiaia italiana di cui erano diventati titolari grazie ad una particolare disposizione di legge del 2002 che prevedeva il pagamento della pensione italiana in caso di rimpatrio nel Paese di origine, e cioè, in questo caso, l’Ucraina. 20 aprile 2022

A comunicarlo è il messaggio INPS n. 1515, dopo le indicazioni ricevute dal Ministero del Lavoro. Infatti l’articolo 18, comma 13, della legge 30 luglio 2002, n. 189, stabilisce che: “ in caso di rimpatrio il lavoratore extracomunitario conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e può goderne indipendentemente dalla vigenza di un accordo di reciprocità al verificarsi della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, anche in deroga al requisito contributivo minimo previsto dall’articolo 1, comma 20, della legge 8 agosto 1995, n. 335”.

Si tratta in sostanza della norma che garantisce ai lavoratori stranieri che hanno pagato i contributi in Italia e che sono ritornati per sempre nel loro Paese di origine di percepire la pensione, anche se non hanno maturato in Italia il requisito minimo contributivo e anche se non esiste un accordo di sicurezza sociale tra l’Italia e il Paese di orgine dello straniero (l’Ucraina non fa parte dell’Unione europea ed è quindi esclusa dal campo di applicazione dei Regolamenti comunitari di sicurezza sociale).
A partire dal 24 febbraio 2022, a causa del conflitto in corso in Ucraina, molti cittadini ucraini, titolari di un trattamento pensionistico di vecchiaia italiano conseguito usufruendo della deroga di cui sopra, sono stati costretti a lasciare il loro Paese d’origine per stabilirsi nuovamente in Italia o nel territorio di altri Stati.
In base alle disposizioni previste dall’articolo 18, comma 13, della legge n. 189/2002, il venire meno della condizione del rimpatrio definitivo, comporterebbe la revoca della prestazione. Tuttavia, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha rappresentato all’Istituto che “in ragione della situazione di guerra in Ucraina e della conseguente impossibilità per i lavoratori che vi risiedevano di assicurare il rispetto della condizione di rimpatrio di cui all’art. 18, comma 13, della legge 189/2002, nelle more di una definizione più precisa dello status di tali persone in fuga dalla situazione di guerra, la condizionalità si possa ritenere sospesa per causa di forza maggiore”. Conseguentemente, fino a quando non verranno a crearsi le condizioni per un rientro nel paese in condizioni di sicurezza, le prestazioni già in essere potranno continuare ad essere erogate anche in paesi diversi dall’Ucraina e in Italia.
*(Angela Schirò – Deputata PD – Rip. Europa – Camera dei Deputati)

 

 

03 – Luciana Castellina, Massimo Serafini* : ENERGIA RINNOVABILE, IL GOVERNO FERMO SUI DECRETI CRUCIALI PER LA SVOLTA. CLIMA. NON ESISTONO LIMITI TECNICI CHE IMPEDISCANO DI COPRIRE L’INTERO FABBISOGNO DI ENERGIA DEL PAESE CON FONTI PULITE E RINNOVABILI: ESISTE SOLO L’ASSENZA DELLA VOLONTÀ POLITICA DI AVVIARE UN PIANO SERIO IN QUESTO SENSO.
Continuiamo a pensare che il disastro climatico debba rimanere al centro dell’azione politica italiana ed europea, nonostante le tragedie, prima del Covid e ora della guerra. Derubricare gli obiettivi climatici, come concretamente si sta facendo, è un errore che avrà conseguenze pesanti sulla popolazione. Proprio per questo abbiamo di recente sostenuto su questo giornale la necessità di una svolta nelle politiche energetiche del paese.

Non esistono limiti tecnici che impediscano di coprire l’intero fabbisogno di energia del paese con fonti pulite e rinnovabili: esiste solo l’assenza della volontà politica di avviare un piano serio in questo senso. Più in dettaglio, per soddisfarlo, basterebbe ricorrere a un mix energetico di sole, vento ed acqua – il nostro specifico patrimonio naturale – e per quanto riguarda i necessari accumuli di energia vanno sfruttati i pompaggi idroelettrici, ampiamente disponibili e programmabili.

