COVID-19: Dio perdona sempre, noi perdoniamo qualche volta, la Natura non perdona mai.

di Roberto Mamone

Premessa

Marzo 2020, epidemia di dengue in America Latina, 320.000 casi. Colera in Yemen: 56 mila le persone contagiate e oltre 2,2 milioni dal 2017. Duecentodiciannovemilioni di casi di malaria nel 2017, con circa 435.000 decessi, oltre il 92% in Africa che continua ad essere devastata anche dal virus Hiv/Aids, dove vive l’11% della popolazione mondiale, ma il 60% dei sieropositivi: è la principale causa di mortalità fra gli adulti. Le malattie epidemiche da sempre sono state uno degli strumenti di autoregolazione delle popolazioni: perché ci illudevamo che i paesi ricchi ne fossero esenti?

 

Tre immagini

La prima ritrae una grande bestia ferita, dominante in altezza, mentre lotta circondata da una decina di predatori che l’hanno isolata cacciandola in branco. Ha un fianco squarciato ed è quasi sul punto di essere sopraffatta. Gemiti, sbuffi, ringhi e gridi di dolore si mischiano a bava e sangue. Un assalitore le morde ripetutamente i garretti per abbatterla e renderla impotente e alla loro mercé; il più audace le è saltato sul grande dorso bruno e cerca di azzannarla mentre si aggrappa affondando le unghie nei fianchi per non essere disarcionato; un altro la tiene impegnata parandosi di fronte a denti nudi e bava, cercando di schivarne le cornate; alcuni avanzano perché l’odore del sangue e la deriva di gruppo li hanno resi frenetici, ma poi indietreggiano senza sapere quale sia il momento giusto per scattare; due o tre sono in terra rantolanti per aver attaccato senza esperienza; uno degli assalitori di taglia più grande, in piedi, appoggiato sul fianco della vittima, sembra spingerla da un lato cercando di far valere il suo peso per piegarla. E d’improvviso, quando l’immaginario spettatore attende solo l’atterramento che sembra ormai inevitabile, e il branco ormai certo dell’esito della lotta già pregusta il pasto di sangue e viscere calde, l’enorme animale raccoglie le forze, incorna l’aggressore che la fronteggia e lo fa volare in alto come fosse di panno, si curva ripetutamente di scatto e si sgroppa di dosso la zavorra più aggressiva facendo rotolare in terra le belve disorientate, scalcia e colpisce violentemente chi le stava mordendo le zampe e attacca a testa bassa gli altri assalitori più timorosi, guadagnando la salvezza.

 

Altro luogo

Un viaggio in un dove semidesertico e senza strada, su un enorme camion che villaggio dopo villaggio continua a caricare a poco prezzo chiunque si presenti su una rotta lungo la quale non ci sono fermate, eppure le fermate sono ovunque. Senza parole salgono in continuazione fagotti, che siano uomini o cose, coperti dagli stessi stracci. Le cose si rivelano solo quando sono lanciate sul tetto dove qualcuno le ammucchia strato dopo strato. Dentro la vettura piccoli mucchi di stracci sono protetti dalle braccia delle madri, ma queste non riescono a fare barriera per evitare la pressione dei vicini, e i posti sono già stipati oltre ogni possibilità di movimento. Non si riesce a respirare per l’afrore, perché i polmoni non possono allargarsi, perché l’aria non passa dai finestrini che sono quasi sempre coperti e soprattutto non riesce ad arrivare a chi per statura o posizione quasi affoga tra gli altri corpi compressi. Altre fermate nel nulla, altro carico, altra zavorra per un camion vetusto che soffre il sovrappeso già dalla stazione di partenza. Si iniziano ad arrampicare sul tetto, chi ha già esperienza del viaggio va al centro e si stende sui miseri viatici, gli altri si credono più furbi e si accovacciano ai margini.

L’aria lassù in alto c’è, e anche se i raggi del sole non sono pietosi, si sta sicuramente più comodi. Ma il percorso è ancora lungo, l’enorme camion continua a fermarsi e le persone seguitano a salire sul tetto. Ormai anche al piano superiore non c‘è più posto, ma al conducente non interessa, basta che paghino: monete che lasciano controvoglia pugni appena schiusi, banconote lerce ed accartocciate, a volte qualche magro argento. Iniziano le discussioni, e non sfociano in violenza solo per mancanza di spazio.

