1501 Perù, Garcia vince e chiede perdono per il passato

20060606 14:10:00 webmaster

Un’immagine annuncia la cautela con la quale Alan Garcia accoglie la vittoria: 16 anni dopo ridiventa presidente del Perù, trionfo con tante spine. Dieci, forse 12 punti in più del nazionalista Ollanta Humala, pupillo di Chavez, non sfumano le ombre che minacciano il futuro governo. Ecco perché prima di alzare le braccia del trionfo si presenta sul palco a mani giunte. Non finge di pregare, sta davvero pregando e ad alta voce. Chiede perdono per gli errori del passato. Promette di non ripeterli: «Solo un imbecille ci casca due volte». Fa il segno della croce e finalmente annuncia: abbiamo vinto. Comincia la festa.

57 anni, Garcia ha governato il Perù dall’85 al’90. Un disastro. Quando scappa in Colombia per finire a Parigi, ospite di Mitterrand, lascia un paese in rovina. Inflazione al 7 mila per cento, economia a pezzi, esodo biblico di capitali, Sendero Luminoso e Tumac Maru insanguinano le strade mentre esercito e polizia perdono la testa. La rivolta di un carcere di politici finisce in massacro: 300 morti come negli anni cinquanta quando Arguedas, poeta bianco della realtà indigena, impazzisce e si toglie la vita per l’orrore della carneficina alla quale assiste rinchiuso nel Sexto, prigione destinata ad intellettuali troppo teneri coi popoli delle Ande estranei alle abitudini borghesi di Lima.

Sulla scheda che distribuiscono i dirigenti dell’Apra, il più antico partito socialista dell’America Latina, Garcia confessa una sola professione: ha fatto sempre il politico. La madre – Nyta Perez – appartiene alla storia del partito: lo ha fondato assieme al Carlos Garcia Ronceros, padre di Alan. E per fedeltà all’impegno proibito sono costretti alla clandestinità, ecco perché nel’85, quando il giovanotto vince le elezioni, le speranze del popolo sembrano finalmente realizzate. Illusione. Alan le brucia: corruzione che travolge partito e stato. E il Fujimori al potere rivela le carte segrete che Garcia cercava di nascondere. Comincia l’esilio, continuano i sospetti fino a quando anche Fuji si rifugia clandestino in Giappone (sempre mani lunghe, ma anche strani delitti ) e il presidente provvisorio Valentin Panlagua cancella con l’amnistia tutti i peccati. 2001, quasi un miracolo. Garcia torna, sfida Toledo e Lourdes Flores. Dopo dieci anni di silenzio in appena tre settimane scavalca Flores e si avvicina al vincitore. Promette poco. Nei comizi canta «Peru, mio amor», mano che sfiora l’arpa. Le piazze si riaccendono e i suoi socialisti risorgono come seconda forza del paese. Adesso ha vinto, ma i problemi restano.

Con chi governerà? Non ha i numeri per decidere da solo. Ollanta Humala ha conquistato 45 dei 120 seggi del Congresso. Alan 36, Loudes Flores 16, Keiko Fujimori 13, Valentin Panlagua 2. La Flores manda messaggi chiari: Garcia deve sapere che gli ha solo prestato i voti, voti della paura. Vuole condividere la gestione del paese. Paura di Ollanta Humala e del Chavez che galleggiava alle sue spalle. Ma i sedici deputati di Flores non bastano. Servirebbero anche i 13 della ragazza Fujimori per impiantare una maggioranza. Insomma, mosaico traballante. Opus Dei e il Chino tanto odiato: i socialisti dell’Apra non lo sopporterebbero. Così i vecchi nemici devono abbracciarsi. Il paese resta confuso anche perché Keiko Fujimori si è candidata quando il padre è finito nelle prigioni cilene e la corte suprema gli ha proibito di offrirsi agli elettori. Ecco la sorpresa: la ragazza (29 anni ) imita Alan nella campagna elettorale. Non parla quasi mai, preferisce ballare sui palchi dei comizi. E raccoglie 590 mila preferenze quando nessun deputato ha superato le 200 mila. Subito annuncia la campagna per far tornare il padre e «restuirgli l´onore che merita». Questi gli alleati?

Seconda ipotesi: dopo essersi battuti all’ultimo sangue, Garcia e Ollanta sono costretti a fare pace e governare assieme, magari attraverso tecnici defilati nei due schieramenti. Costretti, perché la divisione geografica dei voti lo impone. Alan ha vinto a Lima dove vive il 40 per cento della popolazione. Ha vinto a Piura, città bollente del nord riscaldata dall’appello anti Humala dello scrittore Varagas Llosa che a Piura è cresciuto nella casa del nonno governatore. Ha vinto ad Arequipa, capitale bianca del Perù. Ha vinto nelle città, ma ha perso tragicamente sull’altipiano e in ogni campagna. Ollanta Humala governa in 15 regioni, forse 16, con maggioranze bulgare, ma che sono indigene. Garcia ne ha conquistate 9, forse 8. Se la concentrazione urbana favorisce l’Apra nel conto dei voti, l’estensione delle regioni di Ollanta copre più di mezzo paese. Territori e popoli raccolti attorno alle frontiere con la Bolivia dove le nazionalizzazioni e la distribuzione delle terre di Morales hanno acceso le fantasie e dove Chavez va e viene con l’aria dello zio del petrolio.

Non a caso il primo saluto Alan Garcia lo rivolge «all’amica Bolivia, paese imprescindibile nel destino del Perù». Con Chavez resta dura: insulti fino all’ultimo minuto e il proposito annunciato dal leader venezuelano, a due passi dal lago- confine Titicaca, di rompere ogni rapporto con Lima «nel caso vinca il grande ladro», cioè Garcia. Ecco perché Miguel Inzulza, segretario dell’Oea -confederazione paesi americani – da 24 ore sta minimizzando i dissapori tra i paesi «fratelli». Ricucitura faticosa ma è già cominciata. Del resto Inzulza è cileno e un Perù diviso tra «lo blanquitos» delle città e gli indigeni delle montagne, non rasserena i vicini attorno. Nel gioco delle bandiere, la bandiera del nuovo Perù non è, dunque, né rossa, ne rosa. Rosa pallido, se lo diventerà.

 

 

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