Abbiamo anche precisato che quando parliamo di fabbisogno abbiamo preso come riferimento quello attuale che invece pensiamo vada ampiamente ridimensionato, colpendo sprechi e usi dissipativi e poco intelligenti dell’energia. Nessuno ci ha detto che si trattava di stupidaggini.
La domanda vera, semmai, è quanto tempo occorre per fare tutto ciò. Non siamo pianificatori, né abbiamo le informazioni che solo la Pubblica Amministrazione può avere. Chiediamo solo di cominciare. (E tuttavia esiste già documentazione sufficiente per sapere che le energie rinnovabili sono attivabili con tempi più rapidi e meno costosi di qualsiasi altra ).
Un governo convinto che per governare il clima il paese vada liberato al più presto dalla sua dipendenza dai fossili e non solo dal gas russo, dovrebbe mobilitare le competenze necessarie, informare e coinvolgere la popolazione e trasformare questo progetto “Italia 100% rinnovabile” in un nuovo piano energetico, precisandone i costi e i tempi di attuazione.
Il recente decreto energia del governo e l’affannosa ricerca di paesi da cui procurarsi gas per sostituire quello russo, non ci pare vadano nella direzione auspicata.
Prima di partire per Algeri per mendicare un aumento delle forniture di metano si poteva e doveva dare un segnale diverso, come richiesto dalle principali associazioni ecologiste. Proviamo a indicarne alcune.
Si poteva decidere di emanare i decreti attuativi del decreto sulle comunità energetiche liberandole così, anche se solo parzialmente, dei limiti della legge precedente che ne hanno impedito la diffusione. Bloccare questo strumento, non emanando i decreti attuativi, la dice lunga sulla scarsa volontà di questo governo di avviare quella transizione energetica di cui parla in continuazione senza poi fare nulla.
Prima di porsi il problema di progettare navi gasiere per rigassificare il gas o di perdere tempo con le generazioni immaginarie del nucleare pulito e senza rischi e scorie, si poteva immaginare di emanare questi decreti. Avrebbe consentito alle italiane/i di poter contare su questo strumento di condivisione dell’energia prodotta dalle rinnovabili, cui possono partecipare persone fisiche, comuni, imprese purché questa non sia la loro attività principale. Comunità che non hanno finalità di lucro e potrebbero coinvolgere molte più utenze se questi decreti attuativi fossero emanati.
È incomprensibile il silenzio che circonda le comunità energetiche e quindi insieme ai decreti attuativi va promossa una campagna informativa creando sportelli in ogni quartiere. Fare tutto ciò costa poco e produce occupazione oltre siamo certi che farà capire alla cittadinanza la validità di questo strumento per combattere il caro bollette
Un secondo provvedimento auspicabile che non costa nulla e si poteva varare prima di pensare a nuovi fornitori di gas, poteva essere quello di una generale semplificazione delle procedure autorizzative dei progetti di installazione di fonti rinnovabili.
E, ancora, cosa mai impediva al governo di impegnarsi a promuovere un piano per installare pannelli solari termici e fotovoltaici su tutti gli edifici pubblici?
Ed infine, perché non rispondere all’evidente problema dell’occupazione, convocando i sindacati per un progetto di reindustrializzazione del territorio sviluppando la filiera industriale necessaria ad avviare le fonti rinnovabili? È inaccettabile che per installare turbine eoliche o pannelli solari si debba importare dall’estero gran parte delle componenti che servono.
Tutto questo costa poco, e potrebbe rendere il nostro paese protagonista della necessaria rivoluzione energetica rinnovabile.
*( Luciana Castellina, è una politica, giornalista e scrittrice italiana, parlamentare comunista, più volte eurodeputata, autrice di numerose pubblicazioni, presidente onoraria dell’ARCI dal 2014.
Massimo Serafini, È laureato in Scienze politiche. Collaboratore dal 1963 al 1967 dell’Ufficio studi economici della Cgil di Bologna e dal 1967 membro del Direttivo provinciale)

 

 

04 – Serena Tarabini*: EMERGENZA CLIMATICA, ANNUS HORRIBILIS PER LA TERRA. CLIMA. EARTH DAY, ENNESIMO ALLARME. GUTERRES (ONU) INSISTE: BASTA CON LA GUERRA ALLA NATURA. DAI GHIACCIAI ALLA BIODIVERSITÀ ALL’AMAZONIA, NEL 2021RECORD DI EVENTI ESTREMI

