COVID-19: Diario degli italiani all’estero: “Ecco la nostra emergenza”

(di Laura Fasani: dal Corriere della Sera del 25/3/2020)

Uno screenshot dei messaggi o la trascrizione di un audio, l’icona della bandiera del Paese di provenienza, il nome del mittente e la sua qualifica professionale. È il layout semplice ma efficace di un diario sviluppato su Instagram da Cristiano De Nobili, fisico esperto di intelligenza artificiale, originario di Brescia ma milanese d’adozione, che nei giorni scorsi ha raccolto decine di storie di conoscenti sparsi per l’Europa e le ha riproposte sul social network. Il motivo? Raccontare senza filtri e in tempo reale le esperienze degli italiani che si trovano ad affrontare l’emergenza da coronavirus all’estero. Un contenitore di emozioni, di episodi, di pensieri ma anche un osservatorio privilegiato per capire cosa accade negli altri Stati. Si parla della diffidenza dei colleghi sul lavoro, della preoccupazione per le famiglie in Italia, dei comportamenti della gente per strada, e ancora, delle differenti strategie adottate dai governi. Ma arrivano tracce anche della quarantena di questi giovani italiani espatriati, che a centinaia di chilometri di distanza dalle città d’origine affrontano l’emergenza sanitaria con il pensiero sempre rivolto a casa.
Ecco alcune delle loro testimonianze da tutta Europa, che proponiamo dando voce agli intervistati stessi, proprio come se fossero pagine di un diario scritto a più mani.

Virginia Stagni, 26 anni, business development manager, Londra
Sono chiusa in casa da 19 giorni. Esco solo per fare la spesa e la gente mi guarda come un’aliena perché indosso la mascherina. Ero tornata in Italia a fine febbraio e quindi il mio ufficio, al Financial Times, mi ha lasciata a casa per sicurezza. È stato poi uno dei primi a chiudere, per tutelare noi dipendenti. Solo adesso, in ritardo, Boris Johnson ha annunciato la chiusura totale, dopo le follie sull’immunità di gregge e su un vaccino che non esiste. Ma fino a pochi giorni fa era tutto normale o quasi: la gente usciva, andava nei pub sovraffollati e poi svuotava i supermercati, com’è successo da noi. Senza indossare però nessun dispositivo di protezione individuale, anche se qui tutti hanno una tosse cronica e nessuno può sapere se si tratta di coronavirus o no. Nei primi giorni il governo aveva raccomandato a chi pensava di essere malato di stare a casa una settimana, e di chiamare il pronto soccorso solo in casi gravissimi. Ma la verità è che il sistema sanitario inglese non è pronto: hanno poche migliaia di respiratori per 66 milioni di persone e chi vuole essere curato bene va nelle cliniche private, che costano moltissimo. Come i tamponi, che arrivano a costare 375 pound. Lo dico per esperienza: quest’estate ho avuto una polmonite e i medici mi hanno detto che si trattava di un brutto raffreddore, così sono stata curata con paracetamolo. Dopo una settimana ho avuto un embolo polmonare. Ho ricominciato a sentirmi bene a fine novembre. Questo è uno dei motivi per cui non sono tornata in Italia subito, il viaggio sarebbe stato un rischio troppo elevato per me. E non avrei comunque voluto mettere a repentaglio la salute dei miei genitori.

Andrea P., 33 anni, ricercatore, Zurigo
Per settimane ho provato a spiegare ai miei colleghi che la situazione era grave. “Guardate cosa succede in Italia”, dicevo, “teniamo le distanze di sicurezza quando prendiamo il caffè in pausa”. Reazione? Mi guardavano tutti come se fossi pazzo. La sensazione che ho avuto è che in generale le persone pensassero che le cose andavano così da noi perché gli italiani sono i soliti pasticcioni pressapochisti. Mi ha stupito, perché la Svizzera si comporta di solito in modo eccellente con gli stranieri. Però di fatto fino a quando sono scattate le prime misure, mentre i contagi crescevano in Italia, qui la gente continuava ad andare al lago, correva tranquillamente nei parchi, andava al lavoro. Poi è iniziato il panico collettivo. Io lavoro per una grossa multinazionale nel settore tecnologico, produciamo software. A rigor di logica avremmo dovuto essere i primi ad adottare lo smart working. Adesso anche il governo ha capito che l’isolamento sociale è l’unica strada per contenere i contagi, così siamo a casa. Certo, come tanti ho pensato di tornare in Italia, ma non lo farei. I miei genitori hanno una certa età e non vorrei esporli a rischi inutili. Mia mamma mi aveva chiesto di cercare le mascherine ma niente da fare: anche qui ormai sono introvabili.

