COVID-19: Cosa può accadere in Africa ? Esempio Madagascar.

di Maurizio Gandolfi

I pensieri di tutti, in ogni paese del mondo, da un mese ruotano intorno a questo virus che sta cambiando le nostre abitudini, la nostra vita. Si continua a parlare di trend, di terapia intensiva, di recessione. Di morti. Tutti i paesi del nord del mondo hanno due preoccupazioni che occupano la testa dei loro uomini di governo e di “coloro che contano”: la prima è come sconfiggere questo virus nel più breve tempo possibile, con meno morti; la seconda riguarda l’economia del proprio paese, nel dopo pandemia; e per questo timore stanziano centinaia di miliardi di euro (o di dollari), al fine di aiutare le proprie industrie a ripartire, a soffrire il meno possibile di questo cataclisma che ha colpito il nostro pianeta.

Qui nel nord del mondo il disastro sarà forse enorme, certo, porterà con sé anche decine di migliaia di morti, certo, ma prima o poi questo virus sarà vinto e la vita in questi paesi riprenderà, con il corpo ferito, certo, ma riprenderà.

E’ però necessario che molti di costoro inizino a porsi una domanda: se questo virus attecchirà nei paesi del sud del mondo, nei paesi più poveri con la stessa virulenza con cui ha aggredito noi, che cosa succederà a costoro?

Penso all’Africa, a molti paesi dell’America Latina o dell’Asia. Che succederà alla popolazione, ai popoli di questa parte del mondo?

Con sgomento una parola mi esce dalle labbra: uno scempio! Un paese che conosco abbastanza bene è il Madagascar. Il Madagascar è una grande isola nell’Oceano indiano grande quasi due volte l’Italia, con una popolazione di poco superiore ai 25 milioni. Ha un territorio vasto ma con poche comunicazioni, senza ferrovie. Gli spostamenti via aerea sono carissimi, proibitivi per quasi tutta la popolazione.

L’unico reale mezzo di comunicazione, per i 9/10 della popolazione sono i taxi-brousse, mini bus o furgoncini fuoristrada più o meno grandi. In essi la gente viaggia sempre stipata, a volte è possibile trovare persone che viaggiano per più ore (a volte più di 24 ore) una sopra l’altra, su strade dissestate.

La capitale è Antananarivo (circa un milione di abitanti). Una città in cui convivono i più diversi strati sociali. I ceti più poveri, la maggioranza della popolazione, vivono stretti in piccole case una vicina all’altra, alcuni di questi rioni assomigliano alle favelas delle città sudamericane. Altri vivono intorno alla città in case costruite con lamiere o in legno, case quasi tutte sprovviste di servizi.

Se si esclude la capitale poche sono le città con tutti i servizi più importanti, praticamente 6: Tamatave, Antsirabe, Fianarantsoa, Majunga, Tulear, e Diego Suarez. Insieme raccolgono poco più di un milione di abitanti.

Oltre queste ci sono 25-30 piccole città (nessuna di queste raggiunge le 80.000 unità. Tra queste Fort Dauphin, Mananara, Manakara, Sambava, Antalaha, Morondova, Hell Ville, Moramanga Maroantsetra). Esse sono per sommi capi autosufficienti.

Nel complesso gli abitanti presenti nella capitale e in tutte queste città sfiorano i 3 milioni di abitanti. Gli oltre 22 milioni della popolazione vivono o in paesi che vanno dalle poche migliaia di unità alle ventimila o in villaggi con un massimo di 400-500 abitanti. Né questi paesi, né tantomeno i villaggi hanno servizi che soddisfino i bisogni fondamentali (in particolare di quelli sanitari).

Il Madagascar è in assoluto uno dei paesi più poveri del mondo. La popolazione delle città lavora principalmente del terziario. L’industria (principalmente alimentare e tessile) è poco presente in tutto il paese. Al di fuori delle città l’attività principale è l’agricoltura, ma si tratta di un’agricoltura di sussistenza, copre a malapena il loro fabbisogno alimentare.

Sono il primo paese al mondo come produzione della vaniglia, ma il grosso dei frutti rimane fondamentalmente nelle tasche degli esportatori stranieri; pochi altri sono i prodotti alimentari esportati: la canna da zucchero, il caffè e i chiodi di garofano.

Ci sarebbero poi le miniere ma esse sono gestite praticamente tutte da stranieri. Il turismo si sta lentamente sviluppando, ma gran parte delle strutture turistiche sono gestite dai francesi e in alcuni casi, come a Nosy be, dagli italiani. C’è poi il progressivo afflusso dei cinesi che stanno pian piano acquisendo tutte le piccole e medie attività del commercio spicciolo.