L’Earth Day 2022 cade nel pieno di un annus horribilis per l’ambiente. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres ha parlato di una vera e propria guerra alla natura a cui è necessario porre fine. Tutta una questione di volontà, dice, visto che in passato siamo stati capaci di arginare il buco dell’ozono e intensificare la protezione di specie ed ecosistemi.
LA SITUAZIONE NON È AFFATTO incoraggiante: negli ultime mesi abbiamo bruciato una serie interminabile di record di tutti i tipi: raddoppiata la velocità di scioglimento dei ghiacciai degli ultimi 20 anni, raggiunta la temperatura più alta mai registrata, individuate microplastiche nel sangue umano, l’Amazzonia vicina al punto di non ritorno in termini di deforestazione ( + 22% rispetto all’anno precedente) il più che dimezzamento del regime delle precipitazioni in Europa, balzo in avanti, alla faccia degli obiettivi di riduzione da qui al 2030, nelle emissioni di gas climalteranti.
COME SE NON BASTASSE, ci sta pensando il conflitto in corso in Ucraina a mantenere alto il livello di emissioni, tra quelle dovute alle attività militari, quelle conseguenti alle esplosioni e quelle relative al ritorno al carbone che si prospetta in una situazione di precarietà energetica quale ci troviamo in questo momento. Senza contare gli effetti devastanti e permanenti in termini di inquinamento di aria, acqua e suolo che l’utilizzo di armi leggere e pesanti comporta, i costi ambientali della distruzione e ricostruzione, il trauma subito dagli ecosistemi naturali.
UN BELLO SFONDO PER LA FOTO ricordo delle celebrazioni della terra di quest’anno. Anche l’anno precedente non è stato da meno: mentre adesso scrutiamo il cielo in attesa ansiosa di qualche goccia di pioggia, la scorsa estate in Europa abbiamo assistito a un flusso di precipitazioni culminate il 14 luglio in una bomba d’acqua di 150 mm che ha devastato i bacini della Mosa e del Reno, mettendo in ginocchio intere regioni del Belgio e della Germania come se fossero il sud est Asiatico, e, di contro, settimane e settimane di incendi hanno arso il pianeta dall’Italia alla Turchia, dal Canada all’Australia. Un dramma ambientale fotografato impietosamente dal Copernicus Climate Change, il sistema di osservazione terrestre dell’Ue, i cui dati, satellitari e non, sono stati resi pubblici proprio in questi giorni: nell’estate 2021 l’Europa ha registrato temperature di un grado al di sopra della media di quelle registrate negli anni 1991-2020. Da quando esistono le statistiche, un caldo così non era mai stato registrato. E anche le precipitazioni, sono state le più intense dal 1991. Nel giro di qualche giorno, il bacino del Mediterraneo ha iniziato a subire prolungate ondate di calore. Di conseguenza in agosto in Italia, a Siracusa, e in Spagna si battevano i primati europei di temperatura.

SEMPRE QUELL’ANNO una primavera caratterizzata da gelo tardivo ha danneggiato i raccolti ma ha mantenuto le temperature annuali dell’aria vicine alla media degli ultimi 30 anni (+0,2 gradi). Al contrario, le temperature annuali della superficie del mare su parti del Baltico e nel Mediterraneo orientale sono state le più alte almeno dal 1993. Anche da queste condizioni sono scaturiti gli incendi, che sempre secondo i calcoli del Copernicus Climate Change Service, hanno mandato in fumo oltre 800mila ettari in Turchia, Grecia e Italia.
ANCHE LA PRODUZIONE energetica ha risentito delle bizze del clima. Irlanda, Danimarca, Regno Unito e Germania hanno visto alcune delle velocità del vento annuali più basse almeno dal 1979, che hanno portato a una riduzione del potenziale eolico e a un aumento della domanda di gas che proprio dall’estate scorsa ha iniziato a crescere.
COME SE NON BASTASSE, l’emergenza riguarda anche la salvaguardia delle specie e degli ecosistemi, con buona pace di Guterres. Ce lo dice il documento «Giornata mondiale della Terra 2022: un pianeta in bilico» a cura del Wwf, venuto a ricordarci che «il 75% della superficie terrestre non coperta da ghiaccio è già stata significativamente alterata, la maggior parte degli oceani è inquinata e più dell’85% delle zone umide è andata perduta». Si capisce perché il tasso di estinzione di specie animali e vegetali è 1.000 volte superiore a quello naturale. Colpa sopratutto del consumo di suolo, principalmente a scopo di coltivazione: l’agricoltura mondiale infatti consuma oggi il 40% della superficie terrestre, ed è responsabile del 23% delle emissioni di gas serra.
CHE FARE? Rinnovabili, rinnovabili, rinnovabili. In Italia non sanno più come dirlo Greenpeace, Wwf e Legambiente che – sulla falsariga di quanto suggerito anche da Elettricità Futura di Confindustria – chiedono al governo di autorizzare entro un anno 90 GW di nuovi impianti a fonti rinnovabili da realizzare entro il 2026 e approvare con urgenza un decreto sblocca rinnovabili per sostituire le centrali a gas costruite dopo il blackout nazionale del 2003 e per ridurre i consumi di gas di 36 miliardi di m3 all’anno entro il 2026
*(Serena Tarabini , biologa, collaboratrice del Manifesto, Radio Popolare e altre testate indipendenti. Si occupa di conflitti ambientali e solidarietà .)

