1320 Omaggio a Galbraith

20060505 16:57:00 webmaster

Lo storico del Crollo, il critico della società opulenta, il narratore del capitalismo americano. Ricordo di un economista

di Augusto Graziani (da il Manifesto del 5 maggio 2006)

Chi lo ha conosciuto ricorda la sua capacità di colloquiare e tenendo sempre testa all’interlocutore. Sorridente e benevolo, largamente prodigo di parole cortesi, ma non alieno da frasi mordenti e (ahimè per l’interlocutore) sempre infallibilmente centrate.
Galbraith ebbe una formazione teorica solida. Nato in Canada, fece i suoi studi all’Università di California.

Successivamente fu accolto come professore di Economia delle università più prestigiose: dapprima Princeton e infine Harvard. Durante la seconda guerra mondiale, Galbraith prestò la sua opera come consulente governativo ed ebbe la responsabilità del controllo dei prezzi e del contenimento dell’inflazione.
All’università di Harvard, Galbraith teneva un seminario settimanale, nel quale, dalle due alle quattro del pomeriggio, si accalcavano gli studenti più avanzati. Era un privilegio farne parte; ma anche un rischio, perché non di rado il professore, interrompendo improvvisamente il suo dire, si rivolgeva al primo che gli capitava a tiro e gli poneva un quesito fulminante. Se il malcapitato non rispondeva prontamente, la stessa domanda veniva girata a un altro, e così via fino a che non si trovava qualcuno che, avendo avuto qualche istante per riflettere, riusciva a trovare una risposta soddisfacente.
I contributi che hanno assicurato a Galbraith la maggiore popolarità non sono nel campo della teoria pura. Tre titoli segnano le tappe della sua attività di pubblicista: Il capitalismo americano, il grande crollo. dove viene analizzata la crisi del 1929 che mise in ginocchio l’economia degli Stati uniti), e La società opulenta. Quest’ultima opera, rimasta la più celebre e quella che gode della maggiore diffusione, contiene una critica instancabile del capitalismo moderno. L’economia nella quale viviamo, osserva Galbraith, ci ha assicurato un benessere materiale crescente e diffuso. Il governo delle grandi imprese assetate di profitto, produce senza tregua nuovi beni materiali (automobili, frigoriferi, lavatrici, e via dicendo), dei quali, grazie alla pubblicità, siamo indotti a sentire un bisogno insaziabile. Chi riflette sulla miseria dei secoli passati, non può che considerare questa evoluzione come un indiscutibile progresso. Ma la disponibilità di beni materiali non è tutto; una società che voglia dirsi davvero avanzata deve porsi mete, forse meno tangibili, ma certamente più ambiziose, a cominciare dalla diffusione della cultura; e qui le lacune sono ancora vistose.
Galbraith formulò questo messaggio rivolto ai suoi concittadini statunitensi alla fine degli anni cinquanta. Messa a confronto con le idee dominanti nella cultura americana del tempo, la sua posizione risultò innovativa e per alcuni osservatori addirittura rivoluzionaria. Negli Stati uniti, la stragrande maggioranza della popolazione riceve una formazione di base estremamente limitata, mentre gli studi più avanzati sono riservati a una minoranza destinata a formare una ristretta classe intellettuale di élite. Questo assetto viene generalmente considerato soddisfacente e adeguato a una società moderna, dedita alla produzione di beni materiali. Il messaggio di Galbraith invertiva le priorità: anzitutto diffusione della cultura e successivamente preoccupazione per la ricchezza materiale. Si trattava di un richiamo a finalità non soltanto più nobili, ma anche pienamente accessibili per una società che, come quella americana, aveva largamente vinto la battaglia contro la miseria. In che misura il suo messaggio sia stato compreso e accettato dai suoi concittadini resta ancora cosa discutibile.
Galbraith era dotato di una penna felice e i suoi scritti sono sempre avvincenti. Questa dote gli permise di spaziare su temi assai vari. Nel 1958, egli compì un viaggio nei paesi d’oltre cortina, dov’era stato invitato a tenere un ciclo di conferenze: era la prima volta che il compito di parlare del capitalismo americano veniva affidato ad un economista estraneo alla scuola sovietica. Nel suo itinerario, Galbraith non toccò la Russia, ma visitò a fondo Polonia e Jugoslavia. Ne risultò un gustoso volumetto di impressioni di viaggio: a partire dall’arrivo a Varsavia, quando il malcapitato Galbraith fu costretto a una lunga serie di brindisi per ognuno dei quali era d’obbligo ingoiare il bicchierino di vodka tutto d’un sorso, fino al commiato finale, quando ebbe la soddisfazione di sentirsi dire in pubblico che le sue lezioni erano state profondamente istruttive, perché il quadro del capitalismo americano che egli aveva tracciato era ben diverso da quello che veniva abitualmente descritto nelle università e nei dibattiti scientifici.
Galbraith lascia il ricordo di un uomo che seppe essere uno studioso accurato e capace di coniugare aspetti diversi della teoria economica pura, ma al tempo stesso un osservatore acuto della realtà e un profondo conoscitore dei fatti. Chi ripercorrerà i suoi scritti troverà non soltanto una larga messe di idee originali ma anche un prezioso insegnamento di metodo: che è quello di perseguire insieme rigore logico e realtà storica.

 

 

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