Alla fermata successiva qualcuno decide di scendere. Sono due donne, la più giovane tiene un corpicino in braccio che ha una posa innaturale, la più piccola, incurvata, si affanna a raccogliere le loro cose e cerca invano di farla risalire, ma per due che sono scese dieci sono saliti e i viaggiatori di prima classe dai loro merli immaginari cercano di respingere gli assalitori che però si arrampicano comunque sui finestrini e scavalcano corpi e barriere. Il camion riparte a fatica, investito da ondate di vento e sabbia che penetra dappertutto, fin nelle mutande. La strada è una lunga ondulata e il vecchio veicolo da tempo non fa più uso di sospensioni.

Gli inquilini dei piani superiori che si sono sistemati ai margini hanno capito il loro errore e rischiano di essere sbalzati via ad ogni sobbalzo. Ormai si aggrappano disperatamente agli stessi che hanno cercato di respingerli. Qualcuno vola giù nell’indifferenza dei vicini e del guidatore che non si attarda nemmeno a controllare allo specchietto. Il camion arranca perfino in discesa, le gomme gonfiate oltre misura sono comunque deformi, la carcassa scricchiola e il motore è surriscaldato. Ad un certo punto sembra ribellarsi e non ubbidisce più all’autista, il timone non gira, non vuole proprio evitare la grande buca al margine della strada, ci si tuffa come fosse una pozza di preziosissima acqua, scrollandosi di dosso una gran parte dei passeggeri, spacca tutto, si separa quasi a metà. Riposa.

Altra dimensione

Un corpo celeste perfetto, in armonia con il resto dell’Universo. Quasi tutto il resto dell’Universo. Purtroppo l’evoluzione di un piccolo toporagno, da una manciata di anni, ha preso una brutta piega, e un piccolo cancro, nudo e apparentemente insignificante, si è diffuso ovunque. Pochi miliardi di esseri, in un battito di ali di farfalla, sono riusciti a provocare tornadi, a sigillare il suolo, a diffondersi nelle viscere del terreno e a macchiare le nevi perenni. Non contenti hanno sfogliato foreste millenarie, violato gli abissi senza averli ancora scoperti, perforato la stratosfera che difende da tempi cosmici la vita dall’aggressione solare. Il cancro è riuscito a tarlare le radici di ogni ecosistema, e ha messo in pericolo l’esistenza di centinaia di migliaia di bisbiliardi di altri esseri viventi. Usa ogni arma: il fuoco per le foreste, l’eccesso per le acque, la chimica per il vento, la sregolatezza per il suolo, la disumanità per l’umanità. Gli uomini rapinano risorse ai loro vicini, alla loro genia, alla loro madre. Collegano punti estremi della Terra, ma non sanno più comunicare l’uno di fronte all’altro. Consumano quel che possono vedere, e ben oltre le loro capacità digestive: lo sguardo si estroflette come la mascella di un pesce abissale, alla cieca, per catturare e trangugiare bocconi eccessivi che deformano poi esageratamente corpi e menti.

Il Pianeta li ha avvertiti più volte, mischiando le stagioni, esagerando gli eventi, accerchiandoli con le fiamme o minacciando di sommergerli: a nulla è servito, se non a rafforzare la fede nel dio della tecnologia, la convinzione di non poter vivere senza farsi a manetta fiutando strisce di bisogni creati a tavolino, creati da chi crede di non poter morire senza portare a Caronte montagne di denaro. E allora Gea, la dea primordiale, denuda periodicamente la loro fragilità e, come avviene per tutte le altre specie che non riescono ad autoregolarsi, trasmette il suo microscopico messaggio forte e chiaro per ridurre quel fastidioso prurito superficiale.

E’ molto più silenziosa di un vecchio camion, molto meno agitata della grande bestia, sotterra e non atterra.

ll ridimensionamento funziona per un po’, il tasso di presunzione venefico cala e la civiltà fa due passi avanti dopo essere arretrata. Ma conviene che questa volta l’effetto duri, perché “Dios perdona siempre. Nosotros perdonamos de vez en cuando. La naturaleza no perdona nunca”

(Papa Francesco, 23.3.2020)

 

FONTE: Facebook

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