 

 

05 – Alessandro Santagata*: L’INEDITA ANTROPOLOGIA DELLA GUERRA PARTIGIANA . PENSARE LA LIBERAZIONE. INTERVISTA ALLO STORICO SANTO PELI, AUTORE DI «LA NECESSITÀ, IL CASO, L’UTOPIA»SANTO PELI È UNO STUDIOSO CHE NON AVREBBE BISOGNO DI UNA PRESENTAZIONE, SPECIE SULLE PAGINE DEL MANIFESTO.
Esperto di storia della classe operaia tra le due guerre mondiali, ha dedicato studi fondamentali alla Resistenza italiana. A lui si devono alcune delle riflessioni più raffinate sulla questione della scelta delle armi e sulla violenza partigiana, nonché sulla memoria della guerra e sugli sviluppi della storiografia. Il suo Storie di Gap (Einaudi, 2014) non ha soltanto permesso la prima vera storicizzazione del fenomeno gappista, ma anche rilanciato il dibattito sulle problematiche etiche del terrorismo urbano sfrondando il campo dagli stereotipi e mettendo in primo piano le motivazioni politiche e le angosce umane insite in quel tipo di guerriglia. Attente alla cultura dei soggetti subalterni, le ricerche di Peli mettono al centro il vissuto dei protagonisti nella loro materialità, complessità e nell’intrinseca conflittualità nei confronti della cultura dominante.
Abbiamo scelto di intervistarlo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni (Bfs, Centro studi movimenti di Parma, pp. 138, euro 16, 2022). Si tratta di una raccolta composta da nove saggi scritti tra il 2010 e il 2021 e già pubblicati in alcuni volumi specialistici. Nell’introduzione si denuncia in modo esplicito «l’uso/abuso pubblico della storia, particolarmente rilevante per un evento fondativo qual è la Resistenza».

