1615 Pace, bene e Dossetti

20060619 17:28:00 webmaster

Maurizio Chierici (da l’Unità)

Quei soldati che tornano dall’Iraq. Chi li ha mandati vorrebbero restassero; chi si è opposto al coinvolgimento nella sciagura irachena, chiede di affrettarne il ritorno. Sempre in nome della pace. Pace vuol dire tante cose. Trasforma promesse e serenità da una bocca all’altra. Per esempio, le vestali del liberismo considerano pace-democrazia e giustizia sociale una specie di triangolo della morte da tener d’occhio, armi alla mano. Succede in America Latina, nel Pakistan del generale amico dell’occidente, per non parlare delle afriche petrolio e diamanti. Normalizzare la pace diventa la violenza armata che reprime chi non accetta l’ingiustizia della povertà di quasi tutti, imposta da ricchezza e appetito di pochi.

Milan Kundera, scrittore della leggerezza dell’essere, fa dire al protagonista che si affretta ad attraversare la stazione di Vienna in fuga dalla Praga dei carri russi: «La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio».

Ecco il problema: chi ha voglia di ricordare?

I tecnici della guerra non ne sentono l’urgenza. Innamorati del mestiere delle armi temono la pace come le persone miti si spaventano per guerra. E la memoria degli orrori diventa il fastidio dei «soliti pacifisti». Non sempre i falchi sono in divisa. Falchi grassi, falchi assopiti sui banchi del Parlamento, falchi per opportunità, falchi per affari, falchi perbene nelle abitudini quotidiane ma furibondi di fronte ai nemici che ogni mattina i giornali agitano, fantasmi in agguato. Chissà quale complesso li angoscia se non possono vivere senza nemico. Non si capisce perché certi politici destinati a mediare tra i sentimenti della gente e i problemi del paese si lascino trascinare dalla gran cassa: patria, onore, sacrificio. Cravatta e doppiopetto, fronte di Porta a Porta. Non importa quanti morti patria – onore – sacrificio lasciano per strada. Lo esige l’orgoglio del paese. È la non ragione della superficialità. Soprattutto quando le trombe sono cristiane e trasformano la fede nel muro dell’incomprensione. Per fortuna sono pochi i credenti così. Dal cassetto del giornalista escono due lettere di un cattolico che voleva essere solo cristiano; di un politico che voleva essere solo coerente nell’amministrare il bene pubblico senza tradire l’etica alla quale si affidava.

Due lettere di Giuseppe Dossetti. Le ha scritte nei primi giorni della prima guerra del Golfo al giornalista che voleva incontrarlo. Il professore era appena arrivato in Giordania dall’ Italia. richiamato dai bombardamenti che stavano per incendiare il Medio Oriente. Si ritira nella piccola comunità a poche rampe dal crinale del Monte Nepo, sperone sulla «terra promessa». Poche righe fanno capire che Dossetti è stato un politico cattolico dalla lealtà diversa da quella di Giovanardi, Formigoni o Casini, alfieri di una cristianità teleciarliera. Nel 1945 era vice di De Gasperi alla segreteria Dc. Veniva dalla Resistenza, presidente del Cln di Reggio Emilia. Comandante a mani nude: non ha mai impugnato un’arma. Alla Cattolica di Milano fa parte del gruppo dei «professorini»: La Pira, Lazzati, Fanfani. Il suo contributo alla stesura della carta costituzionale è essenziale: media tra De Gasperi e Togliatti nella scrittura del documento i cui valori etici hanno assicurato al paese 60 anni di democrazia. Nel 1952 lascia la politica, breve riapparizione nel ’54: accoglie l’invito di Montini per contendere il comune di Bologna al sindaco Dozza. Sapeva dell’inutilità del «sacrificio». A suo parere i governi De Gasperi immiserivano i grandi disegni in una routine di basso profilo. Ma non vuol metterlo a disagio con una crisi che avrebbe spalancato il potere del partito alla destra dei comitati civici di Gedda. Se ne va in silenzio. Nel 1956 fonda la comunità della Piccola Famiglia dell’Annunziata a Monteveglio, sopra Bologna. La regola che impone è ancora silenzio, preghiera, lavoro, povertà. Incontra il cardinale Lercaro; lo assiste durante il Concilio Varticano II. Tre anni dopo diventa sacerdote. Va in Terra Santa dove apre tre comunità: ad Amman, Gerico e Gerusalemme. È testimone dell’occupazione israeliana in Cisgiordania, e accompagna il dolore dell’esodo dei profughi palestinesi. Nasce la comunità del monte Nepo. Torna a parlare di politica nel 1994 quando il Berlusconi del primo governo annuncia di voler cambiare la Costituzione. Scrive una lettera al sindaco di Bologna: impressiona l’attualità dell’allarme del Dossetti di dodici anni fa. Sembra scritta pensando al referendum di domenica: «Auspico la sollecita promozione, a tutti i livelli, dalle minime frazioni alle città, dei comitati impegnati e organicamente collegati nella difesa dei valori fondamentali espressi dalla nostra Costituzione: comitati che dovrebbero essere promossi non solo per riconfermare ideali e dottrine, ma per un’azione che sperimenti tutti i mezzi possibili, non violenti, che l’emergenza attuale pone a gli uomini di coscienza. Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo, di mutare la nostra Costituzione. Si arrogherebbe un compito che potrebbe assolvere solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta. Altrimenti sarebbe un autentico colpo di stato».