Valeria Mantese, 25 anni, traduttrice, Madrid
Per fortuna in casa siamo in cinque e cerchiamo di ammazzare il tempo come possiamo. Facciamo sport in sala, molte cene fra di noi, passiamo serate fra giochi da tavolo o serie su Netflix. Ci stiamo organizzando con un calendario di attività, giorno per giorno. Una delle mie coinquiline lavora in ospedale, quindi proviamo a smorzare la tensione così. Io lavoro da casa, una traduzione la si può fare ovunque. Fino a fine febbraio, a dire il vero, ero molto tranquilla anche io. In Spagna si parlava ancora poco di coronavirus, i giornali proponevano un servizio sul tema al massimo. Poi sono stata un weekend a casa, in provincia di Vicenza. Appena atterrata a Bergamo mi hanno misurato la febbre: ed è stato lì che ho iniziato a capire che la situazione era grave. Gli spagnoli hanno iniziato a preoccuparsi man mano che aumentavano i casi in Italia e all’inizio i casi erano tutti associati agli italiani. Non è stato facile, perché anche le mie coinquiline ripetevano in giro che loro avevano un’alta possibilità di contagio perché c’era un’italiana in casa. Cioè io. Ora la gente inizia a rendersi conto, per quanto stare in casa sia qualcosa di profondamente estraneo all’indole spagnola. Molte attività commerciali non di prima necessità sono ancora aperte, mentre è obbligatorio lavorare da casa. La mia azienda è molto preoccupata delle conseguenze economiche, perché vive di turismo, come del resto la Spagna. E le proiezioni non sono confortanti. Speriamo passi in fretta. È dura. Non avrei mai immaginato di trovarmi in una situazione del genere.

Marco Broccardo, 36 anni, lecturer, Liverpool
L’ironia della sorte? Prima che scoppiasse l’emergenza in Europa stavo già lavorando su un modello statistico di propagazione del virus con alcuni colleghi. I dati erano insufficienti per avere stime attendibili, ma bastavano per capire quali sarebbero stati gli scenari. Mi sono subito preoccupato per la mia famiglia, che abita in provincia di Venezia, da cui vorrei tornare ma è meglio evitare. L’università di Liverpool, per cui lavoro, ha deciso una decina di giorni fa di trasferire le attività online. Facciamo webinar, ricevimenti su Zoom, lezioni via Skype. Da prima ancora avevo chiesto al mio preside di facoltà di chiudere tutto. Prima del lockdown, dal campus erano spariti solo gli studenti cinesi, terrorizzati. L’inglese medio invece è abbastanza freddo, e al proposito credo ci sia stato un misunderstanding sulle politiche del governo inglese. Non vogliono fare ammalare tutti qui, ma sostanzialmente avevano optato per strategie sul lungo periodo. Credevano sarebbe stato un errore adottare leggi draconiane. Ora vedremo. In quanto a me, esco solo a fare la spesa e il massimo lusso è, una volta concluso il lavoro, godermi un bicchiere di vino veneto con qualcuno in videochiamata.

Linda Toffanin, 29 anni insegnante, Traunstein
La mia vicenda è un po’ strana. Mi trovo in un paesino di 15mila abitanti tra Salisburgo e Monaco di Baviera. Sono venuta a trovare mio marito, che vive in Germania per lavoro. Normalmente faccio la “pendolare” appena posso da Pordenone, dove insegno lingue in un istituto professionale. Ma a Carnevale, quando hanno annunciato la chiusura delle scuole, mi trovavo qui e ho deciso di fermarmi. Cosa tornavo a fare, mi sono chiesta. Così ho iniziato anche io a fare didattica a distanza – e se ci sono riuscita io, possono farcela tutti. Come sta andando? È un esperimento strano. Per i ragazzi è fondamentale, sono contenti di vedersi, li aiuta a tenere la presa sulla quotidianità. Non vivono una situazione facile: molti di loro sono chiusi in casa, e non hanno un giardino. Altri non hanno nemmeno un computer. Mando loro i compiti, facciamo lezioni con Google Meet, fra poco comincerò anche a interrogare. Ho una quinta, che si deve preparare alla maturità anche se non si sa ancora come funzionerà. Sentire le loro voci d’altronde fa bene anche a me. Qua è tutto chiuso da qualche giorno, mio marito lavora da casa, i tedeschi saccheggiano i supermercati. Per fortuna ci è ancora permesso fare qualche camminata nei boschi, ma sarebbe diverso se fossimo in una grande città. Il mio pensiero va a voi, che siete nell’occhio del ciclone, e alla mia famiglia, al mio papà anestesista in un ospedale di Pordenone. Da qui sembra tutto ancora più fragile e in pericolo. Spero con tutto il cuore che questa crisi diventi anche un’occasione di riflessione per realizzare quello che tutti noi abbiamo.

FONTE: http://nuvola.corriere.it/

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