Questo volume non può che richiamare alla memoria un’altra sua raccolta di saggi uscita nel 1999 con il titolo «La Resistenza difficile». Quel testo si inseriva in quella che definisce in uno dei saggi («Le stagioni del dibattito storiografico sulla Resistenza») la «terza fase» della storiografia sulla Resistenza. Come è cambiato da allora il modo di leggere quel passaggio storico. Si può parlare di nuove fasi?
Premesso che ogni schematizzazione periodizzante va presa con le molle, utilizzo l’espressione «terza fase» per sottolineare che Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza di Claudio Pavone (1991), opera decisiva per molti aspetti, rappresenta anche l’emancipazione della storiografia resistenziale da ogni pratica di autocensura, sia pur tradizionalmente motivata dall’intento di non favorire i sempre più numerosi detrattori della vicenda resistenziale. Siamo attualmente in una nuova fase? Direi di no, dal punto di vista storiografico, anche se è evidente che si è quasi estinta, da un paio di decenni, l’attenzione per le componenti di lotta di classe e connesse aspettative, questioni sulle quali l’opera di Pavone apriva prospettive interpretative rimaste in buona parte trascurate. Ma è nel discorso pubblico sulla Resistenza che si assiste, a mio parere, ad una progressiva regressione verso retoriche celebrative che richiamano fortemente gli anni ’50 e ’60, mentre vedo riemergere l’immagine, intramontabile perché auto-consolatoria, di un «popolo alla macchia», animato dall’amore per la libertà, la democrazia e la patria. Più o meno consapevolmente, si rilancia l’idea che l’autentica vocazione nazionale si inveri nella guerra di liberazione, confinando di nuovo tra parentesi il fascismo.
All’interno di questa raccolta il saggio «Partito nuovo e aspettative antiche: comunisti e Resistenza» sembra ricco di interesse da molti punti di vista. Può sintetizzarne alcuni contenuti?
L’ipotesi di fondo del saggio è che il «partito nuovo», la sua linea «nazionale», l’obiettivo strategico della realizzazione di una «democrazia progressiva», benché scarsamente compresi e condivisi alla base, furono in fondo accettati o tollerati (a prezzo di un incessante lavoro di pedagogia politica) non tanto in sé, quanto per la «diversità comunista» che il volontarismo, la durezza, l’intransigenza quotidianamente impresse alle concrete forme della lotta lasciavano intravedere. Non a caso, nell’arco di pochi mesi e nella successiva memoria pubblica, è il Partito comunista a costituirsi come «partito della Resistenza per eccellenza», il partito dei martiri, il partito la cui vocazione nazionale e la cui legittimità a governare affondano le radici nel contributo maggioritario dato all’organizzazione della guerra partigiana.
Nell’introduzione scrive che nel corso degli anni le «raccomandazioni e i timori» del partigiano Emanuele Artom sono diventate «fondamentale motivo di ispirazione». Del suo diario dichiara di apprezzare «la profonda tensione antiretorica». Considerazioni simili a quelle che avanza nel saggio dedicato a Claudio Pavone partigiano riflettendo sul suo ultimo libro di carattere autobiografico («La mia Resistenza», 2015).
Sì, continuo a trovare straordinariamente profetica la preoccupazione di Artom, che «fra qualche decennio una nuova retorica patriottarda o pseudoliberale non venga ad esaltare le formazioni dei purissimi eroi». Anche se per il saggio «Memorie partigiane» ho scelto, come frase conclusiva una citazione di Nuto Revelli: «Questo era il nostro partigianato: un’esperienza meravigliosa perché vissuta da gente diversa – mille tipi con mille idee – da gente diversa che s’era ritrovata proprio nel partigianato, nella lotta. Gente comune, con pregi e difetti, non un esercito di santi». E persino il saggio dedicato al diario di Giovanni Pesce si chiude con una citazione di Brecht: «Sventurato il Paese, che di eroi ha bisogno». Insomma, colgo qui una vera e propria ossessione antieroicistica. Tocca agli eventuali lettori scoprire se questa «ossessione» sia ben motivata, e storiograficamente proficua.
Il saggio, intitolato «Eredità e disincanti», pone il problema della disillusione e delle profonde crisi individuali che provocò il modo in cui fu gestito il passaggio dal fascismo alla Repubblica e le ben note questioni della mancata epurazione e della continuità dello Stato. La sua prospettiva indica però un percorso nuovo. Ce lo può illustrare?
In questo saggio constato che esistono ancora dei temi cruciali sui quali si è lavorato troppo poco, tanto che gli esiti sociali e antropologici dell’esperienza partigiana, estremamente diversificati da zona a zona, restano avvolti da impressionismi e approssimazioni. Mi limito a un solo esempio. Sappiamo che in alcune zone l’aver impugnato le armi – e dunque aver versato sangue, dello straniero ma anche di italiani, magari concittadini – diviene un marchio di pericolosità sociale, fonte di emarginazione, tanto da indurre in molti casi all’emigrazione. Per le partigiane, anche le prospettive matrimoniali sono fortemente compromesse. In altre zone invece l’esperienza partigiana costituisce da subito un titolo di benemerenza, e favorisce l’inserimento nella vita lavorativa, negli affari, nelle istituzioni. Se si passa dalla categoria astratta della Resistenza, alla brutale concretezza dell’esperienza partigiana e dei suoi lasciti esistenziali, è facile percepire quanto la varietà delle situazioni imponga comparazioni e distinzioni decisive. In questa direzione resta ancora molto da fare.
*( – Alessandro Santagata, è ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università di Padova. Si è occupato principalmente di storia del cattolicesimo politico e della Chiesa, con particolare attenzione alla storia italiana. Tra le sue pubblicazioni, La contestazione cattolica.
– Santo Peli si è laureato in Lettere nel 1973, ha insegnato Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, fino al 2013. I suoi campi di ricerca sono in particolare la conflittualità operaia tra Prima e Seconda guerra mondiale e la Resistenza italiana)

 

 

06 – Michele Giorgio*: DRONE SU AL AQSA, DECINE I PALESTINESI FERITI NEGLI SCONTRI CON LA POLIZIA. GERUSALEMME. LA TENSIONE RESTA ALTA INTORNO AL LUOGO SANTO MINACCIATO, SOSTENGONO I PALESTINESI, DALL’INTENZIONE ISRAELIANA DI CAMBIARE LO STATUS QUO DEL TERZO SITO SANTO DELL’ISLAM.

La polizia israeliana ha impiegato ieri un drone che sgancia allo stesso tempo una decina di candelotti lacrimogeni per disperdere le proteste sulla Spianata della moschea di Al Aqsa dove hanno pregato oltre 100mila fedeli. Una novità per Gerusalemme. Questo tipo di velivoli di solito è usato dall’esercito israeliano in Cisgiordania nei confronti delle manifestazioni palestinesi. Averne visto uno volteggiare sopra la città vecchia conferma che le forze di sicurezza israeliane sono pronte a reagire ancora con il pugno di ferro. Centinaia di palestinesi ieri, terzo venerdì di preghiera del mese di Ramadan, sono tornati ad affrontare la polizia sulla Spianata, scagliando pietre contro i reparti antisommossa entrati sui cortili di Al-Aqsa dal lato di Bab Al-Silsila, mentre tiratori scelti, dai tetti, sparavano proiettili di gomma e lacrimogeni. Una sessantina i manifestanti feriti, una poliziotta israeliana è stata colpita al volto da una pietra. Nel pomeriggio la tensione era ancora alta anche se non ha raggiunto i livelli di venerdì della scorsa settimana quando la polizia israeliana, entrata sulla Spianata, ha ferito oltre 150 palestinesi e arrestato più di 400 persone. A Yamoun, in Cisgiordania, è spirato un diciottenne palestinese, Lutfi Labadi, ferito quattro giorni fa durante un raid dell’esercito israeliano.
I palestinesi continuano ad accusare Israele di voler cambiare lo status quo dei luoghi santi che per decenni ha visto gli ebrei pregare al Muro del pianto, i musulmani sulla Spianata di Al Aqsa e i cristiani al Santo Sepolcro. L’obiettivo concreto, affermano, è dividere la Spianata in due parti – una per i musulmani e una per gli ebrei – e di costruirvi una sinagoga o addirittura il terzo Tempio. Lo confermerebbe, aggiungono, il via libera che il governo Bennett, come quello precedente di Benyamin Netanyahu, ha dato a visite sempre più frequenti sulla Spianata di folti gruppi di millenaristi ebrei e attivisti della destra religiosa israeliana. Il ministro degli esteri Yair Lapid ha negato con decisione, incontrando due giorni fa una delegazione dell’Amministrazione Biden, che questa sia l’intenzione di Israele e ha accusato il movimento islamico Hamas di diffondere notizie false per dare fuoco alle polveri della rabbia dei palestinesi. I dubbi però restano e li hanno espressi anche i rappresentanti dei paesi arabi, alcuni alleati di Tel Aviv, e dell’Autorità nazionale palestinese che giovedì si sono riuniti ad Amman per chiedere il pieno rispetto dei diritti di arabi e musulmani su Gerusalemme.
Di erosione, in parte già avvenuta, dello status quo della Spianata di Al Aqsa, ha scritto l’analista Amos Harel del quotidiano israeliano Haaretz, «con l’aumento del numero di visite degli ebrei e il sostegno del governo che ha chiuso un occhio sul fenomeno…contribuiscono inoltre le provocazioni della destra, come la Marcia delle bandiere, che alcuni attivisti hanno cercato di tenere mercoledì». Queste persone, avverte Harel, «stanno giocando con il fuoco e non saranno soddisfatte fino a quando non scoppierà una guerra». L’analista allo stesso tempo punta il dito contro Saleh Aruri, uno dei leader di Hamas, che a suo dire avrebbe ricevuto l’incarico di tenere alta la tensione a Gerusalemme e in Cisgiordania gettando benzina sul fuoco delle proteste sulla Spianata.
Da segnalare l’intervento ieri di Michael Lynk, Relatore speciale delle Nazioni Unite per i Territori occupati palestinesi, che il mese prossimo lascerà l’incarico all’italiana Francesca Albanese. «Nelle ultime settimane si è assistito a un crescente livello di violenza associato ai 55 anni di occupazione israeliana della Palestina. L’inazione internazionale di fronte a questi nuovi livelli di violenza non farà che incoraggiare altra», ha scritto in un comunicato. Lynk accusa Israele di «aver scelto di approfondire la sua occupazione attraverso la creazione di 300 insediamenti nel territorio palestinese occupato in violazione del diritto internazionale, dove 700.000 coloni ebrei israeliani vivono con pieni diritti di cittadinanza legale e politica tra cinque milioni di palestinesi apolidi e senza diritti».
*( Michele Giorgio, giornalista, da anni vive in Medio oriente da dove è del quotidiano il manifesto. Per Alegre ha pubblicato nel 2012 Nel baratro.)