Il 70% della popolazione vive in povertà, una gran parte di questi in povertà estrema. Sulle loro tavole è difficile trovare poco di più del riso. Solo una piccola parte della popolazione ha un’occupazione stipendiata, al di fuori delle grandi città; ognuno deve provvedere giornalmente a procurarsi il cibo e gli altri prodotti di prima necessità.

Lo Stato, per tutto questo, praticamente non esiste. Tragicamente insufficienti i servizi sanitari. Ma nonostante tutto questo il popolo malgascio è provvisto di uno spirito allegro, gioioso e le persone hanno una grande dignità. Per farvi comprendere meglio la situazione vi parlo di un paese di circa 20.000 abitanti: il servizio sanitario è ricoperto da due medici; operano privatamente, senza un’adeguata strumentazione. La farmacia è collocata in un piccolo locale non più grande di una nostra edicola ed è sprovvista quasi di tutto, l’unica cosa che si trova in abbondanza è il paracetamolo.

Non esistono supermercati, solo piccoli spacci, grandi come la farmacia, o bancarelle lungo la strada principale. Oltre ad un mercato, all’aperto; la gente si rifornisce fondamentalmente lì. Nelle mattine c’è sempre un grosso assembramento, gente che si accalca lì a rifornirsi per il loro sostentamento. C’è poi qualche piccolo locale dove è possibile bere un caffè o dove mangiare qualcosa, sempre in piccoli edifici in legno o in lamiera, se non con i rivestimenti di sole canne.

Lì i consumatori sono praticamente a contatto l’uno con l’altro. Questi sono gli unici posti di ritrovo oltre alla strada e ai cortili di qualche casa più grande. Poi c’è la chiesa e tutte le domeniche è gremitissima. Poche case sono in muratura per lo più in legno o con le pareti in lamiera o rivestite con le canne. Molte di esse sono sprovviste di wc, ed i servizi si espletano direttamente nel terreno in un luogo rivestito di canne dietro la casa o ai bordi di un cortile.

L’acqua non arriva in casa, ci sono i pozzi per rifornirsene. Sia i “servizi” che i pozzi sono solitamente per più abitazioni, per più famiglie. Le case sono piccole, vicine l’una all’altra e gli abitanti delle stesse sono sempre a contatto fra di loro, difficile isolarsi. Anche le stradine che portano a queste case sono solitamente strettissime.

Una domanda: se questo virus arriva in questi posti che cosa succede? Ancora la solita parola: uno scempio. Cosa possono fare coloro che abitano in questi luoghi per difendersi da esso? A voi la risposta. Poi c’è un’altra cosa, nessuno, come detto può smettere le proprie occupazioni, i propri lavori se vuole procurarsi del mangiare per vivere.

Da tre giorni il coronavirus è arrivato ufficialmente in Madagascar, ma probabilmente era già presente là da prima; l’informazione è scarsissima, arriva per lo più tramite internet, quindi molte informazioni sono false e poco affidabili. Ma si parla da tanto di questo virus e appena si è parlato dei primi casi ufficiali è apparso il panico. Homo homini lupus.

I prezzi dei prodotti alimentari di prima necessità sono lievitati, sono aumentati a dismisura e coloro che riuscivano a sopravvivere a malapena in tempi normali iniziano ad essere terrorizzati.

Si domandano come trovare di che vivere in condizioni simili se questa situazione va avanti.

Il Presidente dice che penserà a provvedere al fine di evitare che a nessuno manchi il cibo per poter continuare a vivere. Ma sarà vero? Hanno i mezzi necessari?

E come pensare a tutta la popolazione disseminata in un territorio vastissimo per lo più con così scarse comunicazioni (strade o mezzi)?

Sto parlando del Madagascar, ma quante nazioni come il Madagascar si trovano in Africa, in America latina, in Asia? Tante. Quante nazioni del sud del mondo rischiano di veder decimate le loro popolazioni se questo virus non lo si riesce a debellare? Tante, veramente tante.

Ed ecco il punto: penso che sia giunto il momento in cui gli stati ricchi, gli stati occidentali, gli stati del nord del mondo, inizino a pensare meno ai loro problemi di recessione e più a come aiutare a sopravvivere milioni di esseri umani che hanno avuto la disgrazia di nascere in stati poveri.

Aiutare questi paesi, per quello che è possibile, dal punto di vista sanitario e aiutarli economicamente rifornendoli dei beni necessari per il sostentamento, per rifornirli del cibo per sopravvivere. E questo è possibile basta che lo vogliano. O preferiscono avere sulla propria coscienza la morte di milioni di esseri umani? Ma, ahimè, questa non sarebbe la prima volta.

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