Come ogni giornalista, il giornalista che dall’albergo di Amman si rivolge a Dossetti in quel gennaio ’91, aveva bussato tante volte alle quattro comunità sparse da una parte e dall’altra delle frontiere che tagliano la terra santa. Dossetti non aveva risposto. L’impegno al silenzio continuava. Ma la guerra cambia tante cose, e Dossetti scrive la prima lettera.

31 gennaio 1991

«Cortese signore, non rispondo alle sue domande, ma credo dovermene scusare e dare un cenno di riscontro al suo biglietto. Non so se, come lei dice, sono ‘un uomo di pace’. Desidero la pace per tutti e fra tutti. Ma sento che è ben altra cosa essere in veste di ‘facitori di pace’ nel senso del Discorso della Montagna: cioè, non so se sono di coloro cui Gesù promette la beatitudine di essere figlio di Dio (Matteo 5,9). Mi sembrerebbe grande presunzione quella di esserlo, anche se resta il mio desiderio più grande. Perciò, ancor più da quando questa guerra è realmente scoppiata, mi pare di dovermi attenere ancora più rigorosamente ai miei propositi, senza nessuna eccezione. Solo così penso di potermi avvicinare e diffondere quella pace che, come lei osserva, è un bene universale: a diffonderla, spero, non a parole ma col silenzio e con i fatti, quelli più profondi, più duraturi e perciò più umili, ed essi pure più silenziosi, più schivi di ogni clamore. La prego nuovamente di scusarmi. Spero di essere stato compreso. Con cordialità viva e vera, suo Giuseppe Dossetti».

5 febbraio 1991

«Gentile signore, come ho già avuto modo dire qui in Giordania a lei e a qualche suo collega, dal momento che questa guerra – contro ogni speranza di ragionevolezza – è deplorevolmente scoppiata, credo di dover osservare ancora più rigorosamente il mio solito riserbo. Ciò mi è imposto, oltre che dai principi e dallo stile cui ispiro la mia vita, anche dalla necessaria delicatezza verso i Paesi nei quali le nostre quattro comunità, di qua e di la dal Giordano, vivono ospiti. La nostra presenza in quest’area non si propone altro fine che quello di un semplice incoraggiamento ai cristiani a restare e a non cercare di evadere (oltre se mai quello di attestare un nostro ascolto e una nostra attenzione verso non poche rivendicazioni islamiche di questa congiuntura). Quindi il nostro essere qui non può non essere rispettoso, umile e pacifico, non solo nelle intenzioni, ma anche nei comportamenti e nei fatti. Deve guardarsi, perciò, dalle parole, che sempre, ma particolarmente in circostanze come queste, possono essere equivocate e stravolte.

Dice il Salmo 33, 14-15: ‘ Preserva la lingua dal male, le labbra da parole bugiarde. Sta lontano dal male e fa il bene, cerca la pace e perseguila’. Ho l’impressione che non si persegua la pace, quando non solo si dicono parole ambigue ed equivoche, ma si dicono tante ‘parole bugiarde’. Ed equivoca è la decisione di inviare uomini armati delle forze armate nazionali in zone di guerra adducendo il proposito di dividere chi spara per proteggere la popolazione nella pace. La scelta delle organizzazioni internazionali di tutela della pace dovrebbe essere fortemente pacificatrice negli interventi e nelle mediazioni senza rafforzare gli schieramenti con altre armi. Non è il rischio che si annuncia, ma la certezza: solo le armi continueranno a dialogare. Come italiano e antico costituente potrei solo aggiungere che molte menzogne si sono dette al Parlamento italiano, quando per giustificare la partecipazione delle nostre forze aereo-navali, si è fatto dire all’articolo 11 della nostra Costituzione ciò che non corrisponde né alla sua lettera, né al suo spirito, né nella prima parte, né nella seconda la quale non attenua ma conferma il ripudio della guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali. Tanto più che si è preteso ricollegare questa interpretazione a una finzione verbale e al ristabilimento di una legalità internazionale nel quadro della carta dell’Onu. La quale carta è stata in passato troppe volte, come tutti sanno, non strumento di legalità, ma di sopraffazione e di puro arbitrio egemonico: con l’aggravante che ora, in questa congiuntura, mentre formalmente in nome dell’Onu si è scatenata una guerra avviata a divenire sempre più non circoscritta ma illimitata nei fine, nei mezzi e negli sviluppi che coinvolgeranno altre popolazioni di religione diversa, l’Onu medesima si sta rendendo latitante e sembra avere abbandonato la guerra a se stessa (e forse ancor più la pace del tutto indefinita che dovrebbe seguirne), e cioè sembra aver abbandonato il conflitto all’arbitrio per così dire ‘tecnico’ di una delle due parti in contesa. La ringrazio per il libro che mi ha fatto avere. Mi scusi, ma non è possibile incontraci. Cordialmente, Giuseppe Dossetti».

Ma il giornalista insiste. Ancora una lettera. Finalmente l’incontro fra le mura quiete della piccola comunità di Ma’hin, sotto il crinale di Monte Nepo, terra promessa sfiorata da Mosé. Cannoni e carri puntati sul Giordano. Ovunque, la guerra. Il colloquio allarga ( appena ) le parole delle lettere. Mani incrociate sul volto, Dossetti ascolta le nuove domande alle quali raramente dà nuove risposte. Ma non è pentito, spiega al momento dei saluti, di «avere detto ciò che pensavo, com´è dovere in questi giorni».

mchierici2@libero.it

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