 

 

07 – Alberto Olivetti*: Erasmo, Putin, Zelens’skyj. DIVANO. La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti

Della guerra Erasmo da Rotterdam scriveva che solo chi non sa cosa sia, chi non l’ha mai provata, può prendere in considerazione di far ricorso alla guerra e propugnarla e scatenarla. Nel 1508 Erasmo compie la prima stesura di Dulce bellum inexpertis («Chi ama la guerra, non l’ha vista in faccia»).
Per le sue amare riflessioni prende spunto da un antico adagio attestato nell’Arte della guerra da Vegezio, allorché richiama i versi di Pindaro: «La guerra è grata a chi non l’ha sperimentata, ma chi l’ha sperimentata prova un grande orrore se essa si avvicina al suo cuore».

«LA GUERRA È GRATA A CHI NON L’HA SPERIMENTATA, MA CHI L’HA SPERIMENTATA PROVA UN GRANDE ORRORE SE ESSA SI AVVICINA AL SUO CUORE»
Pindaro

Trascrivo i seguenti brani di Erasmo nella scorrevole traduzione di Silvana Seidel Menchi: «Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. (…) A questo punto ho la sensazione di sentirsi levare contro di me le proteste di quei venturieri, che mietono il loro raccolto nelle calamità pubbliche: ‘Noi facciamo guerra controvoglia, vi siamo costretti dalle prepotenze altrui. Noi perseguiamo il nostro diritto. Tutte le sventure che la guerra porta con sé devono essere messe sul conto di coloro che, la guerra, l’hanno provocata’». E, non senza indignazione, Erasmo aggiunge: «Prego questi tali di tenersi tranquilli ancora per un po’, ché al momento opportuno confuterò i loro sofismi: lo voglio spazzar via, questo belletto, col quale inverniciano la nostra malattia».

Mi si chiede perché leggere Erasmo? Col proposito di farmi un’opinione che abbia qualche fondamento e possa dire mia, da che (e sono ormai due mesi; e senza sosta; e terribilmente) si versa sangue tra europei in Europa, cerco di alimentare le mie riflessioni appoggiandomi, con criterio e per quanto posso, alle meditazioni e ai giudizi contenuti nelle opere di quei pensatori che hanno ragionato di pace e di guerra.

Così per intendere la ‘visione’ e il modo di operare di Vladimir Putin sfoglio la corrispondenza, fra 1564 e 1579, tra il principe Andrej Kurbskij e lo zar Ivan il Terribile; scorro gli annali dell’età di Pietro il Grande (1682-1725) che ai suoi tempi, come scrisse Stalin, «compì un notevole tentativo per superare l’arretratezza» della Russia; e tengo presente l’Urss di Stalin (dal 1922 al 1953).

Guardo, insomma, agli sviluppi secolari delle forme dell’autocrazia nella storia russa.
E un medesimo contegno, nell’intento di capire, mantengo per intendere la ‘visione’ del mondo e il modo di operare di Volodymyr Zelens’skyj. Dopo averne interpretato con enorme successo di audience la parte in un serial televisivo (Sluha narodu, «Servant of the People»), viene eletto nell’aprile del 2019 presidente della Repubblica Ucraina con il 73% dei consensi.
A chi gli chiede se avverte una qualche diversità tra i ruoli, ha testualmente dichiarato: «Quale è la differenza?». Una semplice continuità, allora, tra spettacolo e istituzioni, tra la battuta da recitare e un discorso da tenersi (secondo un copione?) ai cittadini. Un convincimento che ha ribadito affermando: «Volodymyr Zelens’skyj è il progetto di Volodymyr Zelens’skyj».
Per comprendere dunque la sua formazione politica, cerco di informarmi sulla storia degli spettacoli realizzati nei teatri di posa della casa di produzione Kartal 95 Club che giovanissimo mise in piedi e sulla figura del proprietario, l’oligarca miliardario Ihor Kolomojs’kyj.
Cerco di sapere quale sia l’idea di libertà, di democrazia, di giustizia di Kolomojs’kyj, il creatore e il suggeritore delle parole libertà e democrazia e giustizia nella bocca di Zelens’skyj. L’oligarca che ha avuto un ruolo decisivo nell’omologare come partito politico l’equipe del serial televisivo da lui prodotto, e nel designare alla carica di capo dello stato l’attore protagonista, grazie ai suoi mezzi dilagante nello show system, nei social, nelle tv, nei video.
Esamino, verifico, studio. È il dovere di chi non si schiera a giustificare il sangue e si dichiara contro il proseguimento della guerra.
*( Alberto Olivetti, Professore ordinario di Estetica nell’Università di Siena, autore di numerosi scritti di storia della filosofia, di estetica e di critica).

 

 

08 – Brevi dal mondo: SIRIA, AFGHANISTAN, INDIA, HONDURAS. DOPO L’IRAQ, RAID DELLA TURCHIA A KOBANE: DUE FERITI. NUOVO ATTENTATO ISLAMISTA A KUNDUZ: ALMENO 36 MORTI. CRITICA IL PREMIER MODI, DEPUTATO AGLI ARRESTI IN INDIA. HERNÁNDEZ ESTRADATO NEGLI USA, CON NUOVE ACCUSE

SIRIA
Prosegue l’offensiva turca contro i luoghi del confederalismo democratico tra Siria e Iraq. Da giorni, oltre alle montagne del nord iracheno, base militare e politica el Pkk, droni turchi stanno colpendo la Siria del nord-est. Ieri mattina due feriti sono stati feriti dai raid di due droni nel centro di Kobane, la città curda simbolo della resistenza all’Isis. Dopo un’ora di calma, i bombardamenti sono ripresi provocando danni ad alcuni negozi. Oltre ai droni, la Turchia ha impiegato l’artiglieria dalle basi lungo il confine nord tra Rojava e Bakur, il Kurdistan turco.

NUOVO ATTENTATO ISLAMISTA A KUNDUZ: ALMENO 36 MORTI
Dopo giorni di attentati contro la minoranza sciita hazara, ieri in Afghanistan nel mirino è finita la moschea sunnita di Mawlavi Sikandar nella città di Kunduz. Sarebbero almeno 36 gli uccisi e oltre 40 i feriti. Nessun gruppo ha per ora rivendicato ma il solito sospetto è lo Stato islamico e la sua “filiale” afghana, «Provincia di Khorasan». Che si è invece intestato gli attentati degli ultimi giorni, tra cui quello che giovedì ha colpito una moschea hazara a Mazar-i-Sharif (31 morti e 87 feriti). Il 19 aprile a essere colpiti erano stati una scuola e un centro educativo a Kabul, nel quartiere hazara Dasht-e-Barchi. Decine le vittime tra gli studenti.

CRITICA IL PREMIER MODI, DEPUTATO AGLI ARRESTI IN INDIA
Colpevole di tweet: giovedì il parlamentare indiano Jignesh Mevani è stato arrestato per aver criticato sul social network il primo ministro Narendra Modi, mentre in India arrivava il premier britannico Boris Johnson. Nel tweet Mevani, noto per il suo impegno a favore della marginalizzata casta Dalit, ha accusato il nazionalista hindu Modi di fomentare il settarismo religioso mitizzando la figura di Nathuram Godse, assassino del Mahatma Gandh e da una buona parte della destra indiana considerato un eroe. Per Mevani l’accusa è di «disturbo della pace e la tranquillità pubbliche». E Twitter ha rimosso il post.

HERNÁNDEZ ESTRADATO NEGLI USA, CON NUOVE ACCUSE
L’ex presidente dell’Honduras, Juan Orlando Hernández, è stato estradato giovedì negli Usa, dove è imputato per traffico di droga e armi da fuoco. Appena è stato imbarcato su un volo diretto a New York il procuratore generale Merrick Garland ha rivelato anche un nuovo capo d’accusa contro di lui: cospirazione per proteggere e trarre profitto dagli spacciatori che portano la cocaina dall’America latina negli Usa. «Dal 2014 al 2022 ha abusato della sua posizione di presidente dell’Honduras – ha detto Garland – per fare del suo paese un narco